Pierrot le Fou o Il bandito delle 11 – La tragedia sullo sfondo

Alessandro Fazio

Ottobre 20, 2021

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Ferdinand: «Je m’appelle Ferdinand».

La Francia e l’Europa del 1965 erano brulicanti di svariate tipologie di irrequietezza e inquietudine. Jean-Luc Godard è senza dubbio uno dei più grandi interpreti dello stato d’animo di quei tempi e, in particolare con Pierrot le fou (1965), mette apparentemente in scena delle risposte alle grandi domande dell’epoca, non facendo altro che stimolarne altre.

Del resto, compito dell’artista è provocare, semmai interpretare, ma senza dubbio non è rispondere. Godard lo sa bene e, con quello che in Italia è conosciuto come Il bandito delle 11, vuole provare a rappresentare un disordinato quadro in cui il piano interpersonale si intreccia con quello sociale, in cui quello che in qualsiasi altro film sarebbe in primo piano è, in questo, sullo sfondo o addirittura fuori fuoco, in un costante atto di ribellione mai incontrollato ma, a suo modo, organizzato.

Una chiave di lettura iniziale può essere fornita da una delle primissime frasi del film: «Velázquez dopo i cinquant’anni non dipingeva mai una cosa definita. Girovagava intorno agli oggetti come l’aria e il crepuscolo». Il cosiddetto pittore del tramonto, infatti, non a caso viene scelto come il soggetto di apertura della lettura a voce alta di Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) e quelle parole sembrano quasi un prisma attraverso cui mostrare, all’insaputa del pubblico, il modo in cui questa storia verrà raccontata.

Pierrot le fou è senza dubbio un film che girovaga intorno ai suoi personaggi e alle loro azioni come l’aria e il crepuscolo. La casualità, il caos sembrano infatti regnare sovrane e Ferdinand e Marianne (Anna Karina) non ci fanno particolarmente caso, anzi.

Jean-Paul Belmondo e Anna Karina

Esattamente come in À bout de souffle, l’omicidio del poliziotto è una premessa svuotata di un significato immediato, ma intrisa di conseguenze per il protagonista, in questa pellicola gli atti sconsiderati dei protagonisti non sono narrati, ma meramente mostrati, come un qualcosa che pre-esiste e riguardo cui poco si può fare: ed ecco dunque il cadavere di un uomo nella stanza in cui i due amanti si apprestano a fare colazione. Cadavere che poco significherà per gran parte del film, fino a quando i nodi inizieranno a venire gradualmente al pettine portando la tragedia, inizialmente sullo sfondo, a essere la comprimaria dei protagonisti, che annegheranno lentamente nel caos di cui così poco si curavano.

Ma questo significa che il film di Godard è puro caos? Assolutamente no, e in aiuto ci vengono le illuminanti parole del poeta francese Louis Aragon che, riguardo Pierrot le fou, ha dato forse una delle letture più calzanti:

«Nessuno meglio di Godard sa dipingere l’ordine del disordine. […] Il disordine del mondo è la sua materia, all’uscita delle città moderne, lucenti di neon e di formica, nei quartieri suburbani o nei cortili, ciò che nessuno vede mai con gli occhi dell’arte, le putrelle storte, le macchine arrugginite, i rifiuti, le scatole di conserva, i cavetti d’acciaio, tutto questo bidonville della nostra vita senza la quale non potremmo vivere, ma che facciamo di tutto per non vedere. E di questo, come dell’incidente e del delitto, egli fa la bellezza».

(Louis Aragon)

Pierrot le fou, nella sua anima ritenuta all’epoca portatrice di «un’anarchia intellettuale e morale», rappresentò una chiave di volta decisiva negli animi dei giovani francesi che rimasero ammaliati dal film, pochi anni prima della secessione generazionale rappresentata dal ’68, di cui la pellicola di Godard non si vergogna di esserne caotica portatrice.

Una delle prime scene del film, non a caso, mette in primo piano tutta la sensibilità del personaggio di Marianne, quando la giovane donna si lamenta della freddezza con cui vengono riportati alla radio i numeri dei soldati morti in Vietnam: perché accettiamo così impotenti la notizia che un certo numero di soldati sia morto e non ci interroghiamo su chi fossero, come si chiamassero e cosa pensassero prima di morire questi esseri umani?

La sensibilità di due personaggi apparentemente outsider nella società che li ospita, e senza dubbio fuori-legge, è il grande tema dell’anarchia, raccontata con i parametri degli anni ’60. Il rifiuto di accettare regole di uno Stato di diritto, che si sostanzia quasi sempre in un danneggiare la libertà altrui esaltando la propria, ha in quegli anni un’accezione più poetica e meno razionalizzata rispetto a oggi: si pensi alla produzione di De Andrè in Italia, che tanto ha parlato dell’anarchia, della sua faccia buona, arrivando in alcune circostanze a definire se stesso un anarchico.

Godard, come accennato poco sopra, sceglie di parlare dei grandi temi del suo tempo a volte con incredibili dialoghi apparentemente endo-relazionali, ma realisticamente eso-relazionali, e infine con grandi silenzi eloquenti, dimostrativi, indicativi e a loro modo definitivi.

Lo sfondo, come il finale, è però tragico: i pezzi che i protagonisti lasciano per strada negli anni del loro rapporto sregolato sono gli stessi che rimangono di Ferdinand/Pierrot dopo il suicidio. Si noti: suicidio sì, ma l’ultimo frame prima dell’esplosione ci racconta un ripensamento. La bravura di Jean-Paul Belmondo permette di fotografare nel suo ultimo atto l’essenza del personaggio, erratico nelle decisioni, finanche in quella finale. La teatralità, poi, più che il mezzo sembra il fine ultimo, dal quale non si torna indietro e, forse, l’inevitabile conclusione di una serie di scelte.

Pierrot le fou è quella chiave di lettura degli anni ’60 che per molto tempo ci si è rifiutati di vedere come tale ma che, persino e a maggior ragione dopo tutto questo tempo, sembra uno degli strumenti indispensabili per imparare a leggere le grandi questioni di oggi. La storia e le storie, nonché il cinema che le racconta, dopo tutto hanno sempre qualcosa da insegnare.

Leggi anche: Il disprezzo – Il metacinema secondo Godard 

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