Dis-Oriente – Il cinema di genere nell’Indonesia sotto regime

Camilla Maggi

Settembre 2, 2024

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Negli ultimi trent’anni del Novecento il cinema di genere di produzione indonesiana ebbe uno straordinario successo nel panorama internazionale. Tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’90 l’industria cinematografica produsse più di 1500 film d’exploitation. Si trattava per la maggior parte di film horror di scarsa qualità, girati con budget molto ridotti, che sfruttavano il gusto di un pubblico abituato al cinema effettistico hollywoodiano. Primo film tra questi fu il cannibal-horror Primitif di Sisworo Gautama Putra, datato 1978, che esibiva un esordiente Barry Prima, protagonista anche del successivo e famosissimo The Warrior (Jaka Sembung) del 1981.

Degni di nota sono anche una serie di folk-horror come The Queen of Black Magic di Lilik Sudjio del 1981, oppure Virgins from Hell (1987), insieme ad altri titoli fluidi, difficili da inserire in un genere o sottogenere, considerato il frenetico alternarsi di scene d’azione, ambientazioni fantasy, elementi folk e scene erotiche. Ad esempio, Mystics in Bali (1981) di Jalil Jackson (H. Tjut Djalil) e il più conosciuto Lady Terminator (1989) – in italiano La maledizione di Erika.

Frame di Lady Terminator (1989)
Il cinema di genere indonesiano
Barbara Anne Constable in Lady Terminator (1989)

Lady Terminator, come si intuisce dal titolo, è la declinazione al femminile del The Terminator di Cameron, rivisitato combinando leggende locali (la Lady è posseduta dallo spirito della Regina dei Mari del Sud, una figura appartenente alla mitologia indonesiana) a sparatorie ed esplosioni, in aggiunta a scene dalle sfumature erotiche che vedono una Barbara Anne Constable quasi sempre in déshabillé e in deliranti sequenze oniriche di sesso sfrenato.

Acclamato oltre confine, dopo solo undici giorni dall’uscita, il film venne censurato e successivamente rimosso dai cinema di Jakarta, soprattutto a causa dei contenuti sessualmente espliciti. Ma Lady Terminator fu solo uno tra i tanti film che vennero tagliati prima di essere proiettati nei cinema o trasmessi in tv: la distribuzione nella versione integrale poteva raggiungere esclusivamente l’estero. In generale, per i produttori e per i registi questo era un problema trascurabile, dato che queste pellicole erano innanzitutto pensate per essere vendute ai mercati esteri, specialmente nel mercato americano ed europeo (in particolare in Germania e in Italia), luoghi in cui venivano accolti con entusiasmo e in cui tutt’ora sono considerati dei cult.

Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 le case produttrici che esportavano la maggior parte dei film d’exploitation erano due: Rapi Films e Parkit Films che, all’inizio degli anni ’90 potevano mettere a disposizione budget fino a un milione di dollari e potevano permettersi di assumere attori stranieri. Per avere successo nel mercato internazionale era necessario lanciarsi su quei generi che non fallivano nel catturare l’attenzione del pubblico, sfruttando al massimo effetti speciali, violenza sensazionalistica, storie di vendetta e di magia nera. Tutto ciò che era necessario a scioccare, provocare e divertire.

Primitif, ad esempio, ebbe da subito tantissimo successo anche perché faceva parte del neo-genere cannibal-horror, inaugurato in Italia da Lenzi con Il paese del sesso selvaggio del 1972, Cannibal Ferox dell”81 e il notoriamente problematico Cannibal Holocaust di Deodato del 1980. Seguendo le tendenze del momento, il cinema indonesiano avrebbe più facilmente potuto raggiungere altri paesi. Nel 1981, infatti, molte di queste pellicole vennero messe in vendita al Manila International Film Festival, la maggior parte delle quali prodotte proprio da Rapi Film. The Queen of Black Magic (1981), per citarne una, venne comprata da un distributore italiano per soli ventimila dollari.

Frame di Primitif (1978)
Il cinema di genere indonesiano.
Frame tratto da Primitif (1978)

Furono diverse anche le collaborazioni con registi stranieri, ad esempio Menentang Maut (No Time to Die) del 1984, co-prodotto da Rapi Film e la casa di produzione tedesca Rapid Film GmbH, e con attori e attrici straniere. Addirittura, in alcune pellicole venivano ingaggiate turiste, come nel caso della tedesca Ilona Agathe Bastian che nell’horror soprannaturale Mystics in Bali interpreta la parte della protagonista: un’antropologa recatasi a Bali per fare ricerche sulle leggende folkloristiche del posto.

I criteri di scelta per questi turisti-attori ricadevano unicamente sul loro aspetto fisico, che doveva riflettere il paradigma hollywoodiano di una corporeità erculea e definita. Il turista neozelandese Peter O’Brian, protagonista in diversi film tra cui The Stabilizer e The Intruder del 1986, venne infatti scelto per la sua somiglianza con l’allora consacrato Silvester Stallone.  Insomma, rinominando e sottotitolando i film in inglese, ingaggiando attori e attrici straniere, si taceva l’origine indonesiana dei film esportati che, di conseguenza, avrebbero avuto più chance di essere venduti.  

Nonostante il clamore internazionale, il pubblico in patria non gradì questi film. La critica li condannò come opere meramente opportunistiche, che sfruttavano un pubblico ineducato che si accontentava di qualche minuto di effetti speciali mediocri, protagoniste sessualizzate e cruda violenza. Tutto ciò era lontanissimo dal concetto di film nasional, un modo di fare cinema prescritto a partire dal 1950, anno in cui l’Indonesia ottenne l’indipendenza dal dominio coloniale olandese.

Il cinema avrebbe dovuto avere l’unico compito di celebrare i rinnovati valori nazionali e di trasmettere un’identità collettiva ad un popolo che si sentiva finalmente libero di definirsi. Di fronte a queste premesse, non c’era spazio per pellicole che guardavano a modelli occidentali, portatori di idee estranee alla cultura che il governo voleva imporre.

Tuttavia, non era per niente chiaro nemmeno ai registi che cosa volesse dire produrre film che esprimessero e comunicassero la “vera” immagine dell’Indonesia. Dopo anni di dominio coloniale e considerata la complessità di un paese composto da centinaia di isole, non era affatto immediato individuare un’identità collettiva condivisa. Soprattutto se il concetto di identità veniva piegato ai fini di un governo o di un altro ed utilizzato con fini propagandistici per accaparrarsi consensi. L’arte, se prigioniera, non può comunicare niente di autentico.

Tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’90, il controllo si fece ancora più stringente. Il governo istituì diverse case di produzione statali, ad esempio la Produski Film Negara (PFN), utilizzate come veicoli di propaganda governativa e mezzi per eliminare le produzioni che non rispettavano i valori imposti dal New Order. I copioni dovevano essere approvati dalla Film Censorship Board (LSF), un organo preposto alla censura, e, per poter dirigere un film, bisognava essere membri di uno dei sindacati controllati dal governo. Non c’era dunque spazio per un pensiero che non fosse allineato con l’ideologia dominante e, come si può immaginare, i film erano diventati sempre più prevedibili, reiterando trame con i soliti sviluppi narrativi volti a trasmettere i tre valori fondamentali del regime: ordine, gerarchia, armonia.   

La propaganda del regime di Suharto

Il regime stava orchestrando una campagna di propaganda che avrebbe avuto un impatto duraturo sulla percezione pubblica e sulla narrativa politica del paese. Nel 1984, quindi 28 anni dopo l’accadimento dei fatti, uscì al cinema The Betrayal of the 30 September Movement by the Indonesian Communist Party (Pengkhianatan G30S/PKI). Il film, dalla durata di più di tre ore, avrebbe dovuto raccontare gli eventi accaduti il 30 settembre 1956. Quella notte, sei generali dell’esercito indonesiano furono assassinati durante un tentativo di colpo di stato, successivamente attribuito ad alcuni simpatizzanti del Partito Comunista Indonesiano (PKI). Ogni 30 settembre le reti televisive nazionali lo trasmettevano, approfittando dell’occasione per diffondere la versione degli eventi raccontata dal regime. Tutti i cittadini, inclusi i bambini, erano obbligati a guardarlo.

Locandina di Pengkhianatan G30S/PKI (1984)
Il cinema di genere indonesiano
Locandina di The Betrayal of the 30 September Movement by the Indonesian Communist Party

Per parlare di questo film è necessario aprire una parentesi storica. Il generale Suharto aveva un obiettivo: scatenare l’odio per giustificare la violenza verso chiunque simpatizzasse per la sinistra. Il cinema era il mezzo di comunicazione perfetto per creare una narrazione fondata sulla paura e che fosse abbastanza convincente per discolparsi dalla brutale repressione del movimento comunista. Il film fu costruito e pensato per diffondere una menzogna che venne smentita solo 20 anni dopo la prima proiezione: gli uomini del PKI avrebbero preso parte ad un rituale demoniaco pensato per trucidare i generali dell’esercito. Un gruppo di donne appartenenti al Gerwani, un movimento femminista, avrebbe torturato i generali cavando loro gli occhi e mutilando le parti intime. Il salvatore, Suharto, sarebbe arrivato per mettere fine alla cieca violenza di queste donne, ristabilendo finalmente ordine e armonia in una società distrutta dal comunismo.

Ovviamente, non era accaduto nulla di tutto ciò; il primo ottobre Suharto aveva ricevuto i risultati dell’autopsia dei corpi dei sei generali uccisi: tutti riportavano ferite da armi da fuoco. Nessuna mutilazione, nessuna tortura. Ma la gigantesca opera di propaganda stava efficacemente diffondendo disinformazione.

Demonizzazione femminile e mito nazionale

Inoltre, la scelta di rappresentare le donne come creature perverse, che utilizzavano la magia nera per torturare chi era in dovere di proteggere la società, permetteva di sfruttare e amplificare paure già esistenti. Questo espediente narrativo non solo demonizzava i “comunisti” ma costruiva un nemico tangibile e comune da eliminare al più presto. Inoltre, lo schema del “viaggio dell’eroe”, il cosiddetto monomito teorizzato da Joseph Campbell, catturava l’immaginazione del pubblico perché sfruttava archetipi già presenti nell’inconscio collettivo: il protagonista è l’eroe che deve affrontare forze terribili e malvagie che minacciano l’equilibrio del mondo e, una volta sconfitte, deve riportare pace e armonia al suo interno. In questo caso, la forza maligna era il PKI e l’eroe era il generale Suharto, che in seguito agli eventi del 30 settembre diventò infatti leader della nazione e venne percepito come colui che salvò l’Indonesia dalla minaccia comunista.

Con la fine del regime del New Order e la caduta del governo Suharto nel 1998, si sperava che il cinema potesse finalmente cambiare rotta. Tuttavia, la produzione di film di genere continuò anche dopo il ’98, alimentando le critiche di chi denunciava un cinema che persisteva nella sua vuotezza, privo di contenuti e privo di concetti. Ciò che sconcertava era che persino quando la censura allentò la presa, offrendo nuove opportunità per un cinema più consapevole, capace di riflettere sulla realtà sociale e di esprimere visioni e sentimenti autentici, l’industria continuò a sfornare opere che sembravano ignorare queste possibilità, restando intrappolata in logiche commerciali e superficiali, lontane anni luce da quello spirito di rinnovamento che si sperava avrebbe finalmente preso piede.

Ma forse ci sono diverse ragioni che spiegano perché le cose andarono in questo modo. Il cinema era sovraccarico di messaggi di propaganda. Da un lato l’ideologia del film nasional imponeva rigidi parametri e stabiliva quali film fossero da scartare e quali da promuovere. Dall’altro lato c’era il controllo oppressivo del regime del New Order, che temeva il cinema nelle sue vesti di strumento di propaganda capace di veicolare idee comuniste, antigovernative, e di minare l’autorità dello Stato.

Questo doppio binario di controllo aveva quindi imprigionato la creatività, riducendola ad un mezzo per sostenere l’ideologia dominante. Dunque, non sorprende che l’industria cinematografica faticasse a liberarsi dalle sue vecchie abitudini e continuasse a produrre film che ignoravano la possibilità di un’espressione artistica più consapevole.

Il ruolo catartico del genere horror

Diventa perciò fondamentale inquadrare il fenomeno della proliferazione dei film di genere nel contesto di un Paese che, per quasi quarant’anni, era stato il teatro di una violenza pervasiva e sistematica. Un’intera generazione era cresciuta sotto il peso di un regime che imponeva una narrazione unica e soffocante, che obbligava a credere a verità distorte. La popolazione, costretta a vivere nel terrore, aveva visto i propri cari sparire nel nulla e fin dall’infanzia aveva subito l’impatto di una propaganda visiva brutale.

In questo clima di angoscia collettiva il cinema horror può trasformarsi in un potente strumento catartico. Attraverso il ritorno dell’”altro”, del non detto, l’horror permette al pubblico di confrontarsi con le paure più profonde, quelle che il regime aveva così diligentemente sfruttato nella sua opera di controllo. La donna fantasma di Sundel Bolong (1981) – anch’essa ispirata dalla mitologia giavanese – viene evocata da una donna in seguito ad una violenza. Essa incarna la rabbia e la sofferenza delle donne che non hanno ricevuto giustizia, diventando simbolo di denuncia della violenza subita. Allo stesso modo, i protagonisti di film come Neraka Perut Bumi, i già citati Primitif, Mystics in Bali e Jungle Virgin Force (Perawan Rimba) si addentrano in luoghi a loro sconosciuti e selvaggi, vagano per foreste inesplorate, miniere abbandonate in cui si celano creature demoniache e mostruose pronte ad attaccarli. Questo movimento verso ciò che è nascosto, deforme, inquietante e che va, in qualche modo, riconosciuto è lo stesso movimento che migliaia di persone hanno dovuto compiere per riconoscere i corpi dei loro cari, seppelliti sotto la sabbia delle spiagge di Bali. Questa violenza, che non è mai stata riconosciuta, non può che riemergere simbolicamente nelle trame di questi film, in cui l’elemento horror riflette un trauma che non ha avuto possibilità di essere elaborato.

Pensare che il successo dei film di genere dipenda unicamente da una primordiale attrazione per il brivido o dalla loro economicità è assolutamente riduttivo. Le figure inquietanti che abitano la trama incarnano paure ancestrali, legate a tensioni sociali represse: la sessualità, i ruoli di genere, il trauma del dominio coloniale e del regime. Il genere horror ha la capacità di raccontare molto della società che lo produce, esso è un mezzo per mettere in discussione le dinamiche di potere e dare forma visibile a quelle inquietudini che la società preferirebbe ignorare. E in Indonesia, anche se con effetti speciali sensazionalistici e interpretazioni esagerate, il cinema di genere ha dimostrato il suo potenziale non solo come forma di intrattenimento, ma come specchio di un Paese segnato da decenni di repressione e violenza.

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