Truffaut e Godard – Confronto artistico e politico

Francesco Saturno

Ottobre 29, 2021

Resta Aggiornato

Scrivere di un confronto politico-artistico tra Truffaut e Godard significa anche rintracciare i punti in comune e i punti di divergenza tra i due registi. Due amici-nemici, due totem del cinema europeo, due cardini della rivoluzione cinematografica, due bastioni fondamentali della narrativa cinematografica dagli anni ’60 del secolo scorso in poi, Godard e Truffaut si pongono come quei registi da dover imprescindibilmente conoscere, non solo per capire il cinema successivo, ma anche per cogliere quanto di più rivoluzionario ci fu nelle loro opere. L’innovazione cinematografica apportata da queste due punte di diamante della Nouvelle Vague fa sentire la sua eco ancora oggi.

Truffaut e Godard - Confronto artistico e politico
Godard e Truffaut

Il termine “nouvelle vague” venne utilizzato per la prima volta nel 1957, dal settimanale francese L’Express, in un contesto che col cinema non aveva ancora niente a che fare. Dopodiché rappresenterà il mezzo per dare un nuovo volto alla settima arte, abbandonando vecchi stereotipi cinematografici e ricercando nuovi temi. Nell’attingere direttamente dalla realtà, i nuovi registi emergenti erano innanzitutto dei fervidi appassionati di cinema, attivi frequentatori di cineclub e cinema d’essai, che volevano rendere la loro passione un lavoro vero e proprio.

Godard si formerà come critico cinematografico nella rivista Cahiers du cinéma, che insieme ai giovani turchi Truffaut, Claude Chabrol e Éric Rohmer, allievi spirituali del famoso critico cinematografico André Bazin, andava contro il cosiddetto cinéma de papa, ovvero un certo modo commerciale di fare film in Francia. Godard, una volta, disse alla vecchia guardia del cinema francese: «non sapete fare cinema perché non sapete più cos’è».

«Noi non possiamo perdonarvi di non avere mai filmato le ragazze che amiamo, i ragazzi che incontriamo ogni giorno, i genitori che disprezziamo o ammiriamo, i bambini che ci meravigliano o ci lasciano indifferenti, insomma le cose così come sono».

(Jean-Luc Godard)

Di fronte al vecchio cinema noi possiamo rintracciare una duplice tendenza nei registi della Nouvelle Vague: una che mirava più ad accogliere l’eredità del cinema tradizionale, rappresentata da registi come Chabrol, Rohmer e Truffaut, e una seconda che invece era soltanto motivata a sperimentare un cinema completamente nuovo, sostenendo che dopo la rivoluzione fosse sconveniente e controproduttivo ritornare al cinema classico e ai suoi modelli di finzione. Questa seconda tendenza la possiamo ritrovare soprattutto in Godard.

Dalla critica al vecchio cinema nacquero i famosi Cahiers du Cinéma, a cui partecipavano sia Godard che Truffaut, e che erano la rappresentazione di una critica che, per la prima volta, non riduceva tanto il regista a quello che diceva, ma piuttosto lo elevava al come lo diceva. Godard arrivò ai Cahiers du Cinéma attraverso Truffaut e il cineclub del Quartiere Latino. Il cineclub del Quartiere Latino era frequentato soprattutto da registi come Rohmer e Rivette.

L’interpretazione personale della rivoluzione cinematografica venne però presa dai due registi in modi differenti: Godard più radicale e autarchico, Truffaut più medio-borghese.

Ma entrambi gli artisti, in fondo, riprendono il pensiero del regista francese Alexandre Astruc, che già nel 1948 esprimeva l’idea secondo cui la macchina da presa dovesse essere utilizzata dal regista così come lo scrittore utilizza la penna per scrivere il suo libro. È il concetto di caméra-stylo che verrà riletto, a seconda delle proprie modalità personali, dai diversi registi affluenti alla corrente della Nouvelle Vague.

Truffaut e Godard - Confronto artistico e politico
Godard in compagnia di Sartre

L’impegno sociale, politico e filosofico di Godard è forse ben espresso anche dalle sue amicizie. Qui lo vediamo per esempio in compagnia di Jean-Paul Sartre, esponente di spicco dell’esistenzialismo francese, grazie al quale i temi riguardanti la vita umana vennero approfonditi proprio in quest’ottica.

Forse una delle differenze tra Truffaut e Godard la possiamo rintracciare proprio in questa tendenza del primo a sporcarsi le mani, anche attraverso i suoi film, con dei temi sociali che avessero un’incidenza non solo culturale, ma anche a loro modo politica; il secondo, invece, rimase più sui temi dell’esistenza, preferendo rappresentare il sociale en passant, probabilmente senza interrogarlo troppo e senza criticarne approfonditamente i fenomeni di massificazione.

Il loro cinema rispecchia questa differente visione della realtà e del ruolo socio-politico che deve avere la produzione filmica. Abbiamo, quindi, un Godard più sul versante della critica sociale e un Truffaut più dal lato della critica esistenziale. Naturalmente entrambi gli elementi partecipano in tutt’e due i registi, ma a gradi e livelli differenti.

Affannato fruitore di letteratura e cinema, consumatore senza pregiudizi dell’arte, Truffaut in ventiquattro anni si è immerso nella macchina da presa sperimentando diversi generi, sempre attento alle condizioni di vita semplici e immediate delle persone, sicuro che a essere frustrante non fosse tanto «il cinema, ma il resto della vita», così come ebbe a dire una volta, prima che all’età di cinquantadue anni si perdessero le sue tracce e la sua morte lasciasse alle sue opere il compito di renderlo, a suo modo, immortale.

Genio della sensibilità, lettore emotivo dell’esistenza, attento rappresentatore della quotidianità della vita e dei suoi scacchi, Truffaut ha lasciato un cinema che respira l’aria della leggerezza e dell’inquietudine, mettendo in scena un modus operandi che si vuole liberare dall’astrusità dell’efficienza e della costruzione artificiale. Truffaut, in un articolo apparso su Les Cahiers du Cinéma del 1951, aveva spiegato che la messa in scena è il riflesso dell’autore e della sua soggettiva visione della realtà.

Degno di nota, a questo proposito, è il tentativo di Truffaut, in Effetto notte (1973), di rappresentare, in parallelismo e in discordanza con l’8 e mezzo di Fellini, ciò che c’è dietro la costruzione di un film.

Truffaut e Godard - Confronto artistico e politico
Truffaut

Godard invece proseguirà per la sua strada, evitando di girare «film prodotti e consumati da una società di cui si augura la distruzione», per usare le parole della critica mossa dallo stesso Godard verso Truffaut.

Girare una pellicola significa per Godard prima di tutto partire da un contesto più evocativo che narrativamente logico, accompagnato da una consapevolezza critica e teorica alla cui base c’è una necessità di linguaggio diversa da tutte quelle che erano esistite fino ad allora. In questa cornice contestuale si inserisce la preziosa lezione che, ancora oggi, possiamo trarre dai film di Jean-Luc Godard: quello che basta per fare un grande film è un’urgenza, un’emergenza pulsionale di linguaggio. La paura di rompere coi vecchi cliché della tecnica cinematografica non deve fermare il regista né la sua spinta narrativa e, soprattutto, rappresentativa.

Gli attacchi scoordinati, il montaggio avvolto nel caos, la frammentazione della trama e della struttura narrativa, le citazioni dei film a basso budget degli americani, ma soprattutto quel sorriso da canaglia di Jean-Paul Belmondo (che insegue sugli Champs-Elysées la tenera e sofferente Jean Seberg intenta a vendere il New York Herald Tribune)… è qui, tra questi elementi, che si può rintracciare la rivoluzione artistica di Godard e il suo nuovo modo di leggere e interpretare il cinema. 

Fino all’ultimo respiro (1960) sancisce l’esordio ieratico di Godard. Fu un capolavoro apripista della Nouvelle Vague che lo rese celebre in tutto il mondo.

J. P. Belmondo e Jean Seberg in “Fino all’ultimo respiro” (1963)

Bernardo Bertolucci, che l’ha sempre osannato come grande genio, per esempio premiandolo con il Leone d’oro del 1983 in veste di presidente di giuria a Venezia, disse in un’intervista che Godard aveva la stessa importanza di un mostro sacro come Charlie Chaplin. 

«Il cinema deve andare ovunque. Bisogna fare la lista dei luoghi dove non c’è ancora e farcelo arrivare. Se nelle fabbriche non c’è, deve andare nelle fabbriche. Se nelle università non c’è, bisogna portarcelo. E se nei bordelli non c’è, deve andare nei bordelli».

(J.L. Godard)

È con queste parole che Godard esprime tutto lo slancio artistico della sua individuale ricerca politico-cinematografica. L’autore di Fino all’ultimo respiro ha avuto un ruolo tanto importante nel panorama cinematografico francese e mondiale, a partire dagli anni ’60, da essere considerato l’iniziatore del cinema d’autore. Diventerà un punto di riferimento per famosi cineasti successivi, come ad esempio Bertolucci e Tarantino, che tuttavia svilupperanno con creatività uno stile unico e personale.

Cosa diventa, dunque, il cinema dopo la rivoluzione degli artisti di quella generazione? Il cinema, per essere definito veramente tale, deve creare un nuovo linguaggio, da un lato per riuscire a scrutare l’animo umano, dall’altro per affrontare argomenti più vicini alla realtà quotidiana. Il cinema inizia a considerarsi una forma elegante, e al contempo immediata, di ricerca artistica e filosofica. Il suo fine diventa la possibilità di far riflettere gli spettatori, immergendoli in un mondo che è quello di tutti i giorni, non quello inventato e distorto dalla macchina da presa.

Ci siamo: il cinema diventa così lo specchio della vita. E la vita umana è paradossale, articolata, complessa, non è semplice né è detto che il bene trionfi sempre sul male, come voleva invece quel cinema di matrice americana, dove il finale era sempre e solo felice. L’attenzione piuttosto si sposta ora verso i divini dettagli dell’ordinario, verso le angosce e le apprensioni di tutti i giorni, verso la quotidiana inquietudine (a saperla scorgere) dell’esistenza umana. Tutto è incerto nella realtà del mondo e della vita umana e il cinema deve rispecchiarlo.

Sempre in un numero dei Cahiers, Godard sosterrà, a proposito de Il disprezzo e di quanto appena detto:

«Film semplice e privo di mistero, film aristotelico, svuotato delle apparenze, Il disprezzo dimostra in 149 inquadrature, che nel cinema come nella vita non c’è nulla di segreto, nulla da chiarire, bisogna solo vivere – e filmare».

(J.L. Godard)

Michelle Piccoli e Brigitte Bardot ne “Il disprezzo” (1963)

Il cinema proposto da Truffaut e Godard è allora un cinema liberato e libero, che ridona un nuovo senso all’immagine cinematografica rispetto a quella usata solo in senso narrativo ed estetico, com’era prima del loro avvento.

Le dispute concettuali e politico-artistiche tra quelli che possono probabilmente essere considerati i maggiori esponenti di questa corrente, però, non mancarono. E, per concludere, può essere forse interessante, a questo punto, lasciarvi alle lettere di amicizia-inimicizia che Godard e Truffaut si scambiarono e che portarono alla rottura del rapporto tra i due. Qui il link del Cinema Ritrovato.

«[…] Sei un bugiardo, perché la tua inquadratura con Jacqueline Bisset, da Francis, l’altra sera, nel film non ci sarà, e ci si chiede come mai il regista sia l’unico che non scopa in Effetto notte[…] Visto Effetto notte, dovresti aiutarmi, perché gli spettatori non credano che i film si fanno solo come i tuoi. Tu non sei un bugiardo, come Pompidou, come me, tu dici la tua verità».

(J.L. Godard)

«[…] Tocca a me adesso darti del bugiardo. All’inizio di Crepa padrone-tutto va bene c’è questa frase: “per fare un film ci vogliono i divi”. Menzogna. Lo sanno tutti quanto hai insistito per avere Jane Fonda che non voleva, mentre i tuoi finanziatori ti dicevano di prendere una qualunque. […] Più tu ami le masse, più io amo Jean-Pierre Léaud, Janine Bazin, Helen Scott che tu incontri in aeroporto e a cui non rivolgi nemmeno la parola, perché, perché è americana o perché è mia amica? Comportamento di merda. […] L’idea che tutti gli uomini sono uguali è teorica per te, tu non la senti davvero, perciò non riesci a voler bene a nessuno, né ad aiutare nessuno se non buttando qualche biglietto sul tavolo. […] Tu sei come Ursula Andress, un’apparizione di quattro minuti, il tempo di far scatenare i flash, due o tre frasi a sorpresa e via, di ritorno a un comodo mistero. Dalla parte opposta rispetto a te, ci sono i piccoli uomini, da Bazin a Edmond Maire, e poi Sartre, Buñuel, Queneau, Mendès France, Rohmer, Audiberti, che chiedono notizie degli altri, li aiutano a riempire il modulo della previdenza sociale, rispondono alle lettere, hanno in comune una cosa: si dimenticano facilmente di se stessi e si interessano di più di quel che fanno che di quel che sono o di quel che sembrano».

(F. Truffaut)

Leggi anche: Nouvelle Vague: Manifesto cinefilo-esistenziale di una generazione

Correlati
Share This