Il cielo sopra Berlino attraverso Rilke – Degli Angeli ciascuno è tremendo

Elena Matassa

Giugno 28, 2022

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Il cielo sopra Berlino attraverso Rilke – Degli Angeli ciascuno è tremendo

«Ma per noi, sentire è svanire; noi ci esaliamo,
sfumiamo, di brace in brace
emaniamo odore sempre più lieve.
(…) Avrà forse sapore di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo?
Sarà vero che gli Angeli attingono solo da loro stessi
o talvolta, come per sbaglio, c’è in quello spazio
un po’ d’essere nostro?».

(R.M. Rilke, Seconda Elegia Duinese)

Alla ricerca della parola perduta

Wim Wenders gira Il cielo sopra Berlino nel 1987 e lo ambienta nella Berlino del secondo dopoguerra. Sembra che il suo intento sia quello di dar corpo con il film a uno speciale Genius Loci, un custode e rappresentante antropomorfo della città di Berlino – città distrutta, stratificata, ancora pulsante di vita – con la sfida di dar consistenza a qualcosa di intangibile. Non soltanto dà voce alla gente e ai quartieri della città, ma anche al cielo sopra di essi.

Questo titolo ci chiede di soffermarci e ragionarci su. O meglio: di soffermarci e assaporarne semplicemente una suggestione. Il cielo sopra Berlino.

Il Cielo sopra Berlino
Bruno Ganz ne Il cielo sopra Berlino

Il film è in gran parte costituito da sequenze che descrivono un affresco umano introspettivo: vediamo persone colte in momenti banali della giornata e ascoltiamo il sussurro dei loro pensieri intimi. Poi scopriamo che lo spettatore può ascoltare i pensieri della gente perché mediati dall’orecchio dell’Angelo.

Berlino è un luogo post apocalittico, distrutto dalla Seconda Guerra Mondiale, un luogo in bianco e nero abitato da persone alla ricerca di una luce perduta e da Angeli che si affiancano con amore agli uomini e al loro dolore, li ascoltano e a volte li confortano, indicando loro il sentiero dei pensieri che conduce alla speranza, proteggendoli dalla disperazione.

Sembra inizialmente un film privo di trama, pronto solo a dar rilievo a questo affresco. Ma poi ecco che si avvicendano gli eventi: un angelo sente nostalgia della natura umana e decide di abbandonare la propria condizione per diventare mortale e innamorarsi. Così il film abbandona il bianco e nero e trova i colori.

Bruno Ganz e Solveig Dommartin ne Il cielo sopra Berlino

Wenders rivela in un’intervista di aver ideato il film a seguito di un lungo decennio in America. Dopo molti anni trascorsi a vivere e lavorare in inglese, il regista avverte il timore di perdere pezzi del proprio tedesco, e così, a seguito dell’urgenza di rimettersi alla ricerca della propria lingua, per molto tempo, prima di addormentarsi, legge una poesia di Rainer Maria Rilke da un volume rilegato che contiene tutta la sua opera, e che Wenders ha tenuto per un lungo tempo sul proprio comodino.

In questo rituale e in questo dato biografico possiamo forse rintracciare la genesi dell’opera: la crisi (artistica), la perdita della parola nel senso di smarrimento della propria lingua madre e la ricerca della sua traccia perduta, paziente e mistica – un gesto ripetuto prima del sonno – come una preghiera.

E c’è in effetti molto di Rilke ne Il cielo sopra Berlino, soprattutto delle Elegie Duinesi, poesie rivolte agli Angeli, e ora vedremo meglio perché.

Dietro le quinte di Il cielo sopra Berlino con Wim Wenders

In molte parti del film, vengono ripetuti versi da una poesia che lo scrittore contemporaneo di lingua tedesca Peter Handke ha composto appositamente per Il cielo sopra Berlino.

«Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sono te?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole è forse solo un sogno?».

(Peter Handke, Quando il bambino era bambino)

Wenders sostiene che il film in origine non avesse una sceneggiatura. «Nasce come una poesia», è un’opera radicale e non razionale. E si sente, come il film nasca e viva sull’orlo di questi versi di Handke. Sono versi che esplicitano la natura a un tempo ontologica e storica della pellicola: l’infanzia (il momento della storia personale di ognuno di noi) e il dopoguerra sono il tempo preciso per porsi domande esistenziali che trascendono ogni storia.

“Perché io sono io e non sono te?”; e pian piano viene fuori anche la domanda maggiore, nascosta dietro queste molteplici domande, la domanda a cui il film insistentemente torna: “come bisogna vivere?”.

Il monologo finale della trapezista Marion sembra indicare una possibile (o forse definitiva?) risposta alla domanda principale. Per trovare una condizione di esistenza degna e soddisfacente o per compierne seriamente un tentativo, occorre essere in grado di stare finalmente davvero soli, raccolti e presenti a se stessi. Bisogna uscire dalla condizione di continua, mera casualità e scegliere chi essere, scegliere di amare.

Scena “Quando il bambino era bambino”

Marion: «Un giorno la cosa diventerà seria. Sono stata tanto sola, anche non avendo mai vissuto da sola. Sai, quando ero con qualcuno spesso ero felice, ma comunque pensavo fosse del tutto casuale. Questa gente erano i miei genitori, ma avrebbero potuto comunque essere anche altri (…) Solitudine significa: finalmente sono tutto. Adesso posso dirlo, perché oggi, finalmente, sono davvero sola. Bisognerà finirla prima o poi con il caso. Non lo so se ci sia un fine, ma so che ci dev’essere una decisione. È necessario che tu ti decida. Deciditi. Ora il tempo siamo noi».

Attraverso l’amore Marion dichiara di poter conoscere una più profonda solitudine, a contatto con se stessa: l’amore è vicino a una forma di necessità, perché prima dell’incontro d’amore tutto sarebbe potuto essere diverso, sarebbe potuto andare in molti modi diversi (mille universi paralleli di sliding doors) mentre dopo l’incontro (c’è prima e un dopo, una cesura, una svolta) le possibilità si riducono a una sola e le cose sono come sono e non potrebbero essere diverse.

Questa condizione è tutta umana, ma volta a un’umanità più alta, più consapevole della propria ricerca e del proprio limite. Le parole di Marion arrivano alla fine del film, come una corrente senza argini, a sancire il culmine del percorso dell’ex angelo diventato uomo e giunto di fronte alla prova finale, di fronte alla donna pronta a parlargli e ad amarlo.

Arrivati quindi al fulcro tematico dell’opera, cioè la ricerca di umanità del protagonista, è curioso mettere a confronto il regista con la sua fonte, Wenders con Rilke: vediamo da un lato il percorso dell’angelo di Wenders che diventa uomo, dall’altro l’uomo di Rilke (nelle Elegie) che cerca l’angelo e tende a esso.

Il Cielo sopra Berlino
L’angelo ascolta l’uomo ne Il cielo sopra Berlino

La felicità in qualcosa che cade

La parola tedesca “streben” significa tendere, aspirare, perseguire con sforzo. Dicevamo, in Rilke l’uomo tende verso l’angelo, in Wenders l’angelo verso l’uomo. In entrambe queste tensioni echeggia lo streben faustiano, ma spogliato dalla connotazione morale positiva di innalzamento della natura umana verso una più alta condizione di conoscenza; diventa uno stato d’essere nel dolore, una via verso la più elementare, genuina, intima, caduca umanità.

Le Elegie sono infatti un lamento esistenziale sull’inconsistenza della vita umana (“sentire è svanire”) e sull’inattendibilità dei sentimenti, anche i più sublimi. In questa duplice interpretazione, nell’accostamento delle due opere e nell’esplicita citazione del poeta prussiano attuata da Wenders, viene compiuto un lungo giro.

Bisogna prima accettare il compito titanico rilkiano di aspirare al luogo il cui accesso è consentito solo agli Angeli, in cui ci si può affacciare a quello che il poeta chiama lo «spazio interiore del mondo» (Weltinnenraum), luogo in cui si può tradurre il visibile nell’invisibile: «Terra, non è questo che tu vuoi, invisibile risorgere in noi? (…) Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia, né futuro / vengono meno… Innumerabile esistere / mi scaturisce in cuore».

Si sarebbe tentati di dire: sublimare la vita, ma sarebbe un’interpretazione errata del testo rilkiano, in effetti è proprio il contrario: vivere per la morte, vivere per dire addio, vivere comprendendo la natura effimera dell’esserci: «E noi che pensiamo alla felicità / come ad un’ascesa, ne percepiremmo l’emozione, / quasi sconcertante, quando qualcosa di felice cade».

Così, smettere di dimenticare e iniziare la conversazione con l’Angelo, tendere alla natura angelica. Tra l’inizio e la fine delle Elegie ci sono i dieci anni di silenzio di Rilke, in cui riuscirà a scrivere poco o nulla. C’è il largo spazio della sua crisi, c’è la Prima Guerra Mondiale.

E con Wenders, dopo la Seconda Guerra Mondiale occorre compiere il viaggio di ritorno. Si compie la formazione ultima degli organi della modernità novecentesca. L’essenza della modernità è il fallimento dell’Angelo e la scoperta della sua fragilità: lo vediamo, infatti, mentre desidera la mortalità.

Il Cielo sopra Berlino
I colori tornano ne Il cielo sopra Berlino

Quando penso a questo doppio percorso e scambio tra l’umano e il sovraumano, mi viene in mente un altro testo tedesco, che vale la pena aggiungere al mosaico. Si tratta del Teatro delle marionette di Heirich von Kleist, piccolo saggio in forma di dialogo che Thomas Mann definì «una gemma di estetica metafisica». Si sente in tutte queste opere la vertigine tedesca di un’arte pericolosamente vicina alla filosofia… come un quadro prezioso e fragile troppo vicino alle fiamme.

Il saggio racconta di un ballerino che cercando la Grazia la riconosce, ammirato, nella marionetta. Inanimata, spigolosa, stilizzata, limitata nei movimenti guidati da rozzi fili senza incanto. La marionetta è più vicina a Dio del ballerino, perché il punto zero della coscienza si avvicina meglio al suo grado infinito, quello divino; mentre la coscienza umana appesantisce il movimento rendendolo sbavato, imperfetto, continuamente passibile all’errore (leggiamo le poche pagine di Kleist che diventano quasi uno specchio, che ci mostra le fattezze malinconiche del ballerino).

La Grazia è preclusa agli uomini, la porta del Paradiso è chiusa. Kleist conclude il saggio suggerendo però una nuova via d’accesso: mangiando ancora dall’albero della conoscenza, una seconda volta, potremo dare vita a una nuova coscienza, che saprà forse cos’è la Grazia e vivrà in modo da poter abitare il Paradiso. Quando tutto il giro sarà compiuto, ci sarà forse data la chiave per aprire una porta sul retro del Paradiso?

La bellezza della conclusione del Teatro delle marionette di Kleist sta proprio nel permetterci di formulare queste interpretazioni, ma con una delicatezza che ci impone l’uso del forse, associato alla forma interrogativa. La marionetta è un’altra metafora per raccontare la finitudine che l’uomo ha dentro, finitudine non tanto descritta dagli autori tedeschi come un concetto esistenziale, ma come un sentimento. Un sentimento poetico (laddove la poesia si spinge oltre la logica) paradossale nel suo tendere e accarezzare il proprio opposto.

Marion

Come dichiarato da Wenders stesso Il cielo sopra Berlino, oggi un grande classico, può solo abitare nel luogo semantico che si apre alla poesia, superando i confini del puro mezzo cinematografico: la zona geografica indagata è Berlino in quanto terra di mezzo, a metà strada con il cielo e l’orrore distruttivo assoluto della guerra.

È il luogo dove si esperisce l’”Abwesenheit” (assenza) o la presenza tra i due mondi. L’angelo incarna la metafora perfetta del tentativo di ritornare uomo, di essere a contatto con l’estremo. Indugiamoci ancora su: “metafora” significa translazione, trasportare qualcosa durante un attraversamento.

Mediante l’atto linguistico la parola diventa veicolo di uno spostamento semantico. Su Treccani si legge, sotto la voce metafora: «una parola o un segmento ereditano uno dei significati della seconda parola o segmento». L’atto avviene quindi in una terra di mezzo tra il significato originale e il significato finale, in cui la sola regola e via di comprensione, risoluzione, è data dall’intuizione.

E l’intuizione abita e contemporaneamente sfida le regole del linguaggio convenzionale e della logica, quindi si rivela nel parziale abbandono di questo campo. Ma solo un piede è fuori: non possiamo (né vogliamo) mai uscirne completamente.

Il Cielo sopra Berlino
L’angelo e la donna

Scrivo queste righe in un giorno in cui la luce del sole è perfetta, ma dalla finestra si vede comunque cadere la neve. È un giorno di aprile, in quel momento dell’anno dove la svolta sta avvenendo, accade puntuale la trasformazione delle cose attorno a noi, mentre si continuano a vivere le giornate come sempre; eppure, siamo intimamente stupiti, silenziosamente colpiti dalla metamorfosi.

L’abbiamo vista molte volte, questa metamorfosi della natura nel volgersi della stagione (chi è adesso innamorato potrebbe rivedersi in certi versi, che parlano della malinconica bellezza di un sentimento eterno, inspiegabilmente calato nella finitudine del tempo, nella genuina banalità del procedere delle stagioni. «I giardini pazienti la tristezza / delle alterne stagioni eri / e il moto lento degli astri», e ci sembra quasi di non averla mai vista come quest’anno.

Accadono fatti storicamente rilevanti, e noi non abbiamo visto quasi nulla di storicamente rilevante. Non abbiamo mai voluto assistervi. Quanto siamo toccati dalle vicende? In effetti, questa volta lo siamo per davvero. Una generazione che non è mai stata soggetto attivo della storia, che sente infine di non esserlo nemmeno questa volta, sta esperendo un modo tutto nuovo di essere spettatori della Storia.

Nei versi di Rilke, si sente la crisi di un’epoca a livello storico e culturale. Traslata, la stessa crisi viene rappresentata da Wenders che si appropria della metafora rilkiana snaturandola e dando vita a qualcosa di inedito, ma condito della stessa urgenza di occhi che vedono attraverso la Storia: la domanda “come si deve vivere?” ha tutto un altro sapore quando dietro di essa si celano invisibili, silenziose, le guerre e la morte.

La nostra epoca ha da creare ancora una nuova opera, intanto le generazioni giovani sapranno amare questi vecchi film, fatti in realtà proprio per noi, e comprenderli meglio di chi adesso sta schierando gli eserciti.

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