
Sense8 è senza dubbio una delle serie tv di cui si è più discusso negli ultimi tempi, sarà per via della regia e della produzione, portata avanti dalle sorelle Wachowski, sarà per la cancellazione e la successiva petizione portata avanti dai fans, che hanno ottenuto la realizzazione di uno speciale della durata di 150 min, rilasciato l’ 8 Giugno da Netflix o, ancora, per le tematiche che affronta ed il gusto impeccabile che traspare da fotografia, musica e dialoghi. Sarà, infine, per i costi di produzione folli, quasi al pari di quelli sostenuti da HBO per Game of Thrones, spesi qui per tutt’altro genere di motivazioni.
Infatti Lana e Lily, al secolo (ed all’uscita del loro “Matrix”) Laurence ed Andrew, raccontano una realtà, e lo fanno come spesso i migliori sono costretti a fare, cioè sfruttando una fantasia. Le due sorelle mettono sul tavolo un mondo di diversità, tra pedine e scenari, espandono le differenze fino allo spasmo ed, infine, lanciano in aria il tavolo e le osservano attentamente, quelle pedine, ne carpiscono l’essenza, fino a vederle esattamente per ciò che sono: piccoli pezzi di un unico grande gioco, ed in caduta libera dal medesimo tavolo.

I costi di produzione di cui parlavo ( in media quasi 9 milioni di dollari a puntata) sono giustificati dalla verità che le registe si sono proposte di raccontare e far emergere: la storia narrata in Sense8 è la storia di otto ragazzi provenienti dai più disparati luoghi. Ed è proprio in quei luoghi, nonché in molti altri, che il genio delle Wachowski ha deciso di trascinare lo spettatore.
Una dimostrazione dell’impegno profuso dalle Wachowski nella ‘realizzazione’ (da loro intesa e portata avanti in senso del tutto letterale ), è la festa organizzata al KOKO di Londra, anch’essa vera, nonché le successive riprese in aereo verso l’Islanda, con attori e troupe ancora vittime del jet-lag.
Anche la scene girate al Gay Pride di San Paolo, Brasile, portano i connotati reali di cui tutta la serie è senza dubbio pregna, infatti gli attori si muovono nella vera manifestazione: nessun altro recita, tutti vivono quel momento.

Le otto persone in questione, gli otto sensates, entrano in connessione improvvisamente e nonostante si trovino agli antipodi del globo: la loro cerchia è stata ‘partorita’ e la loro madre spirituale è Angelica, interpretata da una Daryl Hannah che si sveste con maestria dei panni indossati in Kill Bill, quanto di quelli della replicante in Blade Runner, 1982 ( ecco l’articolo a riguardo ), per ergersi a ruolo di genitrice sensoriale. Un legame dovuto a nature genetiche primordiali, che li hanno voluti homo sensorium anziché sapiens: questa è la fantasia che le due registe hanno aggiunto, questo il dettaglio di contorno e di base di una storia che racconta l’uomo, con umanità.
Possono comunicare, provare le stesse sensazioni reciprocamente, vedere e vivere in ogni istante degli altri, mantenendo pur sempre la propria coscienza. Berlino, Chicago, Londra, Città del Messico, Mumbai, Nairobi, San Francisco, Seul. E ancora Reykjavík, Amsterdam, Napoli, San Paolo. Queste sono alcune delle città in cui è stato girato, questi i punti di partenza e le mete di personaggi e spettatori.

Il legame del cluster – la cerchia – permette ad ognuno di loro di trovarsi in compagnia dell’altro, senza uscire da quel suo piccolo, remoto, pezzo di mondo. Da qui l’esigenza, che dovrà a lungo attendere, di incontrarsi per davvero. Come facesse realmente differenza, quando menti e corpi si percepiscono ugualmente e costantemente. Lungi da me l’idea di fare spoiler, almeno non di quelli che rovinano la visione: quella delineata finora è solo la base di partenza. Ed il viaggio resta a tratti indefinito anche dopo l’episodio conclusivo, che chiude la plot-line ma non il messaggio eterno di questo prodotto cinematografico a tutti gli effetti.
Capheus, autista di matatu. Nomi, blogger ed hacker. Sun, imprenditrice ed esperta di arti marziali. Kala, chimica farmaceutica. Riley, DJ. Wolfgang, scassinatore. Lito, attore. Will, poliziotto. L’empatia, l’abbattimento di barriere, la forza della complicità come estremo potere e simbolo della nostra umanità, sono alcuni degli ideali che nasconde il prodotto firmato Lana e Lily Wachowski.

Il mondo da loro costruito, o meglio, i personaggi da loro inseriti nel mondo che forse non conosciamo, ma in cui tutti senz’altro viviamo, permette in Sense8 di creare scene al limite della catarsi, fisica e mentale. Il sesso diviene unione di menti, il dialogare unione di corpi: la sfera della sensorialità è invertita nei suoni, negli odori, nelle passioni.
Emblematica è la scena (cui rimando: eccola) di apertura della seconda stagione, in cui la ‘Feeling Good’ di Nina Simone, rivisitata da Avicii e cantata da Audra Mae, ci porta nella dimensione di Sense8, tra attimi di vita, antitetici, dei personaggi e liquidi, acqua e non solo, veri protagonisti della scena e della fluidità che ne risulta. Il risultato complessivo è un trionfo per gli occhi, quanto per la mente.
Un eterno inno alle possibilità dell’uomo, anzi, dell’umanità.
Disturbante e destabilizzante, se si pensa alla scena colossal di Matrix in cui l’agente Smith identifica gli esseri umani in un virus, definendoli infezione estesa di questo pianeta. Non altrettanto distante, però dalla fusione temporale e segnatamente umana che Cloud Atlas è riuscito a regalare.

Quello di Sense8 è un canto di speranza a non arrendersi, mai, davanti a giudizi e definizioni, degli altri quanto di noi stessi. La storia, scene action ed orgie a parte, è pura ed esemplare accettazione del prossimo, abilmente trasposta da recitazione, luoghi e colonne sonore.
Un lavoro riuscito ed entusiasmante che oggi è giunto al termine.
Nello scrivere questo articolo non riuscivo a trovare il modo di esprimere il messaggio sotteso a Sense8, ben oltre la mera idea di lotta alla discriminazione, razzismo, LGBTQ e chiunque altro incluso. Se ne parla spesso in libri, film e musica, ma nulla riusciva a convincermi. Ho trovato però una lettera di un monaco anglicano. Le sue parole vengono spesso, ed erroneamente, attribuite ad Herman Melville, padre del romanzo Moby Dick, a causa della somiglianza tra i loro nomi e dell’uguaglianza dei loro cognomi: il priest in questione si chiamava Henry Melville ed il 12 Giugno del 1855 scrisse “Partaking in Other Men’s Sins” -indirizzata alla St. Margaret’s Church di Lothbury, Inghilterra – parlando in generale dell’indole e della natura umana.
“Non c’è nessuno di voi le cui azioni non operino sulle azioni degli altri – operare, intendiamo, nel modo di esempio: sarebbe insignificante chi potesse distruggere solo la sua stessa anima, infatti siete tutti, ahimè, importanti abbastanza per aiutare e anche per distruggere le anime degli altri …
Non possiamo vivere solo per noi stessi. Mille fibre ci connettono con i nostri simili; e lungo queste fibre, come fili di solidarietà, le nostre azioni corrono come cause e tornano a noi come effetti. “

Appare così la distruzione, seppur estremamente costruttiva, del fil rouge: non due persone in una infinità di volti sconosciuti ed anime distanti. Ma tutti noi, legati da sympathtic theads – fili di solidarietà quanto di solidità- il cui ruolo non è renderci simili, ma evidenziare il valore insito in ogni piccola differenza. Il finale dell’episodio rilasciato ieri da Netflix, “Amor Vincit Omnia” è profetizzante di un nuovo romanticismo, scardinato da ogni comune concezione e condito da erotismo e suono di violini, un erotismo che ha come unica forma quella dell’eterno mutamento.
“L’improbabile susseguirsi degli eventi mi ha portata a considerare che nessuna cosa è una cosa sola, e che quando attribuiamo a ciò che ci è familiare un significato nuovo, in continua evoluzione, permettiamo a noi stessi di rinunciare a ciò che è previsto, per quanto c’è di imprevedibile: è in questo regno che non ci è familiare che troviamo nuove possibilità, è nell’ignoto che troviamo la speranza.
-River El-Saadawi, episodio conclusivo-
Il messaggio delle sorelle Wachowski, se mi è dato di comprenderlo quanto di riassumerlo, è che l’essere umano ha bisogno dell’altro, per essere davvero umano.




