Bergman e il Trascendente – La Trilogia del silenzio di Dio

Roberto Valente

Dicembre 4, 2018

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Ingmar Bergman è certamente uno dei registi più importanti ed influenti, oltre che complessi, attivi nel ventesimo secolo. L’immagine sopra riportata è tratta da quello che è probabilmente il suo più celebre film: “Il settimo sigillo”. Ciò che viene raffigurato è una partita a scacchi tra un reduce dalle crociate in terra santa e niente poco di meno che la morte in persona. Non ritengo sbagliato o improprio l’uso del termine persona in riferimento alla morte, in quanto questo straordinario e geniale regista ha fatto di questo termine un concetto a sé. “Persona” è il titolo del suo film più sperimentale e probabilmente più geniale, un film che ci mostra quanto labile sia lo strumento della parola in riferimento agli esseri umani; di come appunto la parola “persona”, che secondo l’etimologia latina era il termine usato per indicare gli attori teatrali, sia una parola vacua e non sufficiente a rappresentare un insieme di complessità che il concetto di individuo ed identità richiede.

Parliamo di un accostamento potente tra la parola persona e il concetto di maschera quindi, di recitazione, di finzione e menzogna. La morte si palesa, diventa persona nella stessa misura della sua impossibilità di essere un’identità, diventa un concetto che può occupare la mente o il corpo di qualsiasi “persona”. Bergman è geniale nel mostrarci questo paradosso nelle sue pellicole, mettendo alla luce i problemi che affliggono l’uomo e creando una sorta di umanesimo cinematografico esasperato, il quale vede appunto l’uomo al centro delle domande che l’universo inevitabilmente lo costringe a porsi. Abbiamo la possibilità di “giocare a scacchi con la morte” quindi, essa tuttavia indifferentemente dalle nostre mosse finirà per trionfare. Ma il vero cardine della ricerca poetico cinematografica del regista svedese, lo stesso che l’uomo si pone da secoli, è questo: dov’è Dio? Può anche esso palesarsi? Come trovare risposte o certezze per placare quella sete e necessità di fede che il regista e molti altri uomini sentono o hanno sentito? A questo delicato quesito l’autore ha provato a dare un contributo realizzando un’opera magistrale, una trilogia di pellicole: “La trilogia del silenzio di Dio”.

 

1. COME IN UNO SPECCHIO (1961)

Ci troviamo presso una villa situata su un’isola in Svezia, terra madre del regista e luogo prediletto per le ambientazioni di numerose sue pellicole. Il film vede l’utilizzo di soli quattro personaggi: un padre che è anche un’artista, un romanziere precisamente, personaggio chiuso nella sua torre d’avorio artistica ed estetica a svantaggio dei rapporti umani con i suoi familiari mai stati particolarmente coltivati; suo figlio, giovane ragazzo tormentato dal gelo sempre avvertito nei confronti di suo padre e infine una giovane coppia, rappresentata nell’immagine soprastante. La chiave del film è rappresentata proprio da questi due ultimi personaggi, rispettivamente, un uomo premuroso e affabile e sua moglie, giovane candida ragazza afflitta da una malattia molto grave che potrebbe condurla alla morte.

La situazione, già tesa a causa della particolarità dei rapporti tra i personaggi (costretti a incontrarsi e relazionarsi trovandosi nello stesso luogo e lontano dal “resto del mondo”), precipita quando Karin, frugando nei cassetti di suo padre, viene a sapere della gravità della sua malattia. Il suo dolore non può essere ormai tenuto a bada, i suoi deliri la spingono a cercare risposte nel riparo ultimo: la fede. Questa domanda coinvolgerà tutti i personaggi, ognuno per il proprio tormento. Un padre artista che cerca nella malattia di sua figlia degli stimoli artistici, ignorando la realtà dei fatti e il progressivo aumentare delle possibilità di una tragica fine, un marito che tenterà di fargli aprire gli occhi e abbandonare quel mondo “finto” e quella maschera estetica per affrontare la triste realtà; e infine il fratello nel quale Karim troverà la vera fonte di sollievo, la comprensione che non ha mai trovato in nessun altro. Tutti e quattro i personaggi fanno i conti con l’incomunicabilità. Questa malattia dell’animo diventa malattia effettiva per Karim e quell’incomunicabilità tanto sofferta adesso deve fare i conti con la possibilità di una straziante morte. Ecco che di fronte a tale aridità e tragicità Dio diventa una possibilità di chiarezza, di luce, una risposta, una parziale salvezza. Ma dove si trova tale salvezza? Come trovare risposte in qualcosa che possiamo solo invocare? Ed ecco che in una magistrale sequenza Karin, durante una crisi quasi estatica, credi di aver visto Dio; per poi scoprire che quello che pensava essere Dio altro non era che un ragno. Non resta che il nulla, lo specchio, quello attraverso il quale il padre romanziere vede la tragedia reale di sua figlia: lo specchio dell’arte, lo stesso che utilizza il regista per mostrarci i suoi tormenti. Questo riferimento a se stesso potrebbe mettere in evidenza i limiti dell’arte stessa nel comprendere questo mondo. Tuttavia sarà proprio dal personaggio del padre, ormai doppio dichiarato di Bergman, che arriverà la soluzione finale a questo tormento esistenziale:

Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini.
Intendi un amore particolare, non è vero?
Ogni genere d’amore: il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore.
Anche il desiderio d’amore?
Il desiderio e la repulsione, miscredenza e fede.
L’amore è una dimostrazione di Dio?
Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio oppure se l’amore sia Dio stesso.
Per te amore e Dio sono la stessa cosa, allora?
Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. È come essere graziati in punto di morte.

 

2. LUCI D’INVERNO (1963)

Anche qui il film si regge sull’utilizzo di pochissimi personaggi, forse uno solo è il vero personaggio fondamentale: un pastore protestante che ha perso la fede in Dio. Sicuramente questa fede è venuta meno dopo la morte della sua amata moglie, mostrando quindi la continuità di intenti con il finale del precedente film della trilogia: il binomio Amore-Dio. Essendo venuto meno l’amore Dio diviene qualcosa di silenzioso, non si mostra e costringe al tormento il pastore che in quel momento diviene paradigma di chiunque non abbia mai trovato risposte ai suoi quesiti esistenziali. Tutto sembra così futile e superfluo, sterile, il pastore perde se stesso dopo aver perso sua moglie e di conseguenza Dio. La certezza acquisita nel monologo finale di “Come in uno specchio”, quell’amore ricoperto di aura divina, viene con questo seguito messa in crisi. Senza la tangibilità di Dio, il cui unico modo possibile è il puro amore (in ogni sua forma), il mondo diventa una grigia distesa di sassi nella quale le nostre anime vagano in cerca di sollievi e risposte. In questo apocalittico paesaggio a cosa serve Dio? Poetica la riflessione sulla figura di Cristo e sul suo dolore di fronte al silenzio del padre piuttosto che di fronte alle sofferenze fisiche ricevute sulle quali la chiesa insiste, il vero dolore che Cristo ha provato è lo stesso che affligge l’uomo da secoli: il silenzio di Dio.

Se veramente Dio non esistesse, nulla avrebbe più importanza. La vita avrebbe una spiegazione, sarebbe un sollievo; la morte solo una frattura, la fine del corpo e dell’anima; la crudeltà della gente, la sua solitudine, i suoi timori, tutto sarebbe chiaro come la luce del giorno: le sofferenze non dovrebbero più essere spiegate.

 

3.  IL SILENZIO (1963)

Con questa pellicola, autentico gioiello tecnico del regista, Bergman mostra attraverso il cinema la solitudine di un’individuo, la sua paranoia e la sua frustrazione date dall’incomunicabilità con il mondo; fino ad arrivare a descrivere un probabile senso di psicosi e squilibrio mentale.

Anna ed Ester sono due sorelle che, in compagnia del figlio della prima, stanno tornando a casa dalla villeggiatura. Ester ha un malore e i tre sono costretti a fermarsi in un piccolo paese sconosciuto chiamato Timoka, dove non hanno la possibilità di comunicare con la popolazione locale a causa della differenza di lingua. Tra le sorelle comincia a nascere un clima di tensione, legato a vecchi rancori, mentre assistiamo al vagare per  i corridoi di un grande albergo da parte di un bambino, il figlio di Anna, che incarna a pieno la figura edipica; accompagnata da una forte necessità di attenzioni che manifesta con eccentriche azioni ( come orinare in pieno corridoio).

Ester, in preda ad una malattia probabilmente terminale, comincia a rendersi conto che nel frattempo sua sorella cerca attenzioni tramite la frequentazione con uomini del posto. Tutto questo fa precipitare la situazione. Anna abbandona sua sorella e parte con suo figlio, lasciando Ester in un delirium tremens che sembra preannunciare una morte che in realtà non arriva. Attraverso delle inquadrature magistrali, i dialoghi scarni, l’instabile psicologia dei personaggi, Bergman ci parla della situazione da individuo nell’amalgama sociale. Timoka non è che metafora del mondo, posto dove non c’è spazio per la comunicazione, per la comprensione: solo l’arte forse potrebbe adempiere a questo compito (e non è un caso che l’unica situazione in cui Ester riesce ad intendersi con il vecchio cameriere dell’albergo è attraverso la musica di Bach). Le due protagoniste sono forse lo sdoppiamento delle personalità di Bergman: quella artistica ed austera e quella più dionisiaca e materiale.

In molti aspettavano una chiusura della trilogia orientata verso il positivo e la speranza ma ciò che possiamo vedere, o meglio sentire, è sempre e soltanto quell’odiato silenzio del quale il regista non può che prendere coscienza, relegandosi la sola facoltà quasi pirandelliana di raccontarlo attraverso la sua amata arte.

Non sai vivere se non ti senti diversa, questa è la verità. A te piace solo quello che è di importanza vitale, significativo, dotato di un senso…

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