Spoiler alert: questa recensione non è una recensione. Oppure lo è, ma è decisamente scorretta.
Dopo mesi trascorsi letteralmente a divorare teaser, sneak peek, tappeti rossi e interviste, sono andata a vedere finalmente l’ultimo attesissimo film di Luca Guadagnino. La gigantografia di Bones and All, è questo il titolo se non si fosse ancora capito, tratto dall’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, campeggia ormai per le strade, sulle facciate dei palazzi, sulle copertine delle riviste, ovunque. Questa operazione di promozione così capillare non ha fatto altro che fomentare le mie aspettative per poi deluderle, ahimè, senza alcuna riserva. Ora i volti dei protagonisti, i giovanissimi Timothée Chalamet, già definito il Leonardo Di Caprio della nuova generazione, e il nuovo astro nascente Taylor Russell, mi sono venuti irrimediabilmente a noia.
Tutto fumo e niente arrosto
Luca Guadagnino ci aveva promesso un film crudo, pieno di sangue e di paura. Ok, ci sono molte mosche e qua e là, pur distogliendo lo sguardo, il sonoro può dar fastidio, ma niente in confronto alle reazioni suscitate da un Lars Von Trier, un David Cronenberg o un Ruben Östlund. Be’, ci può stare, qualcuno potrebbe appuntare, perché Bones and All, al di là del cannibalismo conclamato, è fondamentalmente una storia di amore. Peccato che il senso di quest’amore sia così fumoso… Misterioso e strano, no, in mezzo a tutta questa carne?
Mi viene in mente, non a torto, una delle battute finali che Natalie Portman rivolge a Jude Law in Closer di Mike Nichols, peraltro un film dove in nome dell’amore ci si sbrana davvero alla grande:
«Fammi vedere, dov’è quest’amore? Io non lo sento, non lo tocco, non lo vedo…».
Soprattutto in alcuni dialoghi ravvicinati tra Maren e Lee quest’amore risulta poco credibile. Non ci arriva il senso del pericolo del primo vero amore, quel sentore di morte che si avverte già tra i fuochi e le palpitazioni. Quello stare in agguato perenne, consci del fatto che amore e morte sono bifronti, una sorta di festa che la vita ingaggia per autocelebrarsi e subito dopo autodistruggersi. Dov’è tutto questo? Laddove Russell riesce a convincere sulla spinta della novità, Chalamet mi è sembrato a più riprese una caricatura stanca di buona parte delle sue precedenti interpretazioni. Insomma, un po’ un Elio Perlman del fortunato Chiamami col tuo nome e un po’ un Kyle Scheible di Lady Bird, soltanto più sporco di sangue e con i capelli fucsia.

Una strada senza musica
Bones and All si configura anche come un road movie anni ’80, che attraversa gli stati centro-orientali della provincia americana, soprattutto il Maryland, l’Ohio, l’Indiana, l’Illinois, l’Iowa e il Minnesota. Un genere audace, questo, che ha alle spalle una tradizione non indifferente. Basta pensare a Easy Rider di Dennis Hopper, Paris, Texas di Wim Wenders, My Own Private Idaho di Gus Van Sant, My Blueberry Nights di Wong Kar-Wai e tanti altri ancora entrati nell’immaginario collettivo. Il tema del viaggio, si sa, assume un valore chiaramente simbolico, tra cui la tanto indefinita quanto vociferata queer issue (lo spettro dell’AIDS e l’onda omotransfobica ai tempi di Reagan molto abbozzati anche questi). La strada, con le sue infinite possibilità, diventa il luogo della perdita e contemporaneamente della scoperta di sé, ma non assurge mica a metafora della libertà assoluta. In tutti i sensi.
Ebbene, anche la strada ha le sue regole, i suoi ritmi, la sua musica. Ecco un altro tasto dolente. Che fine ha fatto la musica?
Nel trailer ufficiale batteva in crescendo Atmosphere dei Joy Division, che ci caricava il petto di tensione, di oscurità, di desiderio. Una ballata maledetta tanto quanto la voce del solista Ian Curtis, che di troppo amore è morto davvero, al punto che sulla lapide è riportato il suo verso più famoso Love Will Tear Us Apart. L’amore ci farà a pezzi, è la traduzione. Ma i pezzi qui mancano del tutto.
Sarebbe stato un ottimo strumento nelle mani del regista, una spinta atmosferica fortissima dove far congiungere il leitmotif dell’adolescenza e il tema dell’isolamento e della diversità. Però, tutto questo dark ambient viene meno proprio durante la visione, sgonfiandosi in poco più di una scena e lasciandoci anche qui a bocca asciutta. E che dire invece della preghiera You Want It Darker di Leonard Cohen? Anche quella dispersa chissà dove…

C’è qualcosa che non torna
Non riesco a smettere di pensare che la sceneggiatura di Bones and All abbia delle falle macroscopiche. I personaggi secondari sono piuttosto piatti, come Mark Rylance nei panni dell’ossessivo Sully, e quelli marginali, da Michael Stuhlbarg – intervento potente ma non abbastanza: c’è del fuoco, allora osa! – a Chloë Sevigny – la madre-mostro di Maren, in una comparsa che si rivela quasi irrisoria. Nella loro bidimensionalità non reggono il peso dello sviluppo, finendo per assomigliare a dei cartonati di loro stessi. In questa confusione di voci e di incontri mancanti, lo spettatore come può entrare in empatia fino in fondo con una finzione che non si tiene in piedi?
Il rischio è di rimanere freddamente in superficie, trovandosi ad assistere, contraddizione in termini, a dei pasti umani del tutto privi di umanità.
Arrivata a questo punto, direi che l’unica cosa veramente calda è l’idea di questo film, non tanto la sua realizzazione. Caro Luca, te lo dico da fan modestamente incallita, Io sono l’Amore era di gran lunga più feroce. Lì sì che l’amore uccideva, lì sì che l’amore vinceva.
A parlare era l’epica dei corpi: sudati, sconnessi, barcollanti, frastornati, voluttuosi. Corpi le cui gesta erotiche, ambientate prima nella Milano altoborghese e poi nella Sanremo gaudente, squarciano il velo dell’ipocrisia e sanguinano di verità. Con un’immensa Tilda Swinton, meno eterea del solito, e un Edoardo Gabbriellini, battezzato dal film di culto Ovosodo di Paolo Virzì, nei panni di un seduttore culinario un po’ naif. Qui il termine “passione” si ricongiunge coerentemente al significato originario di “patimento”, attraverso il lutto di un membro della famiglia e insieme la crisi identitaria della protagonista. Grazie anche alle musiche di John Adams e ai costumi di Antonella Cannarozzi, Io sono l’Amore si sente, si tocca, si vede. Ha un cuore, quel meraviglioso, straziato, feroce muscolo d’amore.
Di contro, Bones and All è soltanto un brodo di ossa e niente più. Ti riscalda, sì, ma non ti riempie.