Psycho – Dialogo immaginario tra Norman Bates e Freud

Gianluca Colella

Giugno 4, 2020

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Una realtà un po’ Psycho entra in rotta di collisione con quella comune, lungo le acciottolate strade in bianco e nero di una Vienna di fine secolo. Da poco è passata l’ora del pranzo, e nel primo pomeriggio i rumori di una società che riparte per concludere la giornata echeggiano felpati.

Carrozze guidate da cavalli, omnibus e ragazzini che vendono pretzel s’incrociano, mentre sul suolo si sente il ticchettio degli zoccoli, il passo degli uomini lavoratori e delle donne, madri e comari della civiltà asburgica. Dietro le tende di un salotto accogliente, arredato con mobili di legno scuro, un medico osserva lo scenario esterno dalla finestra socchiusa, con una mano regge un sigaro, con l’altra si liscia la barba. Di tanto in tanto, l’uomo va verso un’ingombrante scrivania a rileggere dei fogli, a scrivere lettere, poi corregge degli appunti, sempre fumando il sigaro.

Giù, per strada, un inspiegabile rombo scuote le percezioni delle masse, non abituate a quel suono: uno strano, rumoroso mezzo di trasporto su quattro ruote attraversa i vicoli, con velocità lenta, ma inesorabile, fino a fermarsi nei pressi del portone di un palazzo.

Prima di aprire la portiera, il conducente, un giovane uomo dall’aria timida e gentile, controlla su un quadernino se ha raggiunto l’indirizzo corretto, confrontandolo con la targa appesa sul muro dell’edificio. Dopodiché, si rivolge alla figura femminile seduta sul sedile posteriore, col viso coperto da un drappo scuro.

Norman Bates: «Madre, siamo arrivati… Resta qui, per favore. Tornerò presto».

Psycho: Norman Bates bussa all'appartamento di un neurologo viennese, che lo accoglie. I due stabiliscono un contratto, e si parlano.

Psycho – Norman Bates

Sceso dall’auto, Norman si guarda intorno furtivo, poi con passo rapido e incerto si avvia verso il portone del palazzo. Qualcosa di indefinibilmente Psycho grava sulla sua camminata, un perturbante calderone di non-detti che chiedono di essere esplicitati. Il nevrotico individuo s’incammina per le scale, l’eco dei suoi passi rimbomba nella tromba del palazzo. Sul pianerottolo del terzo piano, si avvicina alla porta di un appartamento. Bussa due volte con la nocca destra, un toc-toc urgente, fragile. Dall’altro lato, un rumore di passi annuncia l’arrivo del proprietario. La porta si apre, e il Dottor Freud accoglie l’individuo, guardandolo con cipiglio serio e intenso.

Freud: «Buonasera. La stavo aspettando. Prego, si accomodi».

Mormorando un grazie, Norman entra nell’appartamento, calpestando il pavimento in maniera un po’ più insicura. Pensa di esserci, di aver catalizzato il proprio bisogno indicibile, di essere lì sul punto di dirlo. Confrontandosi con fantasmi intimi che non vede, Norman fa il suo ingresso nel salotto del medico, accogliente nei suoi colori scuri, tappezzato di quadri, statuette, e arredato con alcune poltrone e un divanetto, posto lateralmente rispetto a una grande scrivania. Nell’aria dello spazio chiuso, si avverte l’intenso aroma di sigaro misto alla carta dei tanti libri ordinati negli scaffali.

Norman: «Salve, dottore. Mi chiamo Norman… Ci siamo sentiti tramite posta».

Freud: «Ricordo bene. Spero che il viaggio sia andato bene».

Norman: «Tutto sommato sì, grazie. Vienna sembra una città piacevole».

Volgendogli le spalle, Freud s’incammina verso la scrivania per accomodarsi, e con un gesto invita Norman a fare lo stesso, indicando una delle poltrone. Con l’aria sempre un po’ contrita e incerta, l’individuo ringrazia a voce bassa e prende posto, assumendo una posizione tesa. Il medico si schiarisce la gola prima di parlare, rivolgendo all’interlocutore uno sguardo esplorativo. Il suo stile sobrio sembra opporsi a quello di Norman, giovanile e trascurato.

Freud: «Mi auguro che dalle nostre lettere lei abbia capito i miei interessi e gli scopi delle mie ricerche. In una società come la mia, affermarsi con rivelazioni di tale portata è difficile, ma io e alcuni colleghi lavoriamo affinché gli uomini si preparino, in futuro, a comprendere le proprie intime contraddizioni».

Norman: «Sì, certo, si tratta di ipotesi rivoluzionarie, e io stesso faccio fatica a riconoscerne la veridicità. Tuttavia, mi sembra di non avere altre soluzioni; qualsiasi specialista afferma che i miei problemi non hanno cause organiche. Sono dilaniato, a volte i miei pensiero perdono lucidità».

Nella quiete di questo esemplare salottino della civiltà europea, tra questi due personaggi si sta formando un implicito spazio di dialogo, fatto di ascolto, parole e sensazioni. In questo campo misterioso, due ruoli iniziano a delinearsi, stimolati nel loro processo di definizione da una domanda che aleggia lì, sospesa, ancorata all’ignota sofferenza che affligge Norman.

Psycho: Norman Bates bussa all'appartamento di un neurologo viennese, che lo accoglie. I due stabiliscono un contratto, e si parlano.

Sigmund Freud

Sistemandosi dietro la scrivania, Freud riflette, poi risponde cauto.

Freud: «La mia è una visione dell’uomo radicalmente nuova che, dalla neurologia, mi ha portato verso l’investigazione di alcune forme della sofferenza umana, di natura morale e affettiva, che non coinvolgono alcun organo. Negli stessi circoli clinici in cui mi sono formato, le mie tesi vengono respinte e la mia professionalità è continuamente umiliata. Sei sicuro che parlare sia ciò di cui hai bisogno?».

Norman: «Come ho detto prima, la mia situazione è vicina alla disperazione. Nelle lettere che le ho mandato, ho anticipato alcune sensazioni che mi angosciano. La verità è che mi sento prossimo a un crollo: non mi capisco più, la mia volontà cambia continuamente direzione e dentro di me avverto un conflitto che non riesco a spiegarmi».

Fermandosi, Norman prende fiato, con un’espressione incredula dipinta sul viso: ancora una volta, questo conflitto di cui parlava lo stava assalendo, impedendogli di decidersi completamente a parlare col dottore.

Freud: «Se lei è d’accordo, procederei con calma. Innanzitutto, nel rispetto della sua persona, voglio chiarire che senza le adeguate condizioni minime necessarie, lo scenario al quale stiamo dando vita noi due non corrisponde a quella che chiamo col nome di psicoanalisi. Senza stabilire un contratto e un setting, la nostra può dirsi una semplice conversazione. Tuttavia, se pensa che parlare con me potrebbe aiutarla a distinguere meglio alcuni piani di realtà psichica, possiamo procedere tranquillamente e vedere cosa ne ricaveremo, senza strutturare un vero e proprio contratto terapeutico».

Norman: «Avevo un’idea vaga delle rigorose condizioni alla base di questa sua famosa cura della parola, dottore. Credo che al momento parlare a ruota libera possa bastare, anche perché presto dovrò congedarmi da Vienna, dall’Europa e da questo tempo. Il mio motel mi aspetta… Proprio mentre arrivavo qui, il conflitto di cui parlavo prima si agitava, una parte di me vorrebbe esprimere la sofferenza, ma un’altra me lo impedisce, mi forza a tacere, a restare tranquillo. Sono riuscito ad arrivare fino a qui solo dopo aver confinato questa forza oscura, ma anche adesso la sento battersi per riguadagnare il controllo. Mi sento diverso, dottore, credo di essere un uomo decente, eppure quest’angosciante sensazione di colpa e d’inferiorità mi svilisce, mi aliena».

Freud: «Forse, parlandomi di lei e del suo passato, possiamo provare a capire insieme l’origine di queste angosce. Cosa ne pensa, Norman?».

Norman: «Se funzionasse, sarebbe l’ideale. Il problema è che, di fronte al mio disagio, ho sempre la sensazione di scalare una montagna infinita, non vedo mai la cima. Normalmente, credo di stare abbastanza in pace con i miei pensieri, ma è una menzogna. Sia quando sono solo che quando sono in compagnia, questo demone invisibile mi rode dall’interno, l’inadeguatezza mi pervade e mi sento l’ultimo degli uomini. Soprattutto quando sono in compagnia, però, il conflitto è più intenso, e qualcosa dentro di me scatta, rendendomi diverso, aggressivo… Per non parlare di cosa succede in presenza delle ragazze…».

Psycho

Freud: «Cosa succede con le ragazze?».

Norman: «Non so se voglio spiegarlo… Non voglio, non voglio – cambiando registro di voce e assumendo un’espressione improvvisamente inquietante, diversa – tutto ciò è una farsa, io non ho bisogno di te; non ho bisogno di nessuno, se non del suo amore… Io non farei del male neppure a una mosca! Sono insospettabile, invisibile, una necessità».

Leggermente sconcertato dalla trasformazione a cui ha appena assistito, Freud si risistema sulla poltrona, avvicinandosi fisicamente a Norman.

Freud: «L’amore di chi? Continua a parlare, Norman».

Sentendo il suo nome, l’individuo sembra tornare in sé; guarda il neurologo negli occhi, momentaneamente perso rispetto alla situazione. Si ristabilisce scusandosi, ammette di aver perso il filo del discorso, aggrotta la fronte, prova a recuperarlo, mentre un vissuto d’impotenza inizia a impadronirsi di lui. Sente che sta succedendo di nuovo, sente che sta perdendo il controllo permettendo all’altra parte di lui di emergere, di comandare. Nervoso, si passa una mano tra i capelli, gli occhi si muovono rapidamente, il fiato è corto.

Nel salottino asburgico, il suo respiro è il suono più rumoroso. Quel conflitto che è una scissione è lì, appena sotto la coscienza, pronto a mostrarsi in tutta la sua forza, oltre la superficie. Le turbolenze interiori di Norman avvengono sotto lo sguardo di questo sconosciuto, che ha acquisito un ruolo; Freud ascolta il silenzio, attento ai cambiamenti impercettibili nel volto, nel corpo, attendendo che l’uomo riprenda a parlare.

Norman, Psycho: «Non so cosa mi abbia preso. Cosa è successo, dottore? Per un attimo mi sono sentito perso… Questa è la sensazione che avverto quando vivo questo conflitto. Una parte di me si spegne, e un’altra si accende, ma non ho alcun controllo. L’imprevedibilità di questa trasformazione mi fa sentire impotente! C’è qualcosa che posso fare? Mi aiuti, la prego… Vorrei solo che finisse».

Freud: «Da parte mia, non può giungere alcun aiuto diretto. In un dialogo come questo, la mia funzione può essere paragonata a quella di uno specchio, che riflette la sua immagine, perché se c’è qualcosa da elaborare, questa verità va cercata dentro di lei; per il momento, l’unica cosa che mi sento di rimandarle è il fatto che prima, quando ha perso il controllo, ha fatto riferimento al bisogno di amore di una persona in particolare. Di chi parla, Norman?».

Norman, Psycho«Non mi chiami in quel modo – Sono desolato, ma non riesco a immaginare a chi stessi pensando. Normalmente, al motel che gestisco conduco una vita tranquilla, nessuno passa per quella strada da quando hanno cambiato l’uscita dell’autostrada. Qualcosa però lo desidero, è solo che non riesco a esprimerlo direttamente… Sento di vivere una vita parziale, incompleta; penso che ciò di cui ho bisogno sia la compagnia di qualcuno… Negli ultimi giorni, ho fatto un sogno, è stato strano, un vero incubo. Ho sognato che durante una notte estremamente piovosa, una donna bussa alla reception del motel, chiedendo una stanza. Sorpreso dalla visita, mi mostro cordiale, gentile; le presento la sua camera, e la invito a mangiare con me nella casa principale. Poi, mentre preparo la cena, mia madre mi aggredisce verbalmente, dice che nessuna donna merita la mia confidenza, è molto adirata, dice che intende proteggermi, ma che non sa come fare con me perché non sono un bravo figlio… Quando torno dalla ragazza, mi scuso per il caos e le faccio compagnia mentre cena nel salotto del motel; è carina, elegante e sento che mi attrae. Nel sogno, la spio dalla serratura mentre si prepara per andare a dormire. Ciò che mi ha spaventato di più è stato quello che è successo dopo: ho sentito di trasformarmi, ho sentito di diventare un’altra persona, e poi più nulla. Solo che, quando sono tornato in me, la ragazza era morta, uccisa mentre si lavava. Non sapendo cosa fare e preso dal panico, ho ripulito le stanze e ho lasciato che la donna annegasse nel la… – no, questo no, non è mai successo, è impossibile. Non creda a ciò che dice, dottore, dopotutto è solo un sogno, non è così? Uno stupido sogno di uno stupido ragazzo, che non sa badare a se stesso. Per tutta la sua vita, non ha mai saputo ascoltare, quando ero la sua unica amica, la sua migliore amica… E adesso, da adulto, continua a combattermi. Non può vincere, dottore, e lei di sicuro non può aiutarlo! Sono stata chiara? Ehehehehe, sono io ad avere il controllo! – Cosa è stato?! Ancora… Quando sto per dire qualcosa d’importante, succede sempre. Cosa posso fare, dottore?».

Con gli occhi ridotti a due fessure, Freud osserva il folle uomo seduto di fronte a lui. Venuto da un altro tempo, da un’altra società, questo individuo incarnava le stesse contraddizioni, gli stessi selvaggi vissuti inconsci del viennese medio… Gli sembra incredibile, eppure questo sconosciuto è, nella sua irrazionale unicità, il quadro rappresentativo del modello di funzionamento psichico che aveva ipotizzato per così lungo tempo.

Pulsioni sessuali rimosse, identificazioni e investimenti oggettuali nei confronti della figura materna nell’ambito del complesso edipico, senso di colpa e angoscia morale. Persino i meccanismi di difesa più sofisticati, la scissione e l’identificazione proiettiva, sono esemplari di una categoria clinica completamente al limite. Nella sua esperienza, non aveva mai incontrato qualcuno che presentasse i conflitti tra la vita conscia e quella inconscia in modo così pronunciato, sullo sfondo di una società che obbliga continuamente l’uomo a rinunce pulsionali continue.

Psycho

Freud: «Per la donna, l’essere amata è sempre un bisogno superiore rispetto a quello di amare. La mia esperienza clinica, però, mi ha insegnato che in ogni essere umano si annidano elementi femminili e maschili, che costituiscono il funzionamento psicosessuale dell’individuo. Nel corso dell’evoluzione del singolo, oscillare tra stati di sanità e stati patologici è la norma, e infatti, spesso e volentieri, per considerare un uomo sano è sufficiente che sussistano la capacità di amare e di lavorare. Nel suo caso, Norman, mi sembra plausibile associare i suoi repentini cambi di percezione del mondo a un’impressione traumatica che ha afflitto la sua sfera emotiva passata: nella pratica psicoanalitica, siamo soliti operare per mezzo di interpretazioni. Esercito questo strumento ora, in questo confronto, per evidenziare che un legame erotico rimosso possa aver provocato tale scissione traumatica nel suo apparato psichico. Nello specifico, nella sua vita adulta lei ha riattualizzato questo investimento, identificandosi col fantasma di sua madre, figura femminile amata e temuta. La prego di tenere presente che le mie sono speculazioni, e che questo confronto non produrrà effetti terapeutici duraturi sul suo funzionamento psichico».

In risposta alle parole del neurologo, il nevrotico giovane reagisce con alcune repentine, incontrollate trasformazioni dell’espressione del volto: un momento prima sorride maligno, quello dopo ride istericamente, quello dopo ancora appare spaventato e ansioso. In questo caleidoscopio di sensazioni, la coscienza dell’individuo perde totalmente la cognizione del dato di realtà: nella mente di Norman, percezioni di donne, camini, voci femminili, urla e risate si mescolano grottescamente. Visivamente, il rosso acceso del sangue che schizza risulta un elemento terribilmente preponderante. Mentre questo perturbante processo di dissociazione dalla realtà prosegue, il malato riprende a parlare.

Norman, Psycho«Io l’amavo! Mi rendo conto che il suo rifiuto mi fece sentire tradi – NO, NO, non è vero. Non è così! Lei mi ha sempre oppresso, mi teneva sempre al guinzaglio come un cane, non mi permetteva di respirare! – Hahahahaha, sciocco, con le menzogne che ti racconti sarei sorpresa di sapere che la notte riesci a dormire… Questo giovane, caro signor dottore, aveva un modo tutto suo di manifestare affetto, il modo dell’omicidio. Le cose, però, non sono andate come sperava… Credeva di potersi liberare di me, ma da morta sono ancora più forte, e adesso la colpa lo angoscia più che mai! Ogni ragazza che incontra, io dico, è una fonte di tentazione e di dolore, perché lui sa che non potrebbe mai rimpiazzarmi! Ed è per questo che, alla fine, sono io a vincere. HAHAHAHAHAHAHAHAHA!».

Psycho

L’ineluttabilità del fantasma, dell’inconscio e dell’Eros edipico sembrano prendere il sopravvento, quando i lineamenti di Norman iniziano a somigliare spaventosamente a quelli di un teschio di donna. Di fronte allo psicoanalista, la traumatica scomposizione della personalità psichica si sta compiendo in ogni sua forma: l’Io, l’Es e il Super-Io di Norman lottano per il predominio sulla mente del giovane, producendo traumi su traumi. Scosso, ma controllato, Freud assiste a questa lotta senza regole, immaginando di essere in una stanza buia, con nient’altro che una piccola candela.

Le affezioni dell’animo umano sono molteplici e inevitabili, motivo per cui Freud aveva maturato la consapevolezza che ciascun uomo è, in misura maggiore o minore, nevrotico. Nel caso di Norman, tuttavia, il dato di realtà del suo profondamente perverso attaccamento alla madre risaltava una componente diversa, un conflitto più marcato, che ne influenza il rapporto con la realtà.

Freud: «La madre può essere una figura al tempo stesso dolce e terribile. Essa è colei che ci fa vivere le prime esperienze di soddisfacimento, ma anche le prime frustrazioni; in balìa delle sue cure, noi siamo inermi, passivi. Qualsiasi cosa la madre vorrà fare di noi figli, ella lo farà. E questo è forse il trauma più profondo, Norman? Un’impotenza particolare e universale insieme? Il segno di una condizione umana profondamente problematica, di una completezza ideale persa e mai più riconquistata. Das Ding, lo chiamo, questo oggetto primario perduto, mai più ritrovato nel nostro processo di ricerca, che ci aliena rispetto al nostro stesso Io. Wo Es war, soll Ich werden: laddove era l’Es, deve subentrare l’Io, Norman. Ricordalo, se puoi, quando lascerai questo salotto».

Dopo aver ascoltato queste parole, Norman Psycho scatta, in preda a un incontrollabile impulso aggressivo: stringendo in una mano il fermacarte poggiato sulla scrivania del dottore, affonda rapido il colpo, centrando nel petto questo odioso uomo che non taceva, che voleva curarlo con le sue parole (come se ci fosse qualcosa da curare). Dopo aver emesso un suono soffocato, Freud esala l’ultimo respiro, un rivolo di sangue che gli cola dall’angolo della bocca, morto.

In preda al panico, Norman si alza e scatta via, senza ragionare lucidamente; caracolla per le scale, supera il portone e s’infila nell’auto. Accendendo il motore, parte per scappare via, il più lontano possibile.

Norman: «Rieccomi, madre… Sono tornato. Adesso, sono libero».

Il sedile posteriore era completamente vuoto. Norman sorride.

Psycho: Norman Bates bussa all'appartamento di un neurologo viennese, è Freud che lo accoglie. I due stabiliscono un contratto, e si parlano.

Norman Bates – Psycho

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