“Se tu vuoi spingere il pezzo di un macchinario fino al limite e pretendere che comunque tenga, devi imparare a capire in qualche modo dov’è quel limite. Capisci? Guarda laggiù. Laggiù c’è il giro perfetto: nessun errore, ogni cambio di marcia, ogni curva… Tutto perfetto. Lo vedi? Quasi nessuno ci riesce, la maggior parte non sa nemmeno che c’è. Però esiste, è lì.”
– Ken Miles
Un film dinamico su di una sfida ad alto tasso d’adrenalina, che derapa su sequenze da cardiopalma. La storia dell’impresa compiuta da quella coraggiosa Ford che sfidò la leggendaria Ferrari, e vinse sul circuito Le Mans nel 1966. Una sceneggiatura forte del rombo dei suoi motori, semplice ed efficace, elegante come una berlina, scattante come un go kart.
Tuttavia, non sono queste le qualità che garantiscono una nomination agli Oscar come Miglior Film, specie al fianco di candidati quali Parasite, C’era una volta a… Hollywood e The Irishman.
Come mai, dunque, Ford v Ferrari (arrivato in Italia come Le Mans ’66 – La Grande Sfida), un’ottima pellicola d’intrattenimento e spettacolo, è in corsa per il titolo più prestigioso della cinematografia?
Forse Le Mans ’66 non è solo un film su di una gara storica, ma anche il racconto di una vicenda umana tragica, complessa, fatta di egoismo e malinconia. Elementare nella realizzazione, profonda nel significato possibile, incarnata unicamente da Ken Miles, l’uomo dietro la leggenda.
I racconti contraddittori e agrodolci degli esseri umani, a quanto pare, conquistano il cuore degli spettatori e dell’Academy, al di là della discutibilità delle sue nomination negli ultimi anni.
Ken Miles è il pilota che ha permesso alla Ford di vincere, realizzando un’impresa all’epoca impensabile, cioè battere la Ferrari su di un circuito europeo. Una pista oscura, impervia, ostile, che si sarebbe fatta domare solo da quel giro perfetto. E così è stato, ma Miles non fu considerato all’epoca il primo a tagliare il traguardo: niente cima del podio per lui.
Aveva la vittoria in pugno, con la Ferrari fuori gioco e altre due vetture Ford alle sue spalle. Il presidente Henry Ford II, però, voleva di più, voleva che le tre auto arrivassero parallele al fotofinish. Miles era, ovviamente, riluttante: quello era il suo giro, la sua gloria. È come derubare un cacciatore della sua preda, in pratica derubare un uomo del suo senso di esistere, del suo destino. Era come derubare Prometeo del suo fuoco. Ken Miles stava sfidando sé stesso in quella gara, stava sfidando quello sguardo allo specchio, quello di una persona che ti fissa giudicandoti continuamente, chiedendoti “quand’è che avremo uno scopo?”.
L’egoismo non appartiene necessariamente ai malvagi, ma anche a coloro che cercano qualcosa oltre l’orizzonte, un qualcosa che vada oltre la luce e l’oscurità, un qualcosa che forse non c’è, e li condanna.
Esistono tante ragioni di vita, come nessuna; esistono le piccole cose, esistono odio e amore, le promesse e i rimpianti. Possibili scelte o non scelte, ma resta il fatto che esiste anche l’umanità e il bisogno disperato di sentirsi vivi, di realizzarsi come esseri umani. Laggiù c’è un giro perfetto che in pochi vedono, perché raggiungerlo comporta un amaro prezzo da pagare. Il sacrificio di sé e, paradossalmente, della propria vita, così da poterla compiere, l’angoscia e il terrore di morire senza avercela fatta.
Eppure, cosa fece dunque lo scontroso e imprevedibile Ken Miles in quella sua gara, in cui gli fu chiesto di condividere il traguardo? Scelse di abbandonare la solitudine dell’ambizione, come una vecchia amica, poiché ormai era arrivato alla fine; non quella segnata dalla bandiera a scacchi, bensì la linea dell’orizzonte. L’alba di una nuova gloria sfumava nel tramonto della sua esistenza, perché il giro perfetto era compiuto. Trofei e podio, riconosciuti o meno, sarebbero stati solo una formalità.
Poco tempo dopo, Ken Miles morì in un incidente d’auto durante il test di una nuova automobile Ford. Così, senza che la sua morte avesse un significato: era la vita che doveva averne e l’aveva avuto. Citando le ultime parole del film, alcuni non vogliono neanche scendere dall’auto.
“Ma non importa, la strada è vita”
–Jack Kerouac
Il circuito, le curve, i rettilinei, la strada sono infiniti, sono la vita stessa il cui carburante è il movimento, il continuo andare, abbandonando l’illusione del controllo, solitari, ma coi nervi saldi.
Non sappiamo e non sapremo mai a chi o a cosa fosse destinato l’ultimo pensiero di Miles, l’uomo che andò lontano mille miglia, lottando per ogni centimetro come fosse una meta, verso quel luogo remoto in cui non si può ricordare, né dimenticare, dove si può solo essere. Forse pensava ai suoi affetti, quelli sacrificati in nome della gara contro sé stesso, forse era in pace, finalmente realizzato, raggiungendo quel traguardo che in pochi riescono persino a scorgere.
Asfalto bruciato, serbatoio vuoto, luci spente sulla pista. Le Mans ’66 diventa così il racconto della morte di un uomo, ma della sua vita.