Metropolis, Fritz Lang e la paralisi delle forze politiche autoritarie

Sabrina Pate

Gennaio 21, 2021

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Metropolis, Fritz Lang e la paralisi delle forze politiche autoritarie

Innumerevoli sono stati i tentativi da parte della letteratura fantascientifica, nonché della fiction cinematografica, di realizzare un’istantanea del potere disarmante esercitato dai governi totalitari su masse inermi di cittadini che si sono visti privati della loro libertà e autonomia. Tuttavia, non è raro imbattersi in descrizioni che rischiano di normalizzare e di banalizzare una questione la cui problematicità è talmente evidente da passare inosservata, tanto è inglobata nella nostra prospettiva sul mondo e nelle prassi quotidiane.

A distanza di ormai quasi cent’anni dalla realizzazione di Metropolis (1927) di Fritz Lang possiamo ancora percepire quest’opera come dotata di una contemporaneità disarmante. Ciò che dovrebbe far riflettere, infatti, è che questa pellicola non si presentò come una lettura a posteriori degli eventi disastrosi che macchiarono l’Europa nella seconda guerra mondiale, ed eppure sia riuscita a presagire e a rendersi interprete delle paure e delle ambizioni, delle inquietudini e delle contraddizioni della società tedesca degli anni Venti, dimostrando come il cinema sia forse uno degli strumenti più adeguati nel registrare e rivelare le trasformazioni, la mutevolezza incessante della realtà.

Metropolis: un ritratto della Germania pre-hitleriana

Come ha mostrato abilmente Siegfried Kracauer nel suo celebre libro Da Caligari ad Hitler (1947), l’industria cinematografica tedesca nella Germania pre-hitleriana rappresentò precisamente l’incarnazione dei desideri inconsci di un popolo che presagiva la venuta di un cambiamento che avrebbe avuto una storia dagli effetti sconcertanti.

Se già ne Il dottor Mabuse (1922), Lang aveva portato sulla scena numerosi elementi della Germania di Weimar, trasmettendo il timore condiviso che le masse, incapaci di trovare una propria autonomia, si facessero condizionare da figure caratterialmente autorevoli – come, per l’appunto, il dottor Mabuse, un personaggio subdolo e manipolatore che entra  a far parte del novero delle personalità antesignane dell’ascesa hitleriana – Metropolis rappresenta una raffigurazione ancora più emblematica dello stato di paralisi delle forze politiche autoritarie e dell’incapacità delle masse di ottenere ciò per cui lottano.

Le temperature che si alzano, la pressione che aumenta costituiscono una traduzione metaforica del clima che si respira in Germania, un clima politicamente e socialmente molto teso.

Fritz Lang in Metropolis presenta una prefigurazione del nazismo, facendosi interprete delle paure e dei desideri del popolo tedesco.

Metropolis (1927) di Fritz Lang

Metropolis nasce qualche anno dopo il Putsch di Monaco (il 9 novembre 1923 Hitler e Ludendroff marciano sulla Feldherrnhalle) e dopo un viaggio di Lang negli Stati Uniti (ottobre 1924) dove visita New York e Hollywood, dal quale trae ispirazione per la realizzazione del film. Per problemi legati al visto, infatti, il regista, accompagnato dal produttore Erich Pommer, è costretto a restare sulla nave una notte in più e resta folgorato dalla visione dello skyline di Manhattan.

«Guardai le strade – le luci abbaglianti e gli edifici imponenti – e fu in quella occasione che concepii “Metropolis”».

(Fritz Lang)

Se da una parte, dunque, Metropolis si pone quale ritratto della Germania pre-hitleriana, non si può comunque negare l’influenza esercitata da un’altra potenza politica d’oltreoceano: gli Stati Uniti, appunto. Si tratta di due immaginari che si scontrano non solo nella realtà dei fatti, nella storia del secolo scorso, a livello macroscopico, ma anche, a livello microscopico, nella vita del regista e, di riflesso, nelle sue opere.

Di origine austriaca, Lang si trasferisce in Germania, ma l’avvento del nazionalsocialismo lo induce, seppure dopo aver temporeggiato un po’ poiché la moglie, Thea Von Harbou, era diventata filonazista, a lasciare il Paese e tentare fortuna ad Hollywood in seguito alla proposta di Goebbels, ormai nominato Ministro della Propaganda, nel marzo del 1933, di rivestire una posizione dirigenziale nell’industria cinematografica tedesca.

La sfiducia che si evince dal suo abbandono della Germania e in seguito dalla sua adesione alla Lega Antinazista, tuttavia, non impedisce a Lang di essere sempre molto critico nei confronti del sistema politico americano. Molti dei suoi film realizzati ad Hollywood trattano tematiche sociali, come il linciaggio in Furia (1936), e questo farà sì che venga accusato di essere comunista dalla Commissione McCarthy.

Metropolis (1927) di Fritz Lang

Questo spaccato della sua vita che egli trasmette pienamente attraverso le sue pellicole sembra, dunque, suggerirci che anche un sistema politico acclamato, per la sua affermazione della libertà dei singoli individui, non è esente dal rischio ormai consolidato di trasformarsi in un sistema totalitario, molto più sotteso e proprio per questo più efficace, che condiziona le vite di milioni di cittadini senza che se ne rendano neppure conto.

Ciò che Metropolis ha l’ambizione di raccontare è precisamente questo: l’incapacità delle masse di ottenere ciò per cui lottano e l’ingenuità di non rendersi conto di aver accettato un destino comandato da leader politici spregiudicati.

Il trionfo della macchina e la spersonalizzazione degli operai

Metropolis è un’opera monumentale – fu il film più dispendioso mai realizzato dalla Germania fino a quel momento e che sancì il fallimento della UFA – la cui ambizione era quella di fornire una rappresentazione distopica, ma al contempo veritiera, di una città del futuro (2026), divisa a livelli che riflettono la divisione delle classi sociali: un livello più alto governato da ricchi, un livello industriale di fabbriche, nel sottosuolo gli operai e ancora più a fondo le catacombe.

La pellicola rientra così a pieno titolo tra le opere che hanno espresso il disagio della civiltà contemporanea e tecnologizzata, mostrando il carattere ambivalente della tecnologia, posta al servizio dei regimi totalitari. Sebbene, di primo acchito, sia difficile stabilire se l’intento di Lang fosse quello di mostrare le disastrose conseguenze che sorgono a partire da un uso inadeguato della tecnologia o i benefici che essa di fatto apporta, appare tuttavia evidente che, se da un lato la tecnologia ha una portata positiva per le persone più agiate che vivono nella parte più alta di Metropolis, essa esercita un risvolto oscuro sugli operai, sugli strati più poveri della società.

Fritz Lang in Metropolis presenta una prefigurazione del nazismo, facendosi interprete delle paure e dei desideri del popolo tedesco.

Gli operai in “Metropolis”

La città, strutturata a livelli, porta con sé l’immaginario ebraico-cristiano della torre di Babele, ma suggerisce anche una lettura medievale-dantesca in cui le case degli operai rappresentano l’inferno e le case dei ricchi industriali il paradiso.

Come nell’episodio della Genesi – e come in ogni regime totalitario che si rispetti – gli abitanti di Metropolis sembrano parlare lingue del tutto incompatibili, regna un’incomunicabilità apparentemente ineluttabile tra il mondo alto e il mondo basso: le parole degli operai testimoniano angoscia e sofferenza, nonché volontà di ribellione; nelle parole dei ricchi, invece, riecheggia la spensieratezza e la gioia del riso di un fanciullo. Solo l’arrivo di Maria sembra aprire la possibilità di un confronto, ma quello che Lang suggerisce è che di fatto l’indomani ciascuno ritornerà alla vita di sempre.

Il futuro è segnato dal trionfo della macchina. Gli operai, presentati fin dalle prime sequenze come automi dai movimenti fortemente meccanici e stilizzati, contrapposti ai ricchi che si muovono con movimenti sinuosi, rappresentano precisamente la spersonalizzazione della società contemporanea.

Emblematica è, in tal senso, l’immagine dell’uomo-orologio, ridotto a mero strumento per portare avanti il processo produttivo e alienato dal compimento meccanico delle medesime operazioni, a tal punto che non si riesce più a distinguere dove finisca l’uomo e dove incominci la macchina.

Fritz Lang in Metropolis presenta una prefigurazione del nazismo, facendosi interprete delle paure e dei desideri del popolo tedesco.

L’uomo orologio in “Metropolis”

La fabbrica assume così la connotazione di una macchina mostruosa, associata al dio Moloch, un dio al quale in questo caso non vengono sacrificate bambine – come avviene in Cabiria – bensì gli stessi operai, vittime sacrificali che per il benessere di qualcun altro sono condannate alla fine. La cosa inquietante della fabbrica di Metropolis è che non produce nulla, rivelandosi una macchina di cadaveri viventi.

La tecnologia si piega ai fini del totalitarismo e richiede mezzi e strumenti sempre più efficaci che consentano di ottenere il prodotto migliore possibile nel minor tempo possibile, e poco conta se gli operai, stremati e alienati per le condizioni lavorative con cui devono fare i conti quotidianamente, restano schiacciati e privi di alcuna identità, ridotti a masse indistinte e senza volto.

La fabbrica assume le connotazioni del dio Moloch

Metropolis precorre i tempi. Non solo riesce a presagire la venuta hitleriana, la soggiogazione delle masse, stregate da personaggi autoritari, ma anche il depotenziamento assiologico di cui è vittima l’uomo a causa dell’avvento delle tecnoscienze e sotteso alle logiche totalitarie eugenetiche. L’immagine dello scienziato che realizza abilmente il robot di Maria non può non far pensare alla clonazione, e al tentativo di conservazione e di miglioramento della specie umana consentendo di realizzare un uomo perfetto, artificiale, contrapposto al suo doppio naturale.

La Maria robotica è forte e potente, riesce ad allagare la città e induce le masse a ribellarsi. Al contrario, la Maria buona, reale non cambia il destino di nessuno: pur essendo una figura messianica non è colei che porterà il cambiamento all’interno della città di Metropolis, ma annuncia che qualcuno verrà.

Fritz Lang in Metropolis presenta una prefigurazione del nazismo, facendosi interprete delle paure e dei desideri del popolo tedesco.

Maria in “Metropolis”

Si afferma così una concezione antropologica – che sarà alla base del nazismo e di ogni forma di totalitarismo – per la quale il singolo uomo può essere sacrificato per il bene della comunità, dimenticandosi del fatto che propriamente non esiste nessuna comunità, ma solo i singoli individui concreti, nella loro fragilità e nella loro finitezza che sono degni di rispetto e di tutela proprio in quanto esseri umani.

L’incapacità delle masse di ottenere ciò per cui lottano

Kracauer fa rientrare Metropolis nel novero di quei film che testimoniano lo stato di paralisi delle forze politiche autoritarie, incapaci di sopraffare la Repubblica di Weimar. Gli operai si ribellano all’autorità, ma finiscono per accettare l’autorità stessa. La ribellione, insomma, conferma lo status quo.

Si afferma una rivoluzione, un’effrazione dell’ordine per la conservazione. Viene concesso uno sfiato agli operai afflitti per la condizione in cui vivono e viene loro consegnata la speranza che le cose cambieranno, ma di fatto quello che sembra suggerire il film è che la loro condizione non muterà affatto. Sebbene nel finale il padre del giovane Freder, il più ricco industriale, stringa la mano al capo degli operai, questo è un lieto fine esclusivamente apparente, falso come il doppio di Maria.

Freder fa stringere la mano al padre e al capo degli operai

Sembra che Freder abbia convertito il padre, che abbia realizzato il proprio ruolo di garante delle masse di una condizione di vita migliore rendendo il padre consapevole della miseria in cui vivono, ma in realtà avviene il contrario. Accontentando il figlio, l’industriale può avvicinare le masse e controllarne la mentalità.

Le masse non si sono rese conto di aver accettato un destino comandato dai potenti ed è quello che è accaduto al popolo tedesco. Kracauer legge dunque il film come una chiara prefigurazione del nazismo, suggerita anche dal modo in cui vengono raffigurati gli operai: calvi, emaciati, sporchi. Ricordano le figure dei lager.

Ciò che fa sì, dunque, che quest’opera sia tutt’ora in grado di farci riflettere e che ci metta in guardia dal pericolo sempre incombente, a maggior ragione in una società globalizzata come la nostra, di essere manipolati da leader politici influenti è l’autenticità di un racconto che Lang sentiva l’urgenza di comunicare ai suoi concittadini.

E lo fa interpretando i timori della società di cui egli stesso faceva parte, e che dunque sperimentava in prima persona, presagendo l’affermazione di qualcosa che avrebbe stravolto le vite di milioni di persone in maniera indelebile.

Leggi anche: Metropolis di Fritz Lang – La Genesi del nostro (non) Tempo

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