Fra la fine del Sessantotto e la Strage di Piazza Fontana c’è un evento molto meno ricordato ma capace di segnare un prima e un dopo nella storia della classe operaia: la cosiddetta «Rivolta di Corso Traiano» del 3 luglio 1969. Migliaia di lavoratori e studenti occuparono tutto il quartiere adiacente allo stabilimento torinese di Mirafiori, sede principale della FIAT, dando il via a un’interminabile guerriglia. Non si trattava, però, della solita manifestazione operaia: in piazza si respira una rabbia mai vista prima. L’inedita unione fra studenti e lavoratori, una delle più visibili conseguenze del Sessantotto, porta in piazza slogan come Vogliamo Tutto e problemi come caro affitto e precarietà.
È a partire da questo e da eventi simili che Ugo Pirro ed Elio Petri scrivono la sceneggiatura di La classe operaia va in paradiso. Il film – com’è noto – narra la storia di un operaio cottimista: Lulù Massa (Gian Maria Volonté) è costretto a ripensare la sua vita in fabbrica dopo aver subito un gravissimo incidente dettato dai ritmi di produzione infernali. Abbandonato il suo ruolo sociale ed esistenziale da operaio infaticabile, si trova al centro di dinamiche più grandi e angosciose, la cui unica via d’uscita è la follia e la nevrosi. Se nel precedente Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Pirro e Petri avevano trattato il tema della repressione incrociando pericolosamente il caso Pinelli, nel film del ’71 al centro dell’attenzione c’è il rapporto tra lavoratori e sindacati.
Due classi operaie, due generazioni
Durante i primi anni Settanta, l’Italia è fra i Paesi più sindacalizzati d’Europa (oltre 1 lavoratore su 2 nel 1976). Il sistema dei sindacati, strettamente legati ai partiti di riferimento, aveva mantenuto una pace sociale durata oltre vent’anni dalla fine della guerra. Almeno fino al Sessantotto. La crisi economica, il lavoro a domicilio, la caduta delle certezze e la precarietà avevano diviso la classe operaia in élite e subalterni (o non garantiti, per usare il lessico dell’epoca). I primi erano persone come Lulù Massa: uomini, entrati in fabbrica nel Dopoguerra, fedeli all’azienda e al sindacato, costantemente ricompensati con salari alti e beni di consumo. I secondi, invece, sono uomini e donne più giovani, spesso provenienti dal Sud, più poveri e maggiormente politicizzati.
«E poi ci sono i terroni, come questo qui – Sicilia orientale – che son tutti dei pendolari. Al mattino arrivan qui già stanchi e io li frego sul ritmo! Eh, io son riuscito a tirar su venticinquemila lire in un mese di cottimo!»
-Lulù Massa, La classe operaia va in paradiso
I non garantiti portavano in fabbrica un messaggio totalmente opposto: lavorare meno, riscoprire il tempo libero, il piacere fisico, ribellarsi a istituzioni, padroni e partiti (comunista in primis). Lo scontro fra sindacati e nuove organizzazioni, fra cui Potere Operaio, Lotta Continua o la multiforme autonomia operaia, era inevitabile. Non si trattava unicamente della contrapposizione fra gruppi diversi, ma fra due visioni del mondo radicalmente opposte. La prima legata a un certo tipo di centralismo e a un’idea di politica con sede nelle istituzioni piuttosto che nelle piazze; la seconda, invece, legata a un magma fluido: ragazzi e ragazze cresciuti a cavallo del boom economico, mediamente più istruiti e con modelli culturali radicalmente differenti. Erano, in primis, modi diversi di intendere il comunismo e la sinistra, resi inconciliabili a partire dagli eventi politici degli anni Sessanta.
«Sono le otto del mattino. Oggi, quando voi uscirete, sarà già buio. Per voi la luce del sole oggi non splenderà. Vi cuocerete al cottimo. Otto ore di cottimo! E uscirete stanchi, svuotati, convinti di avere guadagnato la vostra giornata e invece sarete stati derubati. Sì, derubati di otto ore della vostra vita»
-Studente in protesta in La classe operaia va in paradiso
Se i sindacati tentavano l’accordo, l’autonomia procedeva allo scontro frontale, al sabotaggio. Petri è bravissimo a restituire queste dinamiche nelle sequenze di assemblee e proteste. Il sindacalista è tranquillo, parla in modo rassicurante, veste bene; lo studente o l’autonomo veste male, ha la barba lunga, è nevrotico, incita alla rivoluzione.
Una dolorosa presa di coscienza
Da questo punto di vista, quindi, La classe operaia va in paradiso potrebbe essere interpretato come l’espulsione di Lulù Massa dall’élite sociale, un Paradise Lost in salsa postmoderna. Ma anche come un’epifania verso il baratro, crudelmente simboleggiata dal suo dito tagliato dalla macchina. È in questa circostanza che Massa capisce di essere schiavo del lavoro, derubato del suo tempo libero. La discesa agli inferi non può che allargarsi agli affetti familiari, alla vita privata, alle relazioni umane.
L’operaio scopre di essere un padre che non ha rapporti con il figlio, un uomo che non prova affettività per la compagna, un lavoratore che non ha colleghi pronti a sostenerlo. Al posto degli affetti basilari della vita si ritrova la casa ingombrata da prodotti e beni di consumo inutili. Una bellissima sequenza del film, infatti, mostra Massa intento a fare un surreale inventario di tutto il superfluo nella propria casa:
«Coppia innamorati ottomila e cinque… due giorni di lavoro; tavolinetto dorato con stampa estera su maiolica… trenta ore di lavoro, cinquemila lire; quattro pagliacci…10 ore, ventiquattromila»
-Lulù Massa, La classe operaia va in paradiso
Sarebbe però un errore pensare che passare all’autonomia, unire la propria lotta con quella degli studenti, sia la soluzione. Petri, in una lungimiranza che a tratti sembra preveggenza, comprende l’esito fallimentare delle nuove istanze di protesta. Lulù si ritrova sedotto e abbandonato dagli studenti e dall’autonomia, più interessata a far scoppiare le contraddizioni della società che a trovare pratiche soluzioni alla vita degli operai licenziati.
La strada della violenza
Si tratta di visioni troppo diverse e profonde che – negli anni successivi – vireranno irrimediabilmente verso un conflitto sempre più duro e intransigente. Nel 1973, infatti, quando si cerca di organizzare l’autonomia a livello nazionale, si stabilì senza particolari remore che la violenza sarebbe diventata il mezzo per esprimere una nuova coscienza di massa. Per quanto ad oggi possa sembrare estremamente radicale, il discorso interessò non pochi lavoratori sindacalizzati, ormai stufi della centralizzazione, dei compromessi, della poca democrazia all’interno di CGIL e affini.
È un momento storico molto stratificato e difficile da interpretare univocamente: se da una parte alcuni operai iniziano a travestirsi goliardicamente da indiani pellerossa e rivendicare il proprio diritto alla felicità, dall’altra si iniziano a gambizzare dirigenti e organizzare spedizioni punitive nei reparti.
Se l’insostenibilità dell’escalation divenne ben chiara solo anni dopo, Lulù capisce immediatamente che il suo destino è quello di ritornare nel seminato. I sindacati, che tanto aveva criticato, riescono a reintegralo in azienda tramite accordi politici. Volonté caratterizza incredibilmente il suo personaggio: continua, infatti, a toccarsi la fronte con la mano mutilata e ha uno sguardo a metà tra il folle e il disperato. È il preludio della sconfitta dolorosa di una intera generazione o, volendo, del cocente fallimento degli ideali del Sessantotto.
Un finale nichilista
Nella sequenza successiva gli operai rientrano a lavoro in un clima livido e offuscato dalla nebbia, stonati – a destra – dal megafono del sindacalista e – a sinistra – da quello degli studenti. I lavoratori ripresi alle spalle ricordano quasi gli operai in Metropolis di Fritz Lang, pronti per essere sfruttati e divorati dalla macchina infernale.
Il capolavoro di Petri si conclude con la celebre sequenza della catena di montaggio: tutti gli operai, vecchi e nuovi, ascoltano il sogno raccontato da Lulù in cui il Militina – un anziano dipendente ormai rinchiuso in manicomio – li invitava a «spaccare tutto e andare in paradiso». Gli addetti alla catena sono ormai alla stregua di automi e la grammatica cinematografica – scavalcamenti di campo, contreplongée, rumori elettronici – è quella dell’irrimediabile follia.
Pirro e Petri non hanno in realtà mai avuto dubbi su quale dovesse essere il finale dell’opera. La prima versione della sceneggiatura prevedeva che Lulù Massa sarebbe dovuto morire investito mentre alzava al cielo un pugno chiuso: quasi un’iconografia da martire. Ma dopo il Sessantotto non c’è più spazio per sacrifici esemplari: la vera morte è in Terra.
Il finale de La classe operaia va in paradiso è dunque indubbiamente nichilista, ma anche profondamente ambiguo sia dal punto di vista politico che esistenziale. L’assalto al cielo è solo una chimera? La follia è l’unica via d’uscita allo sfruttamento? La generazione di Lulù non ha altre prospettive che l’alienazione? La risposta non è scontata. La tentazione di scorgere nell’opera, a oltre cinquant’anni di distanza, la previsione di un disastro sociale e morale generalizzato è fortissima. Ma è lo stesso Petri a riportarci con i piedi per terra.