Nouvelle Vague e fenomenologia

Sabrina Pate

Novembre 4, 2021

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Nouvelle Vague e fenomenologia

«”Se sei fenomenologo, puoi parlare di questo cocktail, ed è filosofia!” Sartre impallidì, o quasi, dall’emozione; era esattamente ciò che desiderava da anni: parlare delle cose come le si toccano, e che questo fosse filosofia».

(Simone De Beauvoir, L’età forte, 1960)

Parlare delle cose come le si toccano. Parlare del vissuto, dell’esperienza umana e attribuire a questa indagine il valore di analisi filosofica. Vedere e lasciarsi toccare da ciò che si è visto, così come lo si è visto: questa è la fenomenologia.

Già affermatasi nella storia della filosofia come indagine metodologica del fenomeno, la fenomenologia si configura come una nuova e rivoluzionaria corrente filosofica grazie al contributo del filosofo austriaco Edmund Husserl. Si tratta di partire dalla descrizione di ciò di cui si fa esperienza per cogliere, tra i fenomeni volgarmente intesi, ciò che in essi non viene portato tematicamente a espressione: l’ignoto nel noto, l’implicito nell’esplicito.

Il motto husserliano che incarna l’aspirazione della fenomenologia è «andare alle cose stesse» (Zu den Sachen selbst!): cercare di vedere i fenomeni – ciò che appare, che è manifesto – effettivamente per come si danno.

Jean-Luc Godard, Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir

Risulta, tuttavia, erroneo e fuorviante parlare di una fenomenologia, poiché a partire da Husserl questa proposta filosofica si è diramata dando vita a progetti filosofici estremamente differenti.

La scelta di aprire questo articolo con la citazione di Simone De Beauvoir, che descrive l’entusiasmo sartriano al primo incontro con la fenomenologia, è tutt’altro che casuale. Massimo esponente dell’esistenzialismo francese, personalità di spicco della Parigi di metà Novecento, Jean-Paul Sartre propone ne L’essere e il nulla (1943) una ontologia fenomenologica che si presenta come una ricostruzione dei vissuti quotidiani di ciascuno. Ciò che importa è il come, il modo in cui le cose si danno a noi.

In particolare, la proposta fenomenologica sartriana assume la forma di una metafisica esistenzialista che si interroga sul rapporto tra il mondo e l’uomo che, per il filosofo, è connotato in modo fondamentale dalla sua libertà.

Jean-Paul Sartre tra Nouvelle Vague e fenomenologia

Sarebbe legittimo chiedersi perché tra Edmund Husserl, Martin Heidegger, Max Scheler, tutti grandi fenomenologi, poniamo l’attenzione proprio su Sartre. Ebbene, se lo scopo di questo articolo è illustrare l’influenza che la fenomenologia ha esercitato su quel rivoluzionario movimento cinematografico che è la Nouvelle Vague, risulta di primaria importanza considerare che il filosofo francese non solo scrisse di cinema e si interrogò sul mezzo cinematografico, ma intrattenne anche relazioni personali con alcuni di questi giovani registi, primo fra tutti Jean-Luc Godard.

Se Gilles Deleuze classifica Husserl come un «falso alleato» del cinema, opere giovanili come Apologie pour le cinéma (1924) o L’art cinématographique (1931) dimostrano l’entusiasmo sartiano nei confronti della settima arte. La riflessione dominante dell’epoca era ancora acerba e incapace di prevedere la straordinaria portata del mezzo cinematografico. Sartre dimostra però di possedere l’audacia di andare controcorrente. Assume, così, le vesti di un cinefilo, un grande appassionato di cinema che non può che restare folgorato di fronte al rincorrersi delle immagini sullo schermo.

«Nel disagio egualitario delle sale di quartiere, ho appreso che quest’arte era mia, come di tutti. Noi avevamo la stessa età mentale: io avevo 7 anni e non sapevo leggere, il cinema 12 e non sapeva parlare. Si diceva che era ancora ai suoi inizi, che si sarebbe sviluppato sempre di più: pensai che saremmo cresciuti insieme».

(Jean-Paul Sartre, Le parole, 1970)

Di fronte allo sgargiante luccichio dell’industria hollywoodiana, il filosofo esprime, tuttavia, l’esigenza di tornare a un cinema che si ponga come «affresco sociale», che descriva l’esistenza così come essa si dà. Il cinema è, difatti, un’«arte bergsoniana»: l’arte che più di ogni altra testimonia il movimento inarrestabile che è proprio della realtà che ci circonda.

Se l’uomo è la sua esistenza, un continuo farsi, mai definito, mai determinato, il cinema, come arte del movimento, si afferma come il mezzo espressivo privilegiato per rappresentare l’intima contingenza di tutto ciò che esiste.

Jean-Paul Sartre e Jean-Luc Godard

L’esigenza di rappresentare la realtà nuda e cruda, cui deve venire incontro l’arte dello schermo, sembra essere riconosciuta e soddisfatta dai giovani critici dei Cahiers du Cinéma e, in particolare, dal teorico che ne animò le rappresentazioni filmiche: André Bazin. La riflessione sartriana sull’immagine ha, difatti, esercitato una straordinaria influenza sullo sviluppo della teoria filmica francese nel periodo dopo la guerra.

Bazin, come Sartre, identifica nel carattere «ontologicamente reale» del cinema, uno dei suoi pilastri fondamentali. Le immagini sullo schermo devono restituire il flusso perpetuo di tutto ciò che esiste, quel movimento inarrestabile che avvolge le cose nella loro contingenza, nel loro essere così e così. Il cinema deve trasmettere il più possibile una credibilità del racconto, un realismo.

«La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo».

(Jean-Luc Godard)

Sartre e Godard

La Parigi del dopoguerra in cui Sartre si affermò come intellettuale era dominata dal suo pensiero. La sua riflessione teorica esercitò un’influenza straordinaria su numerose personalità dell’epoca, primo fra tutti il giovane Jean-Luc Godard, che lo ammirava da lontano, tra i tavoli del celebre Café de Flore.

«Volevo leggere tutto. Volevo sapere tutto. L’esistenzialismo era giunto all’apice a quei tempi. Tramite Sartre ho scoperto la letteratura, e poi mi ha portato a tutto il resto».

(J.L. Godard)

Questa iniziale infatuazione si è tramutata con il passare del tempo in una reciproca e bilaterale influenza tanto sul piano della theoria quanto su quello della praxis, come testimonia la collaborazione per il giornale La Cause du peuple. Tale vicinanza biografica ha pertanto reso possibile un proficuo scambio di idee tra le due personalità di spicco nella realtà parigina. La filosofia sartriana si incarna in modo sublime nelle opere del giovane cineasta e delle altre personalità che hanno dato vita a questa “nuova ondata”.

La fenomenologia ha dunque rivestito un ruolo di primo piano nella definizione programmatica della Nouvelle Vague.

Godard, Rohmer, Chabrol, Rivette e Truffaut

Il primo lungometraggio realizzato da Godard, che segna di fatto l’avvento del cinema moderno, Fino all’ultimo respiro (1960), esprime precisamente quella volontà propria dell’indagine fenomenologica di portare avanti un’analisi dei vissuti, del tutto contingenti, di personaggi straordinariamente ordinari. Come per la maggior parte delle pellicole della Nouvelle Vague, le romantiche vie di Parigi sono teatro di una storia semplice, quasi banale, che si afferma come uno spaccato di quotidianità.

La fenomenologia ha esercitato una straordinaria influenza sulla Nouvelle Vague, in particolare tramite la filosofia di Jean-Paul Sartre.
Jean Seberg (Patricia) e Jean-Paul Belmondo (Michel) in “Fino all’ultimo respiro” (1960)

Il fenomenologo parte dalla caotica molteplicità dell’esperienza per risalire a un fondamento, a un elemento più profondo che ne attribuisca un senso. Allo stesso modo, Godard proietta al di fuori dello spettatore la contingenza che connota tutto ciò che esiste, mediante la rappresentazione di soggetti che incarnano una libertà in situazione. L’attenzione è rivolta all’individuo e alla sua piccola storia, ma l’indagine di un vissuto particolare può essere portatrice di un messaggio universale.

Michel e Patricia vengono sballottolati da una parte all’altra delle vie di Parigi, e restituiscono precisamente l’incessante movimento di un mondo apparentemente privo di senso, che sfugge alla nostra volontà.

La rappresentazione dei tempi morti dell’azione, come il lungo piano sequenza che li riprende di spalle mentre passeggiano per gli Champs-Élysées, testimonia un’attenzione per la vita così come essa è e si manifesta nel vivere quotidiano. Il ricorso ai jump-cut – uno o più tagli nel montaggio – ci restituisce una visione degli eventi filtrata dagli occhi dei protagonisti, facendo della rappresentazione una trasposizione dei loro vissuti personali.

Allo stesso modo, sguardi in macchina e inquadrature in soggettiva consentono allo spettatore di infrangere la quarta parete e sentirsi personaggi all’interno della finzione filmica.

La fenomenologia ha esercitato una straordinaria influenza sulla Nouvelle Vague, in particolare tramite la filosofia di Jean-Paul Sartre.
Jean Seberg nel finale di “Fino all’ultimo respiro” (1960)

Di straordinaria potenza è lo sguardo in macchina di Jean Seberg nell’inquadratura finale del film che, dopo aver consegnato Jean-Paul Belmondo alla polizia, ci domanda: «Qu’est-ce que c’est dégueulasse?» (che schifo è questo?). Un vissuto particolare si fa così portatore di interrogativi universali. Una storia così semplice e banale, quella di un bandito che vuole convincere la sua amante a fuggire in Italia, nasconde temi fondamentali come l’incomunicabilità.

Sebbene, infatti, i due personaggi scambino battute in modo frenetico per quasi tutto il film, sembrano viaggiare su due binari del tutto differenti, come due tangenti che si incontrano solo per un istante, per poi intraprendere due direzioni opposte.

Patricia: «Conosci William Faulkner?».

Michel: «No, chi è? Ci sei andata a letto?».

D’altro canto, se i due protagonisti godardiani hanno qualche antecedente narrativo, allora questo è il passaggio parallelo de La nausea (1938), dove Antoine fa visita alla sua vecchia amante, Anny, nella sua camera d’albergo parigina. Quasi di riflesso, i personaggi del capolavoro della Nouvelle Vague si fanno portavoce della fenomenologia sartriana.

La rappresentazione cinematografica propone un’analisi delle relazioni interpersonali che sembra ricalcare l’idea del filosofo per la quale le relazioni amorose sono impossibili e le relazioni intersoggettive prendono forma solo ed esclusivamente in un orizzonte di sadomasochismo.

L’impronta sartriana sul genio godardiano persiste anche nelle sue pellicole successive. Ne Il maschio e la femmina (1966), il cineasta parla dei rapporti giovanili uomo-donna, un tema spesso frequentato da questi giovani registi. Come nel suo primo lungometraggio, Godard non consegnò agli attori una rigida sceneggiatura da seguire. Così, lo scambio di battute tra i due protagonisti, Paul e Madeleine, restituisce una straordinaria spontaneità e una immediatezza.

Il cineasta, ancora una volta, assume le vesti di un fenomenologo e a partire dalla descrizione di vissuti particolarissimi scorge l’elemento che li accomuna e che ne sta a fondamento nel dramma dell’incomunicabilità sentimentale. I due, infatti, non riescono a condividere efficacemente l’uno con l’altro i propri sentimenti.

Jean-Pierre Léaud (Paul) e Chantal Goya (Madeleine) ne “Il maschio e la femmina” (1966)

L’analisi fenomenologica assume così nuovamente la forma di un’indagine delle relazioni interpersonali, mostrando come il mondo del maschile e del femminile stiano mutando dal punto di vista sociologico.

Nouvelle Vague e fenomenologia in Truffaut

Niente affatto spettacolari, le pellicole della Nouvelle Vague prediligono la semplicità del vivere quotidiano. Emblematico in questo senso è l’intero progetto di seguire la vita di Antoine Doinel – nonché dell’attore Jean-Pierre Léaud – dall’infanzia all’età matura. La narrazione che François Truffaut inaugura con I 400 colpi, nel 1959, e conclude con L’amore fugge, nel 1979, rivela il tentativo di trasporre su pellicola l’inesorabile scorrere del tempo, presentando un vissuto nella sua banale, quasi imbarazzante, quotidianità.

Antoine è un bambino come tanti altri, con una situazione familiare complessa e un amico fedele con cui condivide le sue storie di ordinaria follia. Non si tratta, tuttavia, di un vissuto qualsiasi, poiché il giovane Jean-Pierre Léaud si fa alter-ego del regista, che si è ispirato direttamente alla sua infanzia.

Attraverso la dimensione autobiografica, Truffaut cerca un nuovo rapporto con il reale, più autentico e complesso, capace di esplorare gli aspetti angosciosi e contraddittori dell’esistenza umana.

Il cineasta sembra così esprimere per tutta la sua carriera un intento strutturalmente fenomenologico: dar voce all’esistenza nelle sue molteplici forme e contraddizioni, sottoporre a indagine esperienze estremamente singolari, dalla propria infanzia, allo sconfinato amore per il cinema in Effetto notte (1973), nella disperata ricerca di un senso.   

La fenomenologia ha esercitato una straordinaria influenza sulla Nouvelle Vague, in particolare tramite la filosofia di Jean-Paul Sartre.
Jean-Pierre Léaud (Antoine) ne “I 400 colpi” (1959)

I capolavori della Nouvelle Vague si ergono così a manifesto di quella amalgama di fatti banali e frivoli, ma al contempo straordinari, che è la vita. Anna Karina danza energicamente ne La donna è donna (1961), e nel suo danzare sembra quasi fuggire dalla macchina da presa, come il gruppo di amici in Bande à part (1964), che corre per le imponenti sale del Louvre, e, ancora, il trio che corre giocosamente in Jules e Jim (1962). Questo tentativo di immortalare la frenesia di un attimo, la profondità di un istante rivela l’inimitabile prospettiva fenomenologica di cui questi registi sono stati portavoce.

«Il film non si pensa, ma si percepisce».

(Maurice Merleau-Ponty, Il cinema e la nuova psicologia)

Leggi anche: Attraverso il Cinema: Merleau-Ponty e l’arte cinematografica

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