Don’t let the old man in, I wanna leave this alone/ Can’t leave it up to him, he’s knocking on my door/ And I knew all of my life, that someday it would end/ Get up and go outside, don’t let the old man in (Hollywood, aggiungerebbe Tarantino).
Don’t let the old man in, Toby Keith
Su queste note scorre il malinconico finale dell’ultima fatica del pistolero senza tempo.
Il 2019 ha visto il ritorno dei grandi maestri del passato, a cominciare da Clint Eastwood.
“Al mio mulo non piace la gente che ride. Si ha subito l’impressione che si rida di lui.” (Per un pugno di dollari, Sergio Leone, 1964). Questa è una delle linee di dialogo con cui aveva inizio la carriera di un giovane Clint, vestito di poncho e armato di colt. Curioso, dunque, che la sua ultima fatica si intitoli The Mule, il mulo appunto, noto per la sua testardaggine, ma qui inteso come corriere.
The Mule è un film su di un tempo perduto non più ritrovabile, su di un amore forte del futuro, la dimensione dell’indefinito e del possibile. Un domani non sempre garantito, tuttavia, istanti che tutti i soldi del mondo non potrebbero comprare.
Una pellicola quasi testamentaria, di un Eastwood consapevole dell’esistenza di una fine, ma che non vuole lasciar entrare l’uomo vecchio. Un uomo che forse non può rimediare a ciò che è stato, fatto a pezzi dai rimorsi, dal rimpianto di essersi dedicato troppo a ciò che, alla fine, aveva meno importanza. “Per quel che può valere, mi dispiace per tutto” sussurra il protagonista.
Clint Eastwood, il buono senza nome di Sergio Leone, il cavaliere pallido, lo spietato. Ha vissuto, non metaforicamente, un’era: sulle sue rughe è iscritta la storia del cinema.
Non recitava sul grande schermo da undici anni (da Gran Torino nel 2008), ed è tornato per mostrarci le ripercussioni delle azioni passate su di un presente ineluttabile. Soldi, carriera, la realizzazione di sé dovrebbero avere la stessa considerazione delle “piccole cose”, come l’amore di una vita, una famiglia (di sangue o meno), di un crepuscolo accompagnato da un buon vino. “Questa è l’ultima volta” si ripete più volte il personaggio durante il film, o forse è Eastwood che lo ripete a sé stesso e a noi spettatori.
Il protagonista di The Mule viaggia sulle sconfinate strade americane, attraverso le frontiere, come se fossero gli oceani del tempo solcati dal regista del west, il quale ha visto Hollywood stessa cambiare, mutazioni giungere inesorabili. La sua epoca, se non è estinta, di certo è allo scadere delle sabbie. Ma vive in lui, cavaliere della valle solitaria di Los Angeles, come negli altri maestri, nostalgici cowboy cantastorie, che nonostante l’anzianità di servizio, hanno ancora fiabe da raccontare.
You don’t know what’s going on/ You’ve been away for far too long/ You can’t come back and think you are still mine/ You’re out of touch, my baby.
Out of Time, The Rolling Stones
Poiché c’era una volta a Hollywood un bambino di nome Quentin Tarantino, fan sfegatato di film come Il Buono, il Brutto e il Cattivo, dei western senza tempo, di un cinema che si avvia, cavalcando, al tramonto. Quell’era, quelle storie, tutti quei Rick Dalton in sella andavano omaggiati e celebrati. La nona pellicola di Quentin Tarantino, se non fosse per le dichiarazioni contrastanti, avrebbe potuto benissimo essere la sua ultima.
Tre giornate in una Hollywood da fiaba, non più esistente, spentasi nel 1969. Un anno di drastici cambiamenti, un anno in cui l’America non sarebbe più stata un paese per cowboy.
La Nuova Hollywood, quella di Polanski, sta per soppiantare definitivamente la mascella squadrata e gli occhi di ghiaccio di Rick Dalton (o di Clint Eastwood). È l’infanzia stessa di Tarantino ad avere i giorni contati, prima che i pistoleri muoiano, prima che i Beatles si sciolgano, prima che Sharon Tate venga uccisa.
Baby, you’re out of time. È il ritornello di una delle canzoni finali, Out of Time dei Rolling Stones, che ascoltiamo mentre vediamo neon accendersi su di una Hollywood che si sta spegnendo. Fuori dal tempo, perché Tarantino ci mostra il cinema che lo ha cresciuto e che ora sopravvive in lui e in lui solamente. Perché nella fiaba Sharon Tate è ancora viva, Hollywood è ancora quella di una volta. Il regista è alla ricerca di un tempo perduto, di un cinema perduto, di un finale da “e vissero tutti felici e contenti”. Nei racconti il passato può cambiare, ma nella realtà le grandi narrazioni e i grandi maestri si avviano verso il capolinea.
Nonostante un ritmo da rock’n’roll e un’atmosfera piacevolmente estiva, una senilità di fondo pervade C’era una volta a… Hollywood. Una pellicola forse non tarantiniana, ma senz’altro di Quentin Tarantino, che si mostra in tutta la sua forza e in tutta la sua vulnerabile nostalgia, nel suo tentativo di catturare un’epoca intera su pellicola, con una cinepresa, così che possano vivere in eterno. Come se girare il film fosse una dichiarazione d’amore e, insieme, una promessa.
Los Angeles, la Vecchia Hollywood, non sono sopravvissute, però, e questo contamina il lieto fine della fiaba di un’amarezza malinconica.
Da quella dimensione smarrita sono giunti fino al 2019 Eastwood e Tarantino, ancora in sella per un’ultima cavalcata. A loro si è affiancato presto un altro regista fuori tempo, ma cui basterebbe una notte per essere re.
Con The Irishman Martin Scorsese è tornato a casa, al gangster movie, alle scalate sociali e alle degenerazioni umane. Non più al ritmo di rock dei Rolling Stones stavolta, ma sulle lente e sinuose note di In the still of the night (Five Satins).
Il film, che nessuno sano di mente paragonerebbe a The Mule, tratta press’a poco dello stesso tema della pellicola del buon Clint Eastwood: di un uomo che rinuncia agli affetti, all’amicizia, a qualsiasi forma di legame pur di fare il suo dovere.
In pochi sanno raccontare una parabola umana come Martin Scorsese, nel silenzio della notte, negli sguardi e nei non detti.
Lavorando per la mafia il protagonista, Frank Sheeran, ottiene sempre più successi, è sempre più amato e rispettato. Però, tanto più si avvicina alla gloria, tanto più si allontana dalla figlia. Alla fine, anziano, sulla sedia a rotelle, in una casa di riposo, non aspetta altro che lei vada a trovarlo. Il passato, tuttavia, bussa alla tua porta, lo farà sempre, specie se lo hai tradito, ma sarà un eco vuoto, un eterno tormento di assenza.
The Irishman finisce così: una porta aperta nell’attesa che qualcuno varchi la soglia. Non vi è la certezza, però, che questo accada. Così, un vecchio uomo rimane ad aspettare, ciò che forse aspettava da tutta la vita.
Scorsese si aggiunge, quindi, ai due colleghi di una certa età, i quali hanno realizzato, nel 2019, film che sembrano corona e testamento di una carriera leggendaria. Eppure, tutti e tre hanno un’altra pellicola in cantiere per gli anni a venire. Tornano, ancora una volta, perché c’è bisogno di loro. Nell’era del politicamente corretto, dei remake, della paura di rischiare e di non fare cassa, loro ritornano inesorabili. Non curanti del guadagno, ma di raccontarci una bella storia, di quelle narrazioni che salvano la vita.
Clint Eastwood, Quentin Tarantino e Martin Scorsese sanno che tutto finisce e sanno di essere prossimi alla fine. Se non loro fisicamente, il cinema che gli appartiene sicuramente, quello autentico, sincero e poetico.
Uomini anziani interpretano i loro film, o in alternativa cavalieri del west in via d’estinzione, allegorie della vita dei registi, delle storie che hanno raccontato.
Non è più un cinema per vecchi, non è più il tempo dei cowboy e dei gangster.
Tuttavia, lasciano una porta aperta, da cui però non bisogna lasciar entrare l’uomo vecchio, come diceva la canzone. Perché se le giovani pellicole sono rapide, dinamiche, ottime per l’intrattenimento, c’è ancora un po’ di tempo rimasto, gli ultimi granuli della clessidra, per narrazioni di conflitto, di crescita, lunghe, difficili, sofferenti e nostalgiche, ma anche dolci, provenienti dal cuore e al cuore dirette.
Il buono, il cowboy e il gangster sono i registi dell’umano e delle sue frontiere, della sua perdita e della sua redenzione, dell’amore e dell’odio, della distanza e della violenza. Hanno dato e continuano a dare un significato alla parola Cinema. Ciò che hanno compiuto è materia di leggenda, e non importa che la loro storia sia vera alla fine. Come nel far west, se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda.