Di e su Povere Creature! (tratto dall’omonimo libro del 1992 di Alasdair Grey) stanno alla fine scrivendo in molti, inneggiando al capolavoro e all’Oscar o deplorando invece l’opera, perché è, in ogni caso, complesso il messaggio che esso lancia. Notevoli la tecnica registica e la strategia narrativa adottate da Yorge Lanthimos, il regista greco che già da qualche anno ci ha abituati ad un cinema diverso, complesso e criptico, a tratti ermetico – se non fosse che in fondo riesce ad essere molto chiaro, per quanto lo si possa interpretare in molteplici sensi.
Qui sarebbe bello riuscire a soffermarci insieme su un paio di aspetti del suo cinema che in questo suo ultimo film tanto evocativo – Povere creature! (2024) – riescono a trovare la loro massima espressione artistica.
Vero è anche che gli artisti autentici, quando li si segue, riescono sempre e ancora a stupire; non è dunque un caso che oggi Lanthimos, per quanto inconfondibile, non sia propriamente quello di Dogtooth (Kynodontas) (2009) – il tema della repressione e del linguaggio che diventa storpiatura della realtà emerge con preponderanza in quest’opera giovane del regista – o di Alps (2011) – qui le agghiaccianti dimensioni relazionali, del tutto prive di solidarietà, sono infettate da perversioni, macchinazioni e imbrogli – e forse nemmeno quello di The Lobster (2015) – in cui siamo di fronte ad un mondo distorto dove emozioni e sentimenti sono misconosciuti e le coppie devono unirsi per obbligo di macabre dittature sociali.
In quei film Lanthimos era, dunque, già riuscito ad abituare lo spettatore a degli scenari crudi, violenti e dissacranti, ma non era ancora riuscito forse “seriamente” a farlo ridere, o comunque non aveva voluto provarci davvero (qualche tentativo Lanthimos lo aveva già fatto solo in film come La favorita del 2018).
La potenza dei suoi film, simbolici e carichi di significato esistenziale, ha da sempre preso la pancia di chi usufruiva della loro visione, lasciandolo in un intricato gioco di sensazioni ed emozioni scomode che toglievano, in un primo tempo, spazio alla riflessione. Spazio, direi, che il cinema di Lanthimos si prende tutto in aprés-coup, retroattivamente, stimolando lo spettatore a riflettere sulle dinamiche incontrate nelle sue pellicole.
Il taglio esistenziale e quello percettivo
Con Poor things siamo al cospetto di una narrazione sperimentale, mimetica, in cui il narratore della vicenda scompare per diventare la macchina da presa stessa, che con i suoi giochi registici e la produzione dei suoi effetti visivi riesce a rendere il racconto ancora più intrigante e raffigurativo. Effetti steadicam lenti oppure rapidi, galoppanti visioni grandangolari (fisheye) che sembrano a tratti soffocare la realtà, cercare di stringerla all’osso, e ancora l’utilizzo di un mix di zoom e carrellate, così come del malinconico bianco e nero o dell’esplosione dei colori, nei costumi sontuosi così come nelle scenografie, tutto sembra accendersi, assieme alle colonne sonore, sotto la firma inconfondibile dello stile del regista greco.
Per godere al massimo di questo film bisogna probabilmente vederlo al cinema, immersi in quell’atmosfera grottesca, surreale e onirica in cui ci sospinge. Va detto che gli scenari distopici, di cui abbiamo familiarità quando parliamo del cinema di Lanthimos, hanno spesso la capacità di evocare dei microcosmi perversi, manipolati, dissociati.
La politica narrativa adottata dal regista greco ha sempre avuto a che fare con una certa angoscia che aleggiava sulla patina più o meno visibile stesa sui suoi film. Al tempo stesso, con le sue scelte narrative, Lanthimos si è sempre caratterizzato come un regista delle e sulle relazioni, non nel senso di Lars von Trier – in cui l’assurdo domina la scena filmica in senso tendenzialmente psicotico –, ma in un modo così diretto da spiazzare lo spettatore, che viene spinto in un mondo in cui non vige più un principio di realtà con cui paragonare la materialità della narrazione stessa.
Anche in questo film il taglio personale di Lanthimos si percepisce benissimo; nella storia bizzarra di Bella Baxter (una incredibile, sembra anche inutile dirlo, Emma stone, che si conferma una pietra preziosissima in questo film) si ravvisa ancora una volta l’implicito della sua intenzione.
A conti fatti Bella si ritrova a vivere con un cervello di bambino in un corpo di adulta; la sua mente è una completa tabula rasa, come direbbero certi psicologi dello sviluppo. Ed è questo l’esperimento strano che muove lo scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe) ad agire: trapiantare un cervello “puro”, non corrotto, nel corpo di un adulto (nella fattispecie quello di una donna incinta che si è suicidata) per monitorarne gli effetti. Apparentemente è l’intento scientifico a guidarlo, ma al di là di ciò si cela anche il suo desiderio, mediato dalla scienza, di diventare padre.
Già da qui si può cogliere un primo squarcio esistenziale che ci propone con raffinatezza la filosofia di Lanthimos. Perché sì, è vero, siamo nella Londra (e poi nella Parigi e poi nella Lisbona) di fine Ottocento, ma è un mondo – chi guarda il film se ne può accorgere presto – stravolto, in cui non sembrano vigere le regole della nostra storia. Però, e questo è interessante, la scienza c’è già ed entra a gamba tesa nella vita degli uomini, in quanto agisce sulle loro vite per portare avanti dei presunti obiettivi di progresso.
E mentre le auto, in questa società distopica, volano tra le cattedrali inglesi, e Bella Baxter inizia a fare esperienza del mondo, spingendosi fuori dai vincoli imposti dalla dimora e dalle scelte del dottore/padre Baxter, ci accorgiamo anche di altri temi, oltre a quello della scienza, verso cui ci spinge la visione di questo film, cioè quello dell’emancipazione, in primis, ma anche quelli della maturazione sessuale e psichica della protagonista: in questo senso tanti sono gli stimoli che il film porta, trasversalmente, alla riflessione contemporanea sull’individualità.
Uno sguardo, quello del regista, che percettivamente si vuole fondere con la sua filosofia, al punto da poterne cogliere un’angolatura particolare; il senso del film sta tra le mani di chi lo guarda, ma se ne può dire senz’altro che se Lanthimos non è uno che si schiera, è però uno che mostra bene, e che nel mostrare con abilità ci dice qualcosa, seppur brutalmente – ancora.
In fondo, attraverso una comica dinamica relazionale (era bello sentirli tutti ridere, in sala), un’intricata, ma romantica vicenda fra il maschile – rappresentato dallo stesso instabile Baxter, ma anche dal dongiovannesco Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo si cela nella parte con una comicità ilare che ne capovolge il ruolo), dal rispettoso e fidato Max McCandles (Ramy Youssef) e dal crudele marito di Victoria Blessington – e il femminile – rappresentato da Bella stessa ma anche dalle donne che incontrerà lungo la sua esperienza –, Lanthimos mette a giorno il tema della coppia e dell’incontro tra un uomo e una donna.
Che cosa vuol dire incontrarsi con la propria immagine, scoprirla, e poi fare esperienza di quella dell’altro? Come conciliare le pulsioni del proprio corpo con le necessità mondane di comportamento? E ancora, perché pensare che la propria nudità di esseri umani sia da rimuovere?
Nella sua sete di conoscenza e di esplorazione, Bella fa anche e soprattutto un cammino di progressiva scoperta della verità, fino a raggiungerne una soggettiva, singolare, declinabile nel mondo nella totale indipendenza delle proprie scelte (anche quando malsane).
Alla fine incontra un mondo nichilista, cinico, sfruttante e sfruttato, in cui le concezioni etiche sono lasciate ai discorsi e, nei fatti, sembrano regnare solo sotterfugi e ingiustizie. Poche sono le oasi di bellezza a cui viene presentata, eppure le restano impresse, tanto che da un no alla vita con cui era iniziata la sua, di vita, Bella se ne esce con un sì tondo tondo, pieno di riconciliazione (e di un pizzico di vendetta, chapeux).
Un “lieto fine” che non ha niente della fiaba tradizionale e che ci consente di osservare nel personaggio principale una metafora dell’essere liberi di scoprirsi e viversi, sbagliando, cadendo, imparando a camminare, come dei bambini in un corpo di adulti – appunto.
A patto di qualche esuberanza personale che Lanthimos si è concesso nel riprendere dei temi maryshelliani, e nel rielaborarli in un’ottica culturale attuale (tanti sarebbero anche gli argomenti sulla femminilità a cui apre Bella), si è disposti a godersi appieno il film, che lascia delle impronte percettive vivide, tramite cui si respira l’odore di un cinema nuovo e il sapore di una stupenda narrazione da decifrare.
Le impressioni che restano a visione conclusa valgono il Povere creature! del titolo, che diventa così una lungimirante fotografia della condizione umana.