«Mi chiedevo come fosse cominciata tra loro. Adesso lo so».
È semplice, pensando a un sentimento come l’amore, ricondurlo a un luogo, una situazione, uno spazio ben definito. Vi si colloca quasi spontaneamente, come se quello fosse il suo posto, e lo fosse sempre stato. Più complesso, forse perché nel ricordo il tempo si fonde, scompare, si mescola e ci inganna, diventa associarlo a un momento. Impossibile, o quasi, ad una mancanza, a un attimo mai avvenuto.
È probabilmente per questo che la poetica di Wong Kar-wai ci coglie alla sprovvista, e ci culla, delicata, facendoci avventurare in una storia fatta di sguardi, di silenzi, di assenze.
Tenendoci per mano il regista ci accompagna, nel suo film ormai più celebre, In the Mood for Love, 2000, in una Hong Kong iper-conservatrice degli inizi degli anni ’60, in cui rapporti tra uomini e donne sono controllati da vicino e, nel caso sfocino in relazioni illecite, condannati. È qui che più che in qualsiasi altro luogo è possibile vedere come l’amore non sia qualcosa inseribile in uno spazio, in questo caso un claustrofobico appartamento condiviso da intere famiglie di Shanghai, ma in un tempo, in un istante, un sospiro dell’esistenza. La macchina da presa striscia, scruta, si nasconde, e noi con lei abbiamo il privilegio di rubare attimi al signor Chow e alla signora Chan, due vicini di casa dapprima sconosciuti che diventano poi, lentamente, con ogni sguardo e con ogni attesa, sempre più intimi, fino a divenire indispensabili l’uno all’altra.
L’amore, all’interno della poetica di Wong Kar-wai, non viene mai posto come obiettivo, come fine che muove i personaggi. Il regista effettua una meravigliosa operazione di sottrazione nelle sue opere, proprio come in letteratura aveva fatto Rulfo col suo capolavoro, Pedro Páramo. Sottrae spazi, frasi, scene intere, e quel che rimane a noi spettatori è poco più di un mosaico di istanti, a volte simulati, che ci ingannano, ma che rappresentano la nostra unica possibilità di conoscenza della realtà. Noi, al pari di ogni altro vicino di casa spiamo, rubiamo attimi, creiamo castelli di carta e fantasie basandoci solo su di uno scorcio, viviamo come i protagonisti unicamente del momento presente. Uno sguardo, una frase, un saluto mancato.
La pellicola vive di questo, come se le inquadrature fossero i suoi respiri, i suoi battiti, e il risultato finale fosse qualcosa di sorprendente e meraviglioso, la vita.
Wong Kar-wai ci sussurra, istante dopo istante, frammento di vita dopo frammento, che non esiste altro che questo, il momento, che ora è vita, ora è amore, ora è il tempo, e ora passa, ed è già passato, e tutto ciò che rimane a un uomo che non lo sa cogliere è poco più di un segreto da sussurrare in una fessura, perché vi rimanga in eterno.
E allo stesso modo del tempo, nelle opere di Wong Kar-wai, come in quelle di Antonioni, la cui poetica è non dissimile, l’amore fluisce, passa, spesso senza esprimersi mai. I personaggi non riescono a goderne, non riescono ad oltrepassare la barriera da loro stessi costruita. L’assenza diviene assordante, e il rimorso finisce per coprire ogni altra emozione. I personaggi tornano, stavolta soli, a vivere unicamente di una dolorosa malinconia. Hanno vissuto un tempo fatto di amore, ma non l’hanno mai reso proprio. Sono stati accompagnati da una musica lenta, che li ha abbracciati, metafora anch’essa, con i suoi archi sobbalzanti ed il suo flauto ininterrotto, di momenti unici ed irripetibili contro l’inesorabile fluire della vita.
La poetica dell’amore di Wong Kar-wai è, più che un’esperienza cinematografica, un’immersione in una realtà alternativa, infinitamente lontana da noi e dal nostro modo di vedere e vivere le cose, ma che nonostante ciò ci appartiene. Il regista ci costringe spesso a essere semplici testimoni della vita che accade, e di guardarla attraverso grate, cancelli, superfici riflettenti. E ogni volta che il mezzo attraverso cui la guardiamo cambia, anche la realtà lo fa, portandoci su strade sconosciute, facendo sì che ognuno di noi interpreti ciò che sta accadendo in modo diverso, unico.
Il film assume quindi un’infinità di sfaccettature diverse, e si configura in modo definitivo come un viaggio emotivo dello spettatore all’interno di un tempo scandito dal sentimento che inesorabile si cristallizza, come solo le cose non vissute riescono a fare. Tutto passa, il tempo trascina via ogni cosa, ma non l’amore mai amato, che immobile sopravvive nel ricordo: il nostro.
Siamo noi la fessura nell’albero o nel tempio, siamo noi i portatori, come direbbe Ungaretti, dell’«inesauribile segreto». Siamo noi, e Wong Kar-wai ce lo sta sussurrando, piano.