Akira Kurosawa è considerato unanimemente il più grande regista giapponese del XX secolo. Il suo nome è legato indissolubilmente, in Europa e nel resto del mondo, al cinema e alla sua terra. Nella sua lunga carriera, però, si può tracciare una linea che segna un prima e un dopo. Ed è collocabile nel 1950, anno di uscita di Rashomon, il film sul relativismo e le multiple voci della verità, che non solo lo farà conoscere, come un lampo a ciel sereno, nel Vecchio continente ma che darà al regista giapponese la prima dose di fama nella sua stessa patria. Questo riconoscimento gli consentirà di girare film con budget sempre più consistenti, fondamentali per le sue imponenti fantasie che si tradurranno più tardi in meravigliose scenografie.
La scoperta dell’Oriente
Rashomon, infatti, arrivò in Italia grazie all’interessamento di una professoressa universitaria italiana che all’epoca insegnava in Giappone. Quest’ultima, notando il talento allora non riconosciuto di Kurosawa, spinse affinché Rashomon partecipasse al Festival di Venezia del 1950. Il successo fu immediato e la novità fu premiata con il Leone d’Oro. Il cinema giapponese era approdato in Europa accolto da un trionfo. Poco più tardi anche gli Stati Uniti salutarono il modo di fare cinema del paese del Sol Levante assegnando (all’epoca ad honorem) l’Oscar come miglior film straniero proprio a Rashomon.
L’idea del film nacque da un particolare racconto scritto nel 1915 da uno studente universitario, Ryūnosuke Akutagawa, buttato giù per distrarsi da una delusione amorosa. Kurosawa, una volta letto il racconto, iniziò subito a lavorare alla sceneggiatura, affascinato dai personaggi e dalla carica morale, a volte fortemente nichilista e ambigua, tanto da dover ammorbidire il testo aggiungendo un finale differente.
Le storie nella storia
Durante il medioevo giapponese, alle porte della città di Kyoto, si riuniscono sotto un portico per ripararsi dalla pioggia incessante tre figure. Sono un monaco, un boscaiolo e un servo. I tre sembrano tremendamente assorti. Si viene a sapere, dalle prime battute che scambiano, il motivo di tanta confusione, rintracciabile in un evento accaduto qualche giorno prima. La storia ruota attorno a un fatto di cronaca nera: un samurai è stato trovato morto e sua moglie è stata stuprata nel bosco. I sospetti ricadono sul noto bandito Tajōmaru (interpretato dal leggendario Toshirō Mifune) che le autorità decidono di far arrestare. La dinamica dell’accaduto sembra a prima vista lineare, il caso appare piuttosto semplice. Ben presto si scoprirà che regna il caos più assoluto.
«Gli esseri umani non sono in grado di essere onesti con se stessi su se stessi. Non riescono a parlare di se stessi senza farne un romanzo. Questa sceneggiatura ne è un ritratto».
(Akira Kurosawa)
Rashomon è una disamina delle varie testimonianze dei protagonisti della storia. Kurosawa dimostra di saper utilizzare con maestria la tecnica del flashback che spiazza lo spettatore via via coinvolto sempre più nel groviglio della storia. Quest’ultima però sembra non arrivare mai a un punto fermo e stabile. Si crea così un’infinita tensione alla ricerca della verità di cui si avverte la presenza in ogni momento sotto la superficie dei resoconti dei protagonisti. L’illusione della scoperta della verità sta in piedi fin quando non viene ceduta la parola che smentisce in parte o del tutto ciò che è stato affermato precedentemente.
La ricerca della verità impossibile
La sensazione è quella di un’estrema frammentazione del reale aumentata dall’esperimento filmico diretto da Kurosawa il quale, per l’occasione, gira con moltissime cineprese contemporaneamente per poi ricomporre un mosaico movimentato restituendo una semi-forma a una verità che rimane in pezzi. Tutti ciò portò il film ad avere circa il doppio degli stacchi che erano presenti in un film dell’epoca.
La luce del finale
Necessario è poi ricordare il contributo fondamentale del direttore della fotografia del film, Kazuo Miyagawa, che enfatizzò al massimo l’uso della luce e dei suoi contrasti con l’oscurità. Ciò dette adito a un ampio dibattito sul significato stesso dell’illuminazione all’interno del film. Alcuni critici hanno enfatizzato la luminosità come circondata da un carattere dionisiaco e quasi erotico. Altri la hanno interpretato come la testimonianza del lume della ragione e della verità stessa. Certo è che, come la stessa storia, anche l’utilizzo della luce rimane estremamente ambiguo e circospetto. Unica eccezione la farà il luminoso finale del film, quando la pioggia lascerà il posto a una specie di nuova alba (anche se all’orizzonte già si presenta un nuovo temporale).
L’affresco che Kurosawa dipinge spinge a chiedersi se l’umanità sia redimibile davanti alla barbarie estrema che l’uomo riserva a se stesso ed al prossimo. Esempio lampante di questo tormento sono gli occhi e le espressioni del monaco che sembra non riuscire a trovare un senso ultimo, un appiglio, in una parola: la verità. In un tentativo estremo una speranza si accende nel finale. Quando si intuisce che forse la verità è qualcosa di troppo grande per l’uomo che non può far altro che rivolgersi ai suoi simili e cercare di utilizzare un’arma più affilata della katana per sopravvivere: la fiducia.
Monaco: «In verità, la vita umana è più effimera della rugiada di primo mattino. Solo una fede profonda può illuminarci la strada».