Nella sua storia, il war movie si è adottato ai vari cambiamenti, molti dei quali su un piano tematico e teorico. La narrazione della guerra è passata dalla classica contrapposizione manichea di buono-cattivo (quasi sempre coincidente tra americani, i primi, e i nazisti/giapponesi/vietnamiti, i secondi), alle riflessioni sulla stessa guerra, concepita come frutto della degenerazione umana.

L’esempio più calzante è, senza ombra di dubbio, Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, e in particolare il celebre monologo del colonnello Kurtz (interpretato da Marlon Brando). Quelli erano i tempi del conflitto in Vietnam e la guerra, complice l’opinione pubblica, appariva non più come l’eroica impresa di liberazione dal giogo nazista o come il trionfo della democrazia ai danni dei regimi totalitari, bensì come un’inutile carneficina, a prescindere dalla ragione per la quale veniva combattuta.
L’orrore è l’unica eredità della guerra. Il resto è solamente una sovrastruttura ideologica che serve a giustificare l’azione bellica e le rispettive atrocità.
Vent’anni dopo l’uscita di Apocalypse Now, Terrence Malick, con il suo La sottile linea rossa, ripropone questa visione realistica della guerra, aggiungendo vari spunti di riflessione filosofica. Anche in questo caso possiamo affermare che sia tipico di Malick realizzare prodotti cinematografici dall’incredibile profondità intellettiva. In tal caso, infatti, i soldati si domandano perché combattono, perché sono costretti a rischiare la propria vita a chilometri di distanza dalle rispettive abitazioni. Perché devono rispettare degli ordini che prevedono l’uccisione di un altro essere umano che, difatto, non ha compiuto alcun tipo di errore nei loro confronti.

Dunkirk, senza eccessive pretese, si accosta a tutte quelle pellicole che hanno rinnovato il genere war movie. E lo fa partendo da uno schema già preimpostato, ovverossia raccontare un avvenimento della storia: la battaglia di Dunkerque, inserendo, però, elementi propri del regista, così da creare un contenuto piuttosto originale.
Dunkirk – Terra: la disperazione nella salvezza
L’originalità di Dunkirk risiede nella tripartizione del racconto sia sotto un aspetto cronologico, sia sotto un punto di vista tematico. Ogni singola parte, che si interseca alle altre senza grandi difficoltà, presenta suoi protagonisti e suoi determinati aspetti. La pellicola comincia con la seziona intitolata “Il molo”, e una sequenza a campo largo presenta alcuni soldati. Colti in uno scontro a fuoco, di questi ne resta in vita solamente uno, Tommy, un giovane inglese che riesce a fuggire dai colpi nemici.
Sin dai primi aspetti possiamo notare quelli che saranno gli elementi chiave di questa sezione: la disperazione di rincorrere la salvezza e la non presenza del nemico. La videocamera non abbandona mai il protagonista, il quale diviene gradualmente più assente a livello emotivo. Il suo unico scopo è di fuggire da quella spiaggia e cerca di farlo con qualunque mezzo a disposizione. Ma fallisce quasi sempre a causa delle circostanze esterne che lo riportano sui propri passi, ovvero la spiaggia che nel frattempo si popola di cadaveri.
Vi è un momento nel quale Nolan vuole estenuare questa prospettiva, mettendo in evidenzia uno degli aspetti più importanti del war movie. Ci troviamo a metà film e Tommy è al bordo di una delle tanti navi che cercano di tornare in Gran Bretagna. Questa, però, viene presa di mira da un bombardiere tedesco che l’affonda. La nave comincia a rovesciarsi su un fianco e con lei tutto l’olio del motore.
Quasi tutto l’equipaggio è in mare, compreso il giovane protagonista fradicio di acqua e petrolio. Uno di quei caccia, che accompagna il bombardiere, prende di mira i sopravvissuti, iniziando una rapida discesa in picchiata. Sul punto di avvertire il rumore dell’aereo, Tommy si immerge completamente, si copre le orecchie con le mani e inizia gridare.

L’urlo del soldato diviene l’emblema della sua più acuta disperazione, della sua più terribile agonia. Il grido diviene sordo dal momento che viene espresso sotto l’acqua, indice, quindi, della solitudine del soldato nel bel mezzo del campo di battaglia. L’urlo è sinonimo della pazzia, della collera, dello stress causato dalla guerra.
Nolan enfatizza questo topos proprio nell’atto di immersione e sembra voler isolare questo momento con il resto della scena, a voler proprio focalizzare con estrema attenzione la tematica sopra riportata. Tommy, gridando, è arrivato al capolinea. In quel momento, attorno, vi è solo il freddo mare che lo protegge. Ed è consapevole che per salvarsi da quella situazione c’è bisogno di un vero e proprio miracolo che, fortunatamente, giunge: la barca del signor Dawson, il quale riesce ad afferrare il povero Tommy e a riportarlo finalmente sano e salvo.
Dunkirk – Mare: la benevolenza nel dovere
È alquanto noto che la sceneggiatura (che, per inteso, è lunga di sole 76 pagine, la più corta che il regista abbia mai scritto) segue ciò che comunemente viene chiamato “effetto valanga“, ovvero: effetto in cui la situazione coinvolge sempre più avvenimenti, quasi sempre aggravandosi. Così facendo, lo scopo di Nolan è quello di aumentare l’intensità e il ritmo, specie nei momenti centrali della pellicola.
Abbiamo detto che un punto di forza è la frammentazione. E questa in Dunkirk non è mai isolata, bensì interconnessa a discapito delle condizioni temporali e spaziali. Il trittico serve per raccontare un’intera vicenda da tre prospettive diverse, secondo tre tempi diversi. Nolan, infatti, sfrutta queste categorie, subordinandole alla personale visione che diviene l’elemento che fa da collante all’intera pellicola. Il film spazia da una scena all’altra apparentemente senza corrispettivo logico, muovendosi tramite l’analessi o l’anticipazione. Questo avviene proprio nella seconda parte, ovvero: il mare.

Il protagonista è il signor Dawson, un civile di mezz’età, il quale ha ricevuto l’ordine di spingersi con la imbarcazione Moonstone oltre la Manica per recuperare quanti più sopravvissuti possibili.
Durante la traversata scorgono e salvano un soldato (interpretato da Cillian Murphy) in preda a uno stato di shock, poiché in precedenza la nave sulla quale viaggiava è stata affondata da un siluro U-Boat. Ripreso lucidità, il soldato obbliga di indietro perché navigare fino in Francia è solo un inutile rischio. Dawson, però, gli ricorda il motivo di tale impresa, e persiste nella sua scelta proseguendo la sua missione.
Dawson non ha intenzione di disubbidire a un dovere imposto dalla madrepatria, rischioso o meno che sia. Anzi, la sua visione e la sua azione si amplificano, giustificando la sua traversata quando afferma che questa guerra è combattuta dai rispettivi figli ed è compito dei padri salvarli. Si incarna un graduale senso di responsabilità che ammutolisce il militare e ricorda che la guerra è, sì, crudele, ma necessita sempre di qualcuno che è pronto a compiere il proprio dovere e nel caso a sacrificarsi pur di farla terminare.
E come i padri di famiglia proteggono i rispettivi figli dalla crudeltà del mondo, così Dawson salva quanti più giovani possibili riportandoli alla propria dimora, dalle proprie famiglie.

Il signor Dawson diviene il classico eroe silenzioso che non pretende elogi, non vuole medaglie, non vuole alcun tipo di riconoscimento. Vuole solo portare a conclusione il dovere per il quale è stato chiamato e sperare che il conflitto termini.
Nolan pone volutamente Dawson come protagonista e la scelta di inquadrarlo è un chiaro espediente narrativo. Il regista, tra l’altro, ha dichiarato di essersi ispirato a persone reali e alle loro testimonianze. Tramite il mezzo cinematografico, Nolan è riuscito a trasmettere in maniera chiara ed evidente determinate emozioni che rimbalzano inevitabilmente sullo spettatore. Sicché, nel caso sopra riportato, lo spettatore rivede nell’anziano signore quell’esempio che si deve rispettare e nell’eventualità seguire, per farsi che, dinanzi alle avversità dei tempi, ci sia ancora qualcuno che abbia dei sani principi da trasmettere.
Dunkirk – Cielo: il sacrificio nella guerra
Ascendiamo con gli sviluppi tematici, toccando l’ultimo piano narrativo. Nei cieli della Manica, si consuma il conflitto aereo che vede coinvolti i piloti della Royal Air Force contro quelli della Luftwaffe. Il caposquadra britannico (interpretato da Tom Hardy), insieme ai piloti Fernier e Collins, si dirigono verso Dunkerque per supportare le operazioni navali e terrestri. Durante il loro tragitto si imbattono nell’aviazione tedesca, la quale ha il compito di abbattere quante più navi possibili ed eliminare quanti più soldati possibili.
L’occhio di Nolan cerca di non distanziarsi dai rispettivi protagonisti, sicché le inquadrature sono sia primi piani che destreggia quasi sempre all’interno della cabina di pilotaggio; sia campi americani a 3/4 all’altezza dei velivoli, in modo da comunicare quella suspance tipica di uno scenario bellico. C’è da dire, inoltre, che il regista non risparmia i campi lunghi estremi, inquadrando i movimenti acrobatici degli aerei. Tutto finalizzato a causare una specifica percezione nello spettatore.
L’intento, ovviamente, è quello di descrivere la battaglia, dapprima come semplice scontro e in seguito come espediente tematico. Nolan, infatti, così come nelle precedenti sezioni, narra, sì, la lotta che si ebbe durante quell’operazione militare; in più legittima la sua visione sulla stessa battaglia. I momenti sono principalmente due: il primo quando il figlio del signor Dawson ode il rumore degli Spitfire, «il suono dolce che possa sentire qui»; il secondo al seguito del combattimento finale.
Qui notiamo il caposquadra in volo verso la base a causa dello scarso rifornimento al serbatoio. Tuttavia, è costretto a compiere un dietro-front per abbattere uno Jukers Ju 88 in agguato contro una nave britannica. È consapevole che non potrà tornare in patria dal momento che il serbatoio è del tutto vuoto. Pertanto è costretto ad atterrare sulla spiaggia di Dunkerque, a distruggere il suo aeroplano e farsi catturare come prigioniero.
La planata conclusiva è il momento più importante della scena. E non è un caso, infatti, che Nolan decide di concederle un grande pathos. In quei minuti che separano lo spettatore dai titoli di coda, il regista si sofferma sull’importanza del sacrificio che, in determinate circostanze, si deve compiere per un bene più che nobile. Identica sorte che subirà l’ammiraglio Bolton quando deciderà di restare sul pontile ad aiutare i francesi.