«The Witch mi ha spaventato a morte. Ed è un vero film, teso e stimolante, oltre che viscerale».
(Stephen King)
Così si espresse Stephen King, il “re dell’horror”, in seguito alla visione di The Witch , opera cinematografica scritta e diretta da Robert Eggers, capace di far addentrare lo spettatore in una dimensione cupa e tetra, avvolta da una nebbia talmente fitta da soffocare qualsiasi barlume di razionalità.
I personaggi, trovandosi immersi in un’atmosfera seicentesca dalle connotazioni terribilmente puritane, sono in balìa della febbre della superstizione, la cosiddetta “religio” lucreziana. È proprio nel I libro del De rerum natura che il poeta latino affronta il tema della superstizione, dandone una triste constatazione, poiché a causa del suo grave peso la vita umana giace a terra oppressa (“humana vita […] iaceret in terris oppressa gravi sub religione”).
Tuttavia, secondo Lucrezio l’umanità non deve rassegnarsi alla totale perdizione, perché Epicuro, dotato di fiero valore (“acrem animi virtutem”) e vivido vigore dell’animo (“vivida vis animi”), arriva e getta la superstizione sotto i piedi, calpestandola.
Contrariamente avviene in The Witch. Non c’è un salvatore o un vincitore che si fa portavoce della razionalità, bensì la presa di posizione da parte di un forte e scellerato puritanesimo che si poggia su privazioni, crudeltà, umiliazioni, paranoie e assenza di affetto.
Thomasin: «Ho vissuto nel peccato, sono stata […] negligente con le mie preghiere, ho giocato in segreto durante il tuo sabbat, ho infranto ogni comandamento con il pensiero, ho seguito i miei desideri e non lo spirito santo. So di meritare tutta la vergogna e la miseria di questa vita e le fiamme eterne dell’inferno».
William: «È tutta colpa mia, lo confesso, sono infettato dalla sporcizia della superbia, fai pure di me ciò che vuoi […]. Sono prostrato davanti a te, sono un codardo e il tuo nemico che lecca la polvere della tua terra».
Dalle affermazioni, rispettivamente di Thomasin, la figlia maggiore, e del padre William, si comprende una consuetudine sadomasochistica fortemente radicata nelle loro menti, le cui redini sono sotto il controllo del turbamento interiore più profondo e più amaro a cui l’uomo sia assoggettato: la vergogna. Thomasin e William, come del resto tutti i membri della famiglia, sono succubi dell’algoritmo di una civiltà della vergogna rovesciata.
Infatti, se nel mondo greco l’αἰδώς (aidòs) era vista come qualcosa di più aberrante e più orribile persino dell’odio di una divinità, dalla quale non si vi poteva riscattare se non con il suicidio, ora la vergogna e la consapevolezza di essere “marchiato” divengono gli unici mezzi per meritare il perdono di Dio.
L’individuo, però, ritrovandosi a ripudiare in qualunque modo possibile la gloria, la ragione, l’amor proprio e la libertà, perché probabili fonti di peccato per ottenere la presunta approvazione di un’entità superiore, ma astratta, non fa altro che tradire se stesso.
Ed è proprio qui che l’uomo tocca la parte più profonda del baratro in cui è precipitato. Di conseguenza i personaggi si ritrovano irrimediabilmente bloccati in una palude brulicante di superstizione e priva di qualsiasi logica razionale, dalla quale appare impossibile uscire.
Tale situazione determina un susseguirsi di eventi funesti: la perdita del figlio più piccolo (non battezzato), il cattivo raccolto, l’improvvisa comparsa del caprone nero “Black Phillip”, l’apparizione intermittente di una lepre dagli occhi diabolici… La disgrazia più altisonante fra tutte è senza dubbio la morte del figlioletto che, sprigionando dolore senza alcun controllo, fa da battistrada a tutte le circostanze funeree, enfatizzando la paranoia e l’isteria collettiva.
Katherine: «Da quanto Samuel è sparito ho una tale debolezza di fede che non riesco a reagire, non riesco più a vedere l’aiuto di Cristo. Temo di non riuscire più a provare una tale intensità di amore».
Sebbene sia una perdita che interessa entrambi i genitori, solo la madre viene violentemente travolta da un uragano di dolore e sofferenze senza fine. Difatti, mentre William interpreta la morte del figlio come un segnale divino per renderli ancora più umili, per Katherine è il primo sintomo della maledizione ricaduta non solo su tutta la famiglia, ma specialmente su di lei.
Per qualunque circostanza umana esiste uno status nel quale identificarsi, aspetto che in qualche modo contribuisce all’elaborazione del vissuto. Nel caso della persona adulta che perde un figlio non esiste un termine rispetto a questa condizione in nessuna lingua europea. È come se ci fosse un rifiuto, anche di tipo lessicale. Il sostantivo che pare calzare a pennello nel definire questo momento viene dal sanscrito ed è “Vilomah”. Il significato preciso sarebbe “contro l’ordine naturale”: connota, quindi, l’inversione di ciò che è giusto, l’opposizione di ciò che è naturale.
Vilomah altro non è che una linea genetica estinta, come se non fosse mai esistita, un oblio innaturale e fuori tempo. Katherine, in quanto Vilomah, si fa portavoce dello straziante dolore scaturito dalla conoscenza e dalla contemplazione di un amore profondo e dalla successiva e innaturale perdita di questo, senza nemmeno accorgersene.
«Tu, flor de la mia pianta percorsa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior».
(Giosuè Carducci, Pianto antico)
Al contrario, Katherine è priva di ogni sentimento d’amore verso la figlia più grande Thomasin e le indirizza una quantità d’odio tale da annullare il legame, cosiddetto indissolubile, che suole intercorrere tra madre e figli. La donna, difatti, avendo la mente offuscata dall’illogicità della “religio”, vede la figlia come strumento del demonio e conseguentemente è pronta a rinnegarla per Dio. Eppure Thomasin non ha fatto nulla di “diabolico” che potesse incriminarla, se non quello di distrarsi al momento del rapimento di Samuel.
La colpa della ragazza consiste principalmente nel coraggio di manifestare la sua fanciullezza e la sua onestà intellettuale e nella ribellione verso le logiche astruse e privative del puritanesimo. Detto in parole più povere, gli unici veri peccati di Thomasin sono la sua feroce tentazione di esistere e la sua volontà di pensare in modo assolutamente libero.
«La liberazione, se realmente ci sta a cuore, deve procedere da noi stessi: a nulla serve cercarla altrove, in un sistema già fatto o in qualche dottrina orientale».
(Emil Cioran, La tentazione di esistere)
È possibile, dunque, definire Thomasin un’eroina solitaria, bistrattata e controcorrente che, per non abbandonare la sua libertà di pensiero, non si subordina né ai genitori né alla divinità. Tuttavia, la sua testardaggine e il suo amore per la verità fomenteranno nella mente della famiglia l’idea che il diavolo scodinzoli nella sua bocca.
Invero, basta poco prima che tale isteria religiosa contamini anche la mente dei fanciulli che, sentendosi intrappolati in questa prigione puritana, sono sempre più attratti dalla via della trasgressione alle norme divine. Nelle scene finali si assiste, infatti, a una frenetica e folle corsa a crogiolarsi nel sangue e nella sporcizia del peccato: deliri erotici, conversazioni con caproni neri, matricidi, padri nostri persi nell’oblio della dimenticanza…
D’altronde, non si sarebbero potute verificare situazioni differenti in un clima così febbrilmente superstizioso. Pertanto, in questa vicenda, la religione può essere letta come una dannazione, la vera maledizione con cui l’uomo deve combattere, poiché simboleggia l’annullamento di ogni logica razionale. La vera conquista, allora, – per citare Paolo Poli – è solo e solamente il peccato.