Il cinema di Alice Rohrwacher
«La libertà è un respiro. Ma tutto il mondo respira, non solo l’uomo. Respirano le piante, gli animali. C’è ritmo (che è respiro) non solo per l’uomo. Le stagioni, il giorno, la notte sono respiro. Le maree sono un respiro. Tutto respira, e tutto ha diritto di respirare. Questo respiro è universale, è il rollio inavvertibile della vita. Se la libertà è prima di tutto un respiro, se è il respiro: sì, rispondo. C’è libertà per l’uomo. Ma è in questo modo, come cosa e diritto di tutti, che l’uomo intende la libertà? Non credo. A me sembra vada diffondendosi il concetto di libertà come furto del respiro altrui. Mi riferisco alla violenza, che ne è l’emblema. Ma subito dietro la violenza vi è la sopraffazione più grande, così estesa da far impallidire. Vi è il diritto di mentire, di presentarsi (pubblicamente) come altri, che è tipico della forza; vi è il diritto universale, legittimato dalla sola forza, di mercanteggiare e corrompere ciò che dovrebbe essere intoccabile: gli spazi terrestri e celesti, con le loro creature che respirano; gli spazi sociali, con i loro figli che respirano […]. Vediamo infatti quest’uomo, senza più leggi o regole di vita, decadere e abbruttirsi in sistemi sociali o mentali che sono solo occasione di lucro per chi li difende e sostiene; vediamo la giovinezza non avere più direzioni, cercarle come si cerca l’ossigeno, e non trovarle; vediamo tutti i figli della vita patire e cercare spazio, inutilmente, girare il capo in cerca della libertà, dell’aria, la libertà superba promessa dal secolo superbo che ci trascina. Questa libertà non appartiene che a pochi, quest’aria non è di tutti!».
(Anna Maria Ortese, “Corpo Celeste”)

Anna Maria Ortese
Con queste parole, Anna Maria Ortese sembra sussurrarci, con la pietas silenziosa che caratterizza il suo gesto letterario, una verità semplice quanto vertiginosa: qualcosa è andato storto nel processo di tecnicizzazione, di industrializzazione, di razionalizzazione del reale. Nella seconda metà del XX secolo, quando la Ortese ancora scriveva, il mondo era già così esteso, efficiente, produttivo. La rivoluzione industriale e culturale iniziata nel secolo precedente aveva già esibito le sue contraddizioni. Gli spazi esterni, i campi un tempo incolti o faticosamente coltivati, erano diventati giardini privati. Si lavorava tanto, si costruiva, si utilizzavano risorse naturali e sociali come fossero infinitamente disponibili. Si aprivano cassetti pieni di sogni nuovi, infinitamente grandi. Infinitamente ostili.
La regista Alice Rohrwacher sembra aver letto la Ortese, quando nel 2011 scrive e dirige il suo primo lungometraggio, Corpo Celeste. Poco importa sapere con certezza se la sua influenza fu diretta o soltanto inconscia. Poco importa, infatti, dare un nome alle cose e alle idee se le cose e le idee ci attraversano senza un nome. In fondo ogni immagine del suo cinema è chiaramente debitrice all’immaginario del neorealismo, a una certa letteratura italiana, alla storia d’Italia. Ma lo è come noi lo siamo al passato. Un passato che ricordiamo in modo indistinto e che tuttavia lascia in noi degli echi presenti e sensibili, come certe frasi ascoltate in un sogno.
Le immagini ancestrali, di contadini, apicoltori, paesaggi lontani e scostanti, imperfetti come dipinti. I rapporti umani semplici, di poche parole o di parole sbagliate: carezze e violenze che non riconosciamo.
La Ortese parla di un mondo insostenibile (da un punto di vista ambientale, ma anche esistenziale). La Rohrwacher parla di una misericordia che può provare solo un infante, o l’uomo agli albori della sua storia. «Io auspico un mondo innocente», diceva Anna Maria. E il suo auspicio si declina in Alice, ma senza nostalgia: solo una profonda coscienza dell’importanza del ricordo, per il presente e per il futuro. Mai come oggi l’umanità ha saputo dimenticare.
Cercheremo di non impossessarci del passato della Rohrwacher, né della sua biografia personale né del suo percorso intellettuale. Piuttosto ne delineeremo le ricorrenze, i riferimenti, le scelte. Il suo è un cinema periferico, e per questo libero dalle forze centralizzanti ed estremiste del nostro tempo. È un cinema che parla di un mondo all’alba, un mondo prima del mondo, se per mondo intendiamo il nostro (il mondo della religione costituita, della televisione, delle industrie). Ma è un cinema anche politico, se politica è ogni azione finalizzata a destare l’uomo dalla propria esistenza privata – spazio angusto e nevrotico del XXI secolo – per incontrare la coesistenza: il tentativo di vedere un mondo comune a partire da una storia comune.
Marta, Gelsomina, Lazzaro. Il rapporto complesso che intercorre tra i loro corpi, celesti, e l’ambiente dal quale emergono; il contrasto del loro mondo con un mondo altro – con il mondo degli altri. Il primo incontro con l’insorgere irruento di una realtà che resiste loro, come il giorno resiste all’oscurità della notte.
Le “periferie” della civiltà
Esistono periferie che non sono geograficamente determinate, ma che risiedono nella mente e nel cuore: il luogo in fondo non esiste senza chi lo abita. Sono periferici gli eccentrici, coloro che non si sono adeguati, che non hanno aderito al progresso, alle nuove mode, al cambiamento. Sono periferici i santi, i sottopagati, i senza dimora, gli analfabeti. Il cinema di Alice Rohrwacher dà vita a quell’universo distante che non occupa nessun potere, che non raggiunge nessun trionfo, ma piuttosto rimane legato a sé stesso, e, come una luce episodica che non può collegarsi a nessun’altra luce, inevitabilmente scompare.

Marta e don Mario in “Corpo Celeste” (2011), Alice Rohrwacher
La Reggio Calabria di Corpo Celeste, dove Marta fa ritorno insieme alla madre, è tra la montagna e il mare. È un luogo periferico, marginale, ma che tende ipocritamente verso l’alto. Un’altezza figurativa, ovviamente, come figurativa è la carnalità di Cristo – riferisce la catechista Santa ai suoi piccoli allievi. È in lei che si rispecchia il cattolicesimo di facciata, scandalizzato e rigido, che Marta lentamente impara a disimparare.
Santa incarna, insieme agli altri membri della sua parrocchia (la sua parrocchia, certo, perché è lei che amministra lo svolgersi dei sacramenti e delle processioni, che lava le lenzuola e porta il cibo al parroco, che rimprovera con durezza Marta) una periferia colpevole della propria vanità, ma forse non della propria ignoranza.
Chi ignora, infatti, non sa di ignorare: vive all’interno di un sistema dal quale non riesce a sollevarsi. Da qui, il terrore della minaccia – soprattutto se è una beffa – che scompone la fragile stabilità delle sue abitudini.
Insieme a Santa, don Mario è il tormentato “curato di campagna” che vuole ascendere la tortuosa scala delle gerarchie ecclesiastiche: vuole andarsene da Reggio, in una città più grande. Vuole farsi vescovo. È interessante il contrasto tra don Mario, prigioniero stanco della periferia, e il suo alter-ego, don Lorenzo, che ha scelto di restare sulle alture di Africo Vecchio e che ancora sa interpretare il Vangelo.
È l’incontro-scontro di due periferie: l’una che si supera, ambiziosa e mondana, l’altra che si ritira, in solitudine, lontana dal potere e dalla ricchezza.
Anche la famiglia apicoltrice di Gelsomina, in Le Meraviglie (2014), vive alla periferia del mondo. Un mondo periferico perché arretrato, affermerebbe con giudizio qualsiasi ministro dello sviluppo.

Una scena da “Le Meraviglie” (2014), Alice Rohrwacher
Una casa, che vista dall’esterno appare disabitata (come vediamo dalla prima scena), ma che ospita un mondo appena nato se la si guarda dall’interno: è un mondo che si riconcilia con la natura, e che ne torna a far parte, utilizzandola entro i limiti che lei stessa concede. È soltanto in questo senso che questo mondo può dirsi periferico. Periferico come è periferica la campagna, oggi, e chi la vive. In questo spazio si sviluppano comportamenti, contrasti e affetti periferici, disancorati da quei solidi codici civili che pesano invece le nostre controllate coscienze.
Con Lazzaro felice (2018) troviamo la coesa comunità di mezzadri dell’Inviolata, vera periferia della civiltà e del progresso.

La migrazione dell’Inviolata, in “Lazzaro Felice” (2018) di Alice Rohrwacher
Cinquantaquattro contadini, uomini e donne, che lavorano in schiavitù, sotto il giogo dell’anacronistica marchesa De Luna, ultimo residuo rimasto del feudalesimo: giogo che a loro pare un’egida, e alla quale si sottomettono senza domande. La periferia di Lazzaro Felice è reale e immaginata. È esistita, ed è proprio con quella violenza che lentamente è scomparsa. Ma è anche immaginata: Lazzaro, l’uomo buono di fronte al quale il lupo ha limitato la sua fame, non esiste se non come miraggio di purezza eterna e inconsumabile, che sopravvive al progredire del tempo.
L’Inviolata è una periferia campestre dove non esistono individui – concetto borghese – ma solo forza lavoro e merci. La stessa migrazione, vissuta come una violenza ancora più grande della violenza originaria, non lascerà spazio a nessuna redenzione, a nessun cammino nuovo: non per loro. Chi nasce periferico, infatti, resta sempre indietro, a-centrale, spinto all’angolo. Più cerca di avvicinarsi al centro, più il centro lo attraversa, lo allontana, infine lo interna in deserti suburbani provvisori.
L’irruzione di una insostenibile modernità
Con la parola “incivile” si intende, in senso per lo più dispregiativo, colui che non si è ancora adattato, o non è riuscito ad adattarsi – per pigrizia o necessità – ai dettami della società civile, e che gravita ancora tra l’ingenuità di un bambino e l’animalità di una bestia. Tutti i film di Alice Rohrwacher ritraggono gli incivili, ma non li omaggiano. L’inciviltà è condizione e radice della civiltà.
Lo stile di vita della famiglia di Gelsomina emerge in antitesi e in contrasto con lo stile di vita degli altri. Gli altri non si vedono, ma si immaginano: sono gli spettatori del “Paese delle Meraviglie”, che osservano dietro a uno schermo rassicurante. Gli altri, in Lazzaro Felice, sono i clienti della banca, che sfogano la propria paura soltanto su Lazzaro, e su Lazzaro soltanto. Su Lazzaro che è vittima di un grande equivoco, a lui sconosciuto.

Incontro tra Lazzaro e Antonia, “Lazzaro Felice”, (2018), Alice Rohrwacher
La modernità è quindi intelligenza chiusa in sé stessa, che non guarda a cosa lascia indietro, ma come un aratro smuove terreni immobili che riposano tranquilli, e si impone su di essi senza preavviso. Il Grande Inganno dell’Inviolata è vissuto con sofferenza dai mezzadri. E non tanto per l’orgoglio derivante dal danno subito, ma per l’acquisizione improvvisa di una libertà sconosciuta. Di questa libertà non sanno che farsene.
La marchesa De Luna non fa arrivare loro nemmeno una briciola di rivoluzione, ma porta soltanto un prete: simbolo della religione costituita che tiene a bada le coscienze.
La modernità, che coglie impreparato il mondo antico di Lazzaro, ha il volto grigio del cemento. Antonia incontra miracolosamente Lazzaro a distanza di anni, giovane e intatto, immune dal trascorrere del tempo. Mentre lei, insieme a tutti gli altri, è nuovamente vittima di una lotta per la vita e per l’indipendenza. Rohrwacher costruisce così l’incontro impossibile tra due condizioni: la condizione di Lazzaro, l’uomo incorrotto che vive al di là del patto sociale, e la condizione di Antonia, che racchiude in sé il dramma del passaggio e del cambiamento.
Se in Lazzaro felice la modernità – con i suoi mezzi e fini – ha un carattere per lo più privativo, in Le Meraviglie e in Corpo Celeste ha il carattere dell’eccessivo e del superfluo.
Un eccesso che attira Gelsomina e la sorella come il suono seducente di un flauto, e verso il quale la prima cerca di trascinare il padre. Gelsomina risponderà allo spettacolo televisivo che ha inondato i suoi luoghi attraverso un altro spettacolo: le docili api escono dalla sua bocca e le camminano in volto. È una delle immagini più esaustive del rispetto di un legame, quello tra natura e uomo, in contrapposizione con l’appropriazione indebita dei media e dei riflettori, votati a complicare cose semplici, così come a diluire, se non a liquidare, porzioni ricchissime di mondo.

Gelsomina in “Le Meraviglie” (2014) di Alice Rohrwacher
Allo stesso modo, la religiosità della parrocchia di don Mario, in Corpo Celeste, brulicante di fedeli mondani e facilmente corruttibili, è all’insegna di una smodatezza tutta moderna, estremamente attuale – se ci pensiamo. Il sacramento della cresima è un evento di festa che ha perduto qualsiasi profondità, per ridursi a degli sciocchi spettacoli di danza e di canto: Marta è il corpo quasi adulto che tocca veramente il corpo di Cristo, e che ne attraversa senza saperlo il mistero.
Il sacro in ogni cosa
Il mondo è un corpo celeste. Tutte le cose sono celesti. La coda della lucertola, che ancora si muove nonostante sia staccata dal corpo. Il corpo nudo di Gesù, crocifisso molte volte, immobilizzato da una rappresentazione che lo vuole buono e sorridente: don Lorenzo, al contrario, non ha paura di dirci che Gesù era solo e arrabbiato. Il sacro, il religioso, così come viene inteso da chi ne indossa le vesti, è soltanto una drammatica caricatura. La Chiesa, con i suoi banchetti e le sue ambizioni, è il tragico furto della verità della passione.
Lazzaro Felice è forse il compimento dell’intenzione della Rohrwacher, e delle sue sceneggiature: esiste il bene. Esiste anche il male, ed esiste quella tensione propriamente umana che permette al servo di diventare padrone di un altro servo. Ce lo insegna la marchesa De Luna mentre osserva sé stessa sfruttare i mezzadri, e i mezzadri sfruttare Lazzaro. Ma Lazzaro è probabilmente il punto di partenza e il punto d’arrivo di questo circolo vizioso.
È l’uomo primigenio, che vuole il bene per il bene. Egli non concepisce il male, ma lo subisce soltanto. Lo dimostrano i suoi occhi trasecolati e irriflessivi: occhi liberi, se la libertà è un respiro gentile che è dato a tutti, e che non esiste quando non è per tutti.

Lazzaro in “Lazzaro Felice” (2018) di Alice Rohrwacher
In una recente intervista, Alice Rohrwacher ha dichiarato di aver scelto il cinema di finzione piuttosto che le riprese documentarie: quando le persone fingono non è necessario bussare. Fotografare vite viventi può apparire estremamente scortese. Per questo il suo cinema è delicato. E non certo perché è un cinema femminile. La violenza che traspare da Lazzaro felice appartiene a una preistoria dell’umanità, dove l’orrore veniva esorcizzato senza trasformarsi in legge, e si dava quindi in modo assoluto – senza compromessi. Al tempo stesso, la violenza riposta negli atteggiamenti di Wolfang, padre di Gelsomina in Le Meraviglie, non è mai ostinata e intenzionale, ma nasce da una mancanza di linguaggio e da un’incapacità di accordarsi con gli altri. Mancanze che non sono antisociali, ma pre-sociali.
Così in Corpo Celeste, le risate spontanee di Marta, la semplice dimenticanza di una preghiera, sarebbero dovute restare senza ingiuria, sistemate senza forza. Erano soltanto le immagini di un sole imperfetto che sorge senza ricordarsi di tramontare. Un sole che sarà educato a tramontare, dimenticandosi delle sue innumerevoli albe.