In un’Italia sballottata e bistrattata dall’avvilente morbo del consumismo e del conformismo, Pier Paolo Pasolini tramuta il suo disagio, ma specialmente il suo astio, in una vera e propria ricerca spasmodica del vivo. Ciò a cui l’intellettuale ambisce è il contemplare, l’assaporare e il farsi travolgere dall’essenza brutalmente primordiale della vita, il cui emblema sono le borgate romane: un coacervo di ferocia, immoralità e assenza di futuro.
Il mondo dei “ragazzi di vita” rappresenta senza dubbio una costante nell’universo di Pasolini: Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), ma anche i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), sono in grado di raffigurare quasi come un documentario la quotidianità del sottoproletariato romano, con le sue dinamiche primitive, ma anche terribilmente oneste.
«Il cinema è un’esplosione del mio amore per la realtà».
(Pier Paolo Pasolini)
Tra le rovine di un vecchio acquedotto romano si sviluppano le vicende e le contorte dinamiche dei “borgatari” incarnate magistralmente da due figure simboliche: Mamma Roma (Anna Magnani) e Vittorio detto “Accattone” (Franco Citti). Entrambi si fanno portavoce di un’esistenza tragica e grottesca, di una continua alternanza tra violenza gratuita e patetica generosità e di uno stordimento dovuto a sentimenti confusi e istinti primordiali, come la fame, la paura, il sesso, che generano, inoltre, situazioni paradossali, dalle quali è difficile venirne fuori.
Da questa prospettiva Roma assume le connotazioni di «femmina de core», ma al contempo «infame» (come sostiene Aurelio Picca) dal momento che, in preda al suo feroce cinismo, genera gli uomini per poi gettarli nudi e soli in una proliferante miseria. Tornando sui passi di Plinio il Vecchio, Roma assume il ruolo di melior parens (=la madre migliore) e al tempo stesso di tristior noverca (=la più crudele matrigna).
«Roma nella mia narrativa ha quella fondamentale importanza in quanto violento trauma e violenta carica di vitalità, cioè di esperienza di un mondo e quindi in un certo senso del mondo. Nella narrativa Roma è stata la protagonista diretta non solo come oggetto di descrizione o di analisi, ma proprio come spinta, come dinamica, come necessità testimoniale».
(P.P. Pasolini, La fiera letteraria)
Le dinamiche della “società de’ morti de fame” sono assai contorte perché dettate dalla semplicità, dall’ignoranza e dalla viltà. Un aspetto che certamente stupisce è la consapevolezza di come la ricchezza sia solita corrompere l’uomo, apparendo più importante dell’anima stessa. Per i “ragazzi di vita”, a questo punto, appare migliore restare poveri, disgraziati e finiti, piuttosto che diventare aridi d’animo e marionette del Dio Danaro.
Risulta, quindi, inevitabile l’inerte rassegnazione dinanzi alla piena coscienza della loro condizione, perché, benché si tratti di una situazione fin troppo meschina, si preferisce rimanere preda dell’incertezza e del fato, piuttosto che sforzarsi e osare un mutamento.
Questo, almeno, è il caso in cui si ritrova Accattone: vedendosi economicamente costretto a cimentarsi nell’esperienza lavorativa, accompagnato, però, da un’esigente aspettativa di immediato cambiamento, sarà proprio questa la causa del suo altrettanto fulmineo abbandono. Il lavoro per gli accattoni è morte. È bestemmia. È la più pura essenza di vergogna, la prole di “αἰδώς” (=aidòs). Facendo credere agli uomini che attraverso il lavoro sia possibile ottenere non solo il mantenimento economico, ma anche una nobiltà spirituale, quando in realtà le eccessive fatiche e forze mentali richieste non favoriscono altro che la bestialità e, conseguentemente, la nullificazione dell’individuo.
Accattone: «Semo omini finiti perché non semo capaci de provacce da soli! Oggi è mejo fa’ il ladro che questo mestieraccio infame!».
La costante in queste dinamiche è la violenza che, sommata al principio anti-solidaristico, fa scattare inesorabilmente il meccanismo della banalità del male: a cosa serve affratellarsi e soffrire insieme nella cattiva sorte, quando è possibile tentare di raggiungere una posizione di maggior rilievo o beneficio, a discapito degli altri, che siano amici, familiari o meno?
Accattone non poche volte cerca di attuare tale modus operandi senza, però, raggiungere gli obiettivi prefissati, precipitando in questo modo nel vortice della procrastinazione, dell’irresponsabilità, della sfiducia e della paura. L’unica salvezza, dato l’impossibilitato riscatto sociale, è la morte: non a caso sul punto di morte le sue ultime parole saranno «ah, mo sto bene».
Anche il personaggio di Mamma Roma è in un certo senso vittima dell’ambiente in cui vive. Ma a differirla da Accattone è il fatto che lei incarni consapevolmente un’espressione di riscatto sociale, forza intellettuale e libertà. La sua unica arma è il riso che la rende “padrona del mondo”. Chi ha il coraggio di ridere, sostiene Giacomo Leopardi, lo fa perché, avendo toccato il fondo, ha sofferto autenticamente ed è conscio del mondo, dei suoi limiti, dei suoi difetti e delle sue imprecisioni. Nell’ultimo pezzo della “cantata de core” è Mamma Roma stessa a sottolinearlo con forti e superbe espressioni «io me so’ liberata da ‘na corda, adesso tocca a n’altra fa’ la serva».
Tale aspetto fa in modo che le borgate siano l’emblema anche di un forte vitalismo poiché, nella loro noncuranza delle regole e delle convenzioni della società, prendono a morsi la vita, seppur crudele, ripudiando la cosiddetta aridità d’animo borghese.
Commensale: «Ma che c’hai da ridere? Facci capi’ pure a noi perché ridi! Vabbè che hai “spadronato” e cinque anni di schiavitù so’ tanti. Vabbè che adesso c’hai li sordi e fai ciò che vuoi. Vabbè che chi ti sfruttava ti ha dato l’amnistia. Ma ora calmati, sennò ti strozzi!».
Iconiche sono certamente le scene del matrimonio tra Clementina e Carmine, l’ex pappone di Mamma Roma, in cui quest’ultima, avvolta da un’aura quasi divina di umorismo spregiudicato, presenta la cruda realtà delle borgate. Tramite l’ironia sulla terribile somiglianza dell’individuo con i maiali viene mostrato come l’uomo sia fratello dell’animale che simboleggia le tendenze umane più vili quali la voracità, l’ingordigia, la sporcizia e la lussuria, in sintesi la lordura del suo corpo come della sua anima.
Caratteristiche sulle quali si tende a insistere in merito alla figura di Mamma Roma sono la sua imponente bellezza e la sua chioma nerissima, che possono essere interpretate come la manifestazione esteriore della potenza del suo spirito immortale. Con la sua volontà, infatti, è capace di scombussolare tutto ciò che ha intorno, ottenendo ciò che vuole, sebbene lo scontro, molte volte ingiusto, con la logica dei “borgatari” non possa essere evitato in alcun modo.
Nel caso di Mamma Roma lo scontro non è soltanto ingiusto, ma soprattutto crudele: la sua continua, energica e assillante ricerca di uno stabile avvenire per il figlio viene resa vana dalla troppa fragilità e ingenuità di Ettore, che non riesce a liberarsi dalle appiccicose ragnatele di opportunismo e viltà delle borgate, andando così incontro a una morte sofferente e delirante.
Mamma Roma, dunque, seppur portavoce del concetto sanscrito Vilomah, il cui significato “contro l’ordine naturale” starebbe a indicare un genitore privato precocemente del figlio, è libera e anche rispettata.
Rappresenta senza ombra di dubbio un unicum rispetto a tutte le altre donne. In entrambi i film di Pasolini (come anche nei due romanzi) la figura femminile appare costantemente sminuita, bistrattata e umiliata in quanto considerata come un essere decisamente minore all’uomo, incosciente, e soprattutto come la quintessenza di malignità, sempre sul punto di boicottare l’altro .
L’idea del femmineo che si delinea sembra riprendere una sorta di fusione tra due visioni del mondo greco (semonidea ed esiodea): la donna, essendo una rovina burrascosa e violenta, animata soltanto da cattiveria e lussuria, è come il mare agitato le cui onde rimbombano cupe e implacabili. Di conseguenza, una figura così potentemente negativa rappresenta l’origine del male nel mondo. Questa prospettiva terribilmente triste e misogina impedisce alla donna non solo di riuscire, ma di tentar il riscatto sociale.
La periferia polverosa, fangosa, sporca, meschina, illuminata da un sole molesto, e tutte le vicende che le si sviluppano all’interno, vengono presentate in maniera ancora più altisonante nei due romanzi pasoliniani.
Un aspetto interessante, messo in evidenza dallo stesso autore, è che, leggendo frammenti e pagine da Una vita violenta, si possa pensare di trovarsi di fronte a frammenti o pagine di Ragazzi di vita.
Entrambe le opere, infatti, mostrano crudamente, e senza alcun giudizio etico, le condizioni del sottoproletariato romano, concentrandosi specialmente sulla gioventù. Si tratta di giovani disgraziati e perduti la cui esistenza è dominata sin dall’infanzia dallo squallore, dalla povertà più estrema e dalla corruzione. La loro debolezza e la loro consapevolezza di questa circostanza, risultando gravemente incongruente in un mondo in cui a predominare sono la forza e la sopraffazione, fa scaturire sia in Riccetto che in Tommasino Puzzilli la frenetica esigenza di affermarsi nel mondo del lavoro.
Sempre a causa di tale debolezza i tentativi di una possibile affermazione lavorativa sono violentemente resi vani. O comportano la ricaduta in manie cleptomani oramai troppo radicate, con il rischio di andare incontro alla morte, oppure, questi giovani, diventati burattini del brutale e intransigente sistema capitalistico di massa sono vittima di una piena spersonalizzazione, che disintegra ogni particella di vitalità.
Disintegrata già da tempo è, invece, l’humanitas terenziana, sostituita da un indifferentismo cinico. Un esempio di tale prosaicità e immoralità si denota da una scena presente in Ragazzi di vita, in cui il Riccetto, ormai giovanotto, trovandosi dinanzi a un ragazzetto che sta annegando, non muove mezzo dito per salvarlo. Al contrario, fa di tutto, rischiando la sua stessa vita, per salvare una colomba.
È come se i “ragazzi di vita”, in qualche modo consci del loro brutale cinismo scaturito dalla societas, tentassero di ristabilire un legame quasi simbiotico con la natura: possono, pertanto, essere definiti portavoce impliciti del mito del “buon selvaggio” di Rousseau.
«Parecchi si sono affrettati conchiudere che l’uomo sia di natura crudele ed abbia bisogno di civiltà per addolcirsi; mentre non v’è essere più dolce di lui nel suo stato primitivo, quando, posto da natura ad uguale distanza dalla stupidità dei bruti e dall’intelligenza funesta dell’uomo civile».
(Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini)
Dalle pagine dei romanzi di Pasolini (in particolare da Una vita violenta) si denota una smania frenetica di carnalità, lontana da qualunque forma di moralità. Si assiste a una danza goffa e animalesca di corpi in preda a pulsioni erotiche, che li porta costantemente a una frettolosa ricerca e immediata soddisfazione fisiologica.
Tommasino, prima di ricorrere anch’egli alla vendita del suo corpo, spia le prostitute del suo borgo con l’intento di trovare in queste la risposta al mistero della lascivia. Il peccato in questione viene personificato in tutto il suo squallore da tali figure femminee oltremodo grottesche: sono l’emblema di tutto ciò che è alieno alla bellezza e alla grazia, ma volto solo ed esclusivamente dello sfogo sessuale.
«Erano tracagnotte tutte e due, con la pancia che parevano incinte, le cianche corte e grosse, due facce nere e pelose con la fronte bassa da scimmie e la borsa in mano».
(P. P. Pasolini, Una vita violenta)
Il sesso, perciò, appare in tutta la sua violenza e, privo di ogni carica erotica o psicologica, si riduce a una pura azione meccanica. L’educazione ai sentimenti è totalmente assente. A prevalere è un coacervo di sfrontatezza, incoscienza, maldestrezza, brutalità e forza.
Sia nei due lungometraggi che nei romanzi pasoliniani la miseria materiale del popolo, che si riflette nella miseria morale, viene amplificata dall’utilizzo del dialetto romanesco, che consente un’immersione sentimentale e umanitaria nelle borgate. Lo stesso Pasolini sostiene che per instaurare un rapporto con i parlanti sia stata necessaria una regressione aprioristica e volontaria.
Ogni autore, infatti, che decide di adottare una lingua dialettale, deve compiere un’operazione esplorativa e mimetica di regresso nell’ambiente del personaggio, tenendo in grande considerazione l’aspetto sia sociologico che psicologico. Tale linguistica mimetizzante, ossia un «tesoretto lessicale» costituito da modi idiomatici propri della malavita o plebe romana, rappresenta «un’imperterrita dichiarazione d’amore» da parte dell’intellettuale ai borgatari.