Eros e Thanatos al Cinema – Freud, il principio di piacere e il suo al di là

Gianluca Colella

Marzo 14, 2021

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Dove siamo oggi è l’esito di un (nefasto) processo evolutivo che individui e collettività non hanno saputo, per usare un eufemismo, gestire benissimo. In maniera provocatoria e ormai monotona, un secolo di Freud ha messo a nudo le ipocrisie quotidiane che ci obblighiamo ad accettare per fingere di non essere infelici, soli e limitati.

A questa premessa, si accompagna una nota di scuse che chi scrive rivolge al lettore, perché è vero che forse con Freud, la psicoanalisi e l’inconscio ho rotto, ma forse è anche vero che lo sfogo più o meno intellettuale che realizzo negli articoli de La Settima Arte ha sempre come oggetto le indesiderate nevrosi e i paradossi che rendono malati i rapporti umani, nella vita e soprattutto oggi, in pandemia.

Cosa c’entra, dunque, questa elucubrazione personale con l’introduzione di una settimana a tema Eros e Thanatos per la redazione Cinebattiamo? Perché il cinema, forse, è proprio quello strumento che permette di fare esperienze che mettono in discussione la dolorosa egemonia freudiana sui fastidiosi contenuti che governano la vita psichica umana.

Freud e il cinema, il cinema e Freud, in un gioco saggistico che va dal 1920 al 2021 per provare a diradare quella nebbia mentale che l’emergenza sanitaria ha solo accentuato, ma che era già presente.

Perché la coazione a ripetere, spiacevole, ma necessaria, il controllare i contagi, i destini di amicizie reali diventate virtuali, gli esami universitari o le formazioni dei figli costruite in Dad (didattica a distanza) hanno preso fin troppo il sopravvento, e forse è giunto il tempo di permettere ai legami di (ri)costituirsi attraverso intrecci che la metapsicologia può aiutare a spiegare. I confini per tornare nell’ombra di noi stessi sono ancora troppo vicini, ammettiamolo, perché ciò che viene negato e scacciato dalla porta rientra quasi certamente dalla finestra.

Principio di piacere, vita e morte, Eros e Thanatos sono i termini di una dialettica sulla quale è chiesto di speculare a partire da quei luoghi comuni della storia del cinema, personaggi e scene che formano il carattere dello spettatore e la personalità di chi vuole ricordare cosa significhi emozionarsi.

Nel 1920, Freud s'interrogò sui rapporti tra la vita, la morte e le pulsioni umane. Cosa resta al cinema di quel pensiero?

Sigmund Freud

Ecco, è proprio qui, sull’emozione, che la prima spiegazione freudiana trova il suo fondamento nel saggio Al di là del principio di piacere del 1920: in soldoni, tutto ciò che ha a che fare con il funzionamento della pulsione di vita (Eros) prevede che ci sia una tensione, un fastidioso scarto tra lo stato dell’organismo in un determinato momento e lo stato dell’organismo in un momento simultaneo e virtuale (un desiderio, una mancanza di soddisfacimento).

Viceversa, Thanatos, la pulsione di morte, operava in principio, prima che la vita si manifestasse, ed è compatibile solo e unicamente con questa condizione perché è a questo fine che mira: l’assenza di tensione, il ricongiungimento con uno stato di quiete che rimanda al principio di costanza di Fechner.

Nel tentativo di spiegare sinteticamente la differenza tra queste due pulsioni nella teoria pulsionale di Freud, ecco un piccolo approfondimento: Eros, la pulsione di vita, include le pulsioni sessuali e di auto-conservazione dell’Io, che nella precedente teoria pulsionale erano contrapposte; diversamente, Thanatos, la pulsione di morte, rappresenta la forza inconscia tesa a slegare e distruggere anziché costruire legami (essa rappresenta la proiezione nel mondo esterno di un moto sado-masochista, che non può rivolgersi sull’Io a causa della resistenza difensiva posta dal narcisismo del soggetto).

Amore e violenza, dunque, sono energie che dimorano nell’animo umano e che simultaneamente da un lato mirano a costruire legami, famiglie, società; dall’altro mirano a distruggerle, a raggiungere nuovamente lo stato zero, l’assenza di ogni tensione e desiderio (non a caso in francese l’orgasmo femminile è detto “petite-mort”, uno svenimento benefico successivo al raggiungimento del piacere più intenso).

La violenza di cui l’uomo è capace è poeticamente espressa in Sin City (2005): un luogo, che è anche un non-luogo, dove amore e morte si scontrano costantemente e in maniera violenta, perché assenti sono le barriere che l’Io edifica per contenere le pulsioni inconsce. Un’allegoria dell’umano senza precedenti.

Per Freud, come per noi, ha significato stupirsi del dato di realtà che forse non è poi così vero che il soddisfacimento umano è unicamente correlato alla spinta al piacere, a quel desiderio quasi esclusivamente libidico e sessuale che l’essere vivente cerca di appagare con ogni mezzo. Quale risposta darebbe a questa provocazione il protagonista di Shame (2011)?

Brandon in conflitto con la sua sessualità perversa, espressione di una solitudine che non si spiega, è debole e forte al tempo stesso perché non riesce ad accettare la sua ipocrita ambivalenza emotiva, ma al tempo stesso contatta costantemente il proprio intimo non-senso.

Nel 1920, Freud s'interrogò sui rapporti tra la vita, la morte e le pulsioni umane. Cosa resta al cinema di quel pensiero?

Shame – Steve McQueen

L’autore ci sta forse costringendo a riconoscere che gli eccitamenti non sono tutto ciò che conta e che, anzi, sono forse frutto di una percezione ipocrita, perché per i sistemi psichici è l’assenza di tensione, e quindi la morte, ad avere precedenza sullo stato di necessità provocato da uno stimolo che mette il vivente in una condizione di bisogno.

Manchester by the Sea (2016) è il ritratto della depressione mortifera di Lee, qualcosa con cui si può empatizzare, perché facile sarebbe negare il rimorso in cui invece egli si crogiola, fino al punto di implodere.

Quasi tremenda e intollerabile sarebbe questa rivelazione, se fosse vera. Traumatica è la parola giusta, perché traumatico è il potere che le verità psichiche hanno se non vengono elaborate correttamente. Siamo, infatti, esseri contraddittori perché costantemente disturbati e paralizzati da fatti che ci dimostrano la nostra incoerenza: se vogliamo raggiungere qualcosa, perché siamo così passivi? Se vogliamo qualcuno, perché non agiamo di conseguenza? Se mi sento giù, perché non faccio nulla per uscirne?

Saremmo come Travis, dunque, in quel Taxi Driver (1976): la dialettica che il protagonista esprime non è solo quella tra Bene e Male, ma soprattutto quella più intima e subdola di ciò che vuol dire essere vivi se di vivo dentro non si ha praticamente nulla, a parte il trauma della guerra.

Uno shock violento colpirebbe un uomo a caso se questi si accorgesse che le ipocrisie dimorano dentro di lui, e quindi comodamente se ne protegge, rimandando la necessità di affrontare tali demoni, come avviene in Blade Runner (1982), dove l’umano e l’oltreumano si confrontano sulla realtà delle sofferenze, attraverso interrogativi necessari e dolorosi che obbligano i protagonisti a riconoscere la loro ipocrita non-diversità, fino al finale e alle sue ripercussioni esistenziali.

Blade Runner – Ridley Scott

Arriviamo all’angoscia, alla dissociazione, alla rimozione e al sintomo nevrotico, tutti appelli che il nostro inconscio fa per rianimarci dal torpore in cui versiamo passivamente e, per il momento, questo è il massimo che può fare.

Come organismi viventi abbiamo contraddizioni, ma come esseri culturali un dovere quasi etico: riconoscere, in questo caso attraverso il cinema, che l’impronta data dal mondo esterno al nostro organismo ha fatto sì che esso passasse dallo stato inorganico a quello organico, e attraverso i fenomeni della vita la tendenza verso la morte viene preservata e solo rimandata.

 «La meta di tutto ciò che è vivo è la morte».

(Sigmund Freud, “Al di là del principio di piacere”)

In tal senso, emblematico è l’esempio rappresentato da Logan (2017): questo Wolverine distopico è un essere stanco, e il suo gene X logorato, che non lo rigenera più, è finalmente l’occasione giusta per abbandonare le faticose e sofferenti strade della vita e intraprendere le vie della morte, della quiete e dell’assenza di tensione.

Alcuni titoli cinematografici ci aiuteranno a riconoscere che nell’uomo, solo una mera illusione può consentire di pensare all’esistenza di una “pulsione di perfezionamento”, e che in verità le spinte psichiche principali tendono all’inanimato, all’assenza di eccitazione; eppure, il paradosso è che le sublimazioni culturali ci portano nella direzione di una spinoziana beatitudine, di una positiva attività nei confronti delle cose del mondo.

Il principio di piacere è solo una tendenza al servizio della necessità di ripristinare uno stato precedente, di assenza di tensione, come in The Phantom Thread (2017), provocazione definitiva dello scenario che si verifica quando l’amore non è del tutto accettato o vissuto in serenità, e può essere un reciproco veleno che annienta le identità, dando vita a un legame mortifero che di vitale non ha nulla, fagocitando l’uno e l’altra in un’anedonia dipendente e tossica.

 «Diremo allora che il principio del piacere è una tendenza che opera al servizio di una funzione, il cui compito è di tenere l’apparato psichico completamente sgombro da eccitazione, o di mantenervi costante, o al livello più basso possibile, la quantità di eccitazione stessa».

(S. Freud, “Al di là del principio di piacere”)

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