In Synecdoche, New York (2008), Charlie Kaufman rappresenta il vivere umano come un progetto creativo destinato ad essere incompleto. L’unione di una narrazione disturbante e un’estetica del brutto gli permette di ritrarre il progressivo decadimento degli esseri umani e la vanità delle loro rappresentazioni artistiche.
Centrale al film è l’idea che la vita non è che un’angosciante pièce teatrale che inesorabilmente si conclude con la morte.
Enigmatico rappresentante di questo fato è Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), un regista teatrale che decide di mettere in scena un ambizioso spettacolo sulla sua vita. A tale scopo, affitta un magazzino in cui costruisce una replica di Manhattan con l’intento di rappresentarvici ogni persona ed evento della sua vita.
Percezione
Da subito, Synecdoche, New York offre un ritratto orrorifico di ciò che più tormenta la mente umana: la morte e la malattia, la fragilità dei rapporti umani, la solitudine. Nella scena iniziale, due speaker radiofonici parlano dell’autunno come l’inizio della fine. Ascoltando queste parole, Caden si guarda allo specchio, ma immediatamente distoglie lo sguardo, come se non potesse sopportarne la vista. Quando vede la sua immagine, vede un corpo fragile, flaccido, sgraziato, che costituisce un fardello da cui vorrebbe liberarsi. Eppure, questo corpo, quasi per dispetto, ricorda sempre a Caden della sua presenza, della sua debolezza e precarietà.
Se gli alberi spogli sono il primo segno dell’autunno, la fragilità del corpo si erge a simbolo dell’inesorabile passare del tempo.
Synecdoche, New York è un film fortemente fenomenologico proprio nella misura in cui parla del corpo, un corpo da cui non possiamo sganciarci. Siamo gettati nel mondo in questo corpo e viviamo percependo ciò che ci circonda tramite la corporeità. Un corpo che ci ricorda costantemente che non siamo solo menti o anime, ma corpi flaccidi, tonici, grassi, magri, deboli o forti che inesorabilmente decadono.
Il corpo di Caden è in uno stato di perenne malattia che lo porta progressivamente verso la morte. Il nostro protagonista si fa visitare da un oftalmologo, un dentista, un neurologo, ma nessuno riesce a liberarlo da questo malessere che percepisce. Così, sviluppa una vera e propria psicosi. Caden vive come se fosse già morto e vede i segnali di questa fine ovunque intorno a sé: si proietta in cartoni animati inquietanti i cui personaggi intonano canzoni sulla morte, e legge ogni giorno il necrologio, quasi per accertarsi di non trovarci il suo nome.
Non a caso, il suo cognome (Cotard) indica una sindrome psicotica in cui il paziente crede di essere già morto.
Il climax è raggiunto quando, a causa di una perdita nel bagno, Caden si taglia facendosi la barba. Come l’acqua fuoriesce dai tubi, il sangue sgorga dal suo corpo vulnerabile. Così, l’impianto idraulico che cede progressivamente non è che una metafora del deterioramento graduale a cui tutti noi andiamo incontro.
È quasi come se la vita non fosse altro che un cammino che porta senza scampo all’annichilimento.
Altra immagine emblematica della precarietà del vivere umano è la casa di Hazel (Samantha Morton), una casa costantemente in fiamme, che cade a pezzi progressivamente. Hazel sa, comprando quella casa, che morirà a causa delle continue inalazioni di fumo. Tuttavia, la sua è una consapevolezza che infondo accomuna tutti gli esseri umani: tutti sappiamo che un giorno moriremo, non c’è altra conclusione per la vita.
Hazel: «La fine è scolpita nel principio».
Veniamo al mondo sapendo di un limite che non può essere superato, una data di scadenza oltre la quale siamo da buttare. Viviamo nella coscienza di essere accompagnati dalla morte ad ogni passo. È una verità dura, ma universale, e proprio questa verità è al centro del progetto creativo di Caden. Se la moglie Adele dipinge delle miniature, Caden invece vuole realizzare un’opera imponente, un’opera che smascheri proprio questa verità di cui tutti siamo consapevoli, ma che cerchiamo costantemente di dimenticare.
Caden: «È questo che voglio esplorare. Siamo lanciati verso la morte. Eppure, per il momento, eccoci qui, vivi. Ognuno di noi, sapendo che moriremo. Ognuno nel profondo convinto che non morirà».
Anche se la morte è una verità universale, ci illudiamo che la nostra vita possa avere una conclusione differente, o meglio non avere alcuna fine. Questa menzogna che raccontiamo a noi stessi, di essere l’eccezione che conferma la regola, è dettata dal fatto che siamo esseri percipienti e la morte è l’unica esperienza che non c’è data poter raccontare. La morte ricade al di fuori del nostro orizzonte esperienziale cosciente. Ciò non vuol dire, tuttavia, che non possiamo percepire ed esprimere il nostro progressivo decadimento, ed è proprio questo che Synecdoche, New York vuole rappresentare.
Caden: «Penso molto al fatto che sto morendo».
Il fatto che Caden in questa frase impieghi il gerundio è significativo proprio perché mostra la sua consapevolezza che vivere è, tragicamente, morire, o meglio progredire verso la morte. Sebbene non si possa raccontare la percezione della morte, Caden percepisce questo suo continuo decadere verso la fine e ne prende consapevolezza.
Rappresentazione
Tuttavia, l’ambizione di realizzare uno spettacolo teatrale che possa contenere tutto rivela che Caden non accetta pienamente questa finitudine che incombe sul vivere umano. La volontà di rappresentare e rivivere ogni momento della sua vita rivela un desiderio disperato di superare l’effimera e fugace natura del vivere umano per raggiungere una completezza che ci sfugge inesorabilmente. La sua aspirazione di mettere tutto sé stesso e la sua vita in un’unica opera d’arte è però destinato ad essere infranto poiché ogni rappresentazione è finita.
Di fronte a un mondo assurdo in cui tutto si rivela deludente, Caden cerca un senso che possa giustificare lo spietato destino che ci accomuna. Questa ricerca di significato prende atto proprio nella forma di una rappresentazione che ambisce ad essere onnicomprensiva. Tuttavia, dopo più di diciassette anni, l’opera di Caden non è ancora completa, e non sarà mai tale. Come Sisifo, destinato a spingere il masso in cima al monte per poi vederlo ricadere, il protagonista di Synecdoche, New York sperimenta la frustrazione di provare un progetto strutturalmente impossibile.
Caden alla fine riconosce che la sua pièce è destinata ad essere incompleta. Difatti, abbandona il suo ruolo di regista per diventare un attore secondario.
Ellen: «Caden Cotard è un uomo che è già morto. Lui vive in un suo mondo sospeso tra stasi e antistasi… Fino a poco tempo fa si è esattamente battuto per dare un senso alla sua condizione, ma adesso si è trasformato in pietra».
Così come Caden non riesce a portare a conclusione il suo spettacolo, così Kaufman realizza un film che si conclude bruscamente, senza che il suo protagonista pronunci le sue ultime parole. Vediamo dunque come Synecdoche, New York sia un’opera profondamente metacinematografica: Caden non è che un doppio di Kaufman, un suo alter ego cinematografico che sperimenta e rappresenta la frustrazione di un progetto strutturalmente incompiuto.
Ciò che Kaufman vuole rappresentare in Synecdoche, New York è questa tragica verità portata in scena da Caden: ogni opera d’arte non è che una sineddoche; una parte che ambisce ad essere tutto, ma che non raggiunge mai questa completezza.
Se l’arte è incompleta, così è anche la vita, che marcia inesorabilmente verso il nulla. Proprio in luce della sua strutturale incompletezza, realizziamo allora come l’arte sia un mezzo privilegiato per rivelare la finitezza intrinseca alla vita. Così Synecodoche, New York e la rappresentazione di Caden che ne è il doppio metacinematografico offrono una riflessione sul carattere finito della vita e dell’arte, comune denomintare che indissolubilmente le lega.