Per una critica alla soggettiva cinematografica

Francesco Saturno

Giugno 15, 2023

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Quando si parla di “tecniche cinematografiche” ci si riferisce all’ampio ventaglio di possibilità che lo specialismo della macchina da presa consente di offrire alla rappresentazione. Il mondo espresso dalla settima arte viene reso tale attraverso tecniche cinematografiche che, alterando e modificando le immagini-in-movimento, incidono in modo determinante sulla percezione dello spettatore.

Laddove un film consuetamente si vede – una stessa scena vista dallo spettatore potrebbe essere rappresentata in modalità potenzialmente infinite –, con alcune tecniche cinematografiche è possibile osservarle in prima persona attraverso la prospettiva di un determinato personaggio.

Letta in questi termini, l’esperienza cinematografica può non essere semplicemente la trasmissione di una storia attraverso il senso della vista, ma può così incarnarsi, tramite la macchina da presa, nel senso stesso della vista.

Le tecniche cinematografiche che consentono questo passaggio di testimone interno sono diverse, ma tutte partono probabilmente da quella grande invenzione visiva che porta il nome di soggettiva.

Una delle prime applicazioni della tecnica in soggettiva nel film Vampyr (1932) di C. T. Dreyer

La soggettiva e le altre tecniche cinematografiche

Va considerato naturalmente che la tecnica della soggettiva vive di diverse applicazioni nel mondo del cinema. Ogni regista, a suo modo, la utilizza per enfatizzare un certo stile del suo film, una certa immedesimazione con i suoi protagonisti, o comunque un qualche sentire alieno alle comuni prospettive, spesso tendente a gonfiare momenti di suspance o di tensione narrativa.

In linea di principio, con il termine “ripresa in soggettiva” si intende una particolare tecnica cinematografica che consente di vedere certe scene del film dal punto di vista del personaggio che le esperisce nella narrazione: la soggettiva o si utilizza in un solo tempo, rilanciato di volta in volta, senza abbandonare mai l’occhio del personaggio, o in due, attraverso una frammentazione che permette allo spettatore di oscillare dallo sguardo del personaggio in questione a quello sulla scena in quanto tale. Questa seconda opzione prende anche il nome di “semi-soggettiva”.

In un certo senso si può dire, in generale, che l’occhio offerto dalla macchina cinematografica si offre come un sostituto dell’occhio dello spettatore, il quale è così portato psicologicamente a dover lasciare andare la sua personale visione delle cose per offrirsi ad uno sguardo che, pur non essendo espressamente il suo, lo può condurre ad avvicinarsi ancora di più a ciò che guarda.

Lo sguardo che il cinema offre allo spettatore, dunque, è sempre uno sguardo mediato dal volere del regista, che sceglie, di volta in volta, di offrire una certa prospettiva dalla quale far osservare le scene.

Messa in questi termini, sembrerebbe che la prospettiva del personaggio stesso sia meno artificiale rispetto a quella che il regista offre quando di solito presenta – anche qui con tutte le declinazioni specifiche del caso – un’intera scena. Certo, anche la prospettiva dalla quale il regista sceglie di farci “assumere” gli occhi del personaggio in soggettiva è una scelta mediata, ma si potrebbe logicamente argomentare che questo avviene con un minus di libertà, che ha a che fare con il fatto che in quel momento lo spettatore diventa proprio quel personaggio, assume su di sé il suo occhio, lasciando fuori tutti gli altri possibili sguardi.

Dal punto di vista dell’effetto visivo, per lo spettatore il riconoscimento della soggettiva è reso possibile dai rimandi che la prospettiva in prima persona riflette: una focalizzazione narrativa interna, per la quale lo spettatore conosce solo le informazioni del personaggio, oppure la presenza di oggetti che si mettono di fronte allo sguardo del personaggio, ostacolandolo o interferendo con la sua visione, iniziano a riguardare anche lo spettatore al pari, per esempio, di scatti di scena rapidi, in cui gli spostamenti disordinati della macchina da presa non possono che lasciarlo in balìa della sperimentazione adottata.

Profondo rosso (1975) di D. Argento, altro esempio dell’utilizzo della soggettiva in Italia

Storicamente, si può far risalire l’utilizzo della tecnica in soggettiva già ai primi anni del Novecento.

Nel cortometraggio Grandma’s Reading Glass (1900) di George Albert Smith, infatti, in cui già compare la visione di un oggetto attraverso strumenti particolari di visione (una lente di ingrandimento dovrebbe corrispondere agli occhi del bambino di cui ci viene “raccontato”), si utilizza la soggettiva in una forma sperimentale, forzatamente espressiva, che non sfocia ancora, però, in una dimensione strettamente narrativa.

Dopo vari tentativi di applicazione negli anni trenta (perlopiù fallimentari dal punto di vista del successo riscontrato) , ci vorranno poi i film di Hitchcock affinché questo strumento assuma una valenza narrativa in quanto tale, marcandola come possibile fonte attraverso cui sperimentare il punto di vista dei personaggi. Si pensi a film come La finestra sul cortile (1954), in cui il regista sceglie di alternare riprese canoniche a quelle propriamente più personali dei personaggi (soprattutto attraverso l’utilizzo dell’osservare attraverso l’occhio della macchina da presa), o ad altri suoi film come Vertigo (1958), in cui il famoso “effetto vertigo” (o “dolly zoom”) non è altro che una soggettiva che ci rimanda al senso di vertigine sperimentato dal protagonista tramite la combinazione di un’inquadratura stretta sul soggetto con una carrellata all’indietro.

Lo stesso 8 e ½ (1963) di Federico Fellini si avvarrà di questa tecnica per raggiungere la dimensione onirica, abitata ad un certo punto del film dal protagonista, che il regista vuole trasmetterci.

Famosa scena in soggettiva dal film 8 e ½ (1963)

Da allora, le tecniche cinematografiche in soggettiva hanno trovato sempre più costante applicazione. Basti pensare, come esempi che ne riprendono in modo vivo l’applicazione, a film come Strange Days di Bigelow (1995) – fortemente simbolico rispetto al mondo moderno, proteso distopicamente verso una simulazione dell’essere qualcun altro attraverso il dispositivo dello SQUID –, a Essere John Malkovich di Spike Jonze (1999) – gioco di rappresentazione nelle rappresentazioni – o ancora a Lo scafandro e la farfalla di Schnabel (2007), in cui la soggettiva rimanda allo stato di paralisi del protagonista.

Alcuni dei più rappresentativi sono i film di Gaspar Noé, abile manovratore della macchina cinematografica nei momenti topici delle sue pellicole, in quanto importantissimi esempi dell’impatto che la soggettiva può avere sullo spettatore.

Da Enter the Void (2009) – quasi interamente girato in soggettiva, con un carico di angoscia veicolato bene dall’intensità di certe prospettive vertiginose e disorganizzate – a Love (2015) – in cui numerosi sono i flashback ripresi soggettivamente –, arrivando a Climax (2018) – film contorto che prende alle budella anche per la massiccia dose di semi-soggettive utilizzate –, Noé è sempre riuscito bene a mescolare la narrazione in prima persona con quella in terza. D’altro canto, le tecniche cinematografiche disruptive fanno parte della cassetta degli attrezzi del registra francese, che non si è mai difeso nelle sue narrazioni dall’offrire uno sguardo crudo sui fatti rappresentati.

Un esempio, dal film Enter the Void, dell’utilizzo della soggettiva, in questo caso utile a dare allo spettatore la sensazione di star facendo, grazie all’assunzione di DMT, lo stesso “viaggio” del protagonista
Diegeticamente, la soggettiva si presenta dunque al bivio tra una visione portata al massimo grado della finzione ad una portata all’apice dell’immedesimazione al personaggio. In questo senso, essa si offre come crocevia imprescindibile per cogliere le evoluzioni del cinema moderno e per sottolineare l’incidenza che, grazie alla tecnologia, gli strumenti mediatici possono avere sullo spettatore.

Ma dalla conosciuta soggettiva, di cui numerosissimi altri film potrebbero essere esempi, si sono poi distaccate, negli anni, anche tecniche diverse: lo steadicam shot – un movimento di cinepresa fluida che si ottiene attraverso una telecamera montata con un sofisticato sistema sul corpo dell’operatore, (ne sono un esempio certe scene di Shining (1980) di Kubrick) –; tecniche tarantiniane quali il trunk shot – un’inquadratura dall’interno del bagagliaio di un’auto, solitamente dal basso verso l’alto, in cui ostaggi in soggettiva guardano la scena – e il corpse view – un’inquadratura che riprende la scena dalla prospettiva di un corpo a terra –,  ma si pensi anche al First Person Shot (FPS) – figlio dei videogames, evoluzione delle tecniche cinematografiche di ripresa standard – che vuole rimandare un linguaggio narrativo attraverso il quale la visione soggettiva riesce a staccarsi dagli scenari del cinema per accedere a nuove realtà virtuali in prima persona.

A differenza della soggettiva, quasi mai interamente mantenuta per tutto il linguaggio del film, il FPS dona a chi lo guarda un’esperienza scopica dalla quale non si distacca mai, integrandosi interamente nel punto di vista del personaggio e nella relazionalità che egli intrattiene col mondo che lo circonda.

Inoltre, mentre nella soggettiva c’è una differenza tra il soggetto che sperimenta l’azione e l’oggetto camera che ne va ad assumere lo sguardo, nel FPS tale distinzione non è possibile, e lo spettatore è egli stesso messo in una posizione ibrida tra soggetto umano e oggetto camera, che diventano così un’unità semanticamente indistinguibile.

Immedesimazione, soggettività e narrazione

Ci si potrebbe fermare a considerare tutte queste come delle semplici modalità visive, come delle scelte di stile narrativo, ma forse si può fare persino un passo in più nel considerare che tali tecniche rimandano qualcosa della soggettività in quanto tale.

Vivere la storia attraverso gli occhi dei personaggi diventa una modalità diegetica di rappresentazione della realtà, che si serve della fenomenologia percettiva per arrivare al cuore dell’esperienza soggettiva.

Intese come delle forme metaforiche, difatti, l’avventura che permettono di fare certe tecniche cinematografiche della modernità può essere intesa come veicolante un certo modo di rappresentarsi il soggetto umano: da una postura “posizionale” rispetto alla scena del mondo, in cui i soggetti si muovono a distanza nella rappresentazione stessa, si può passare con queste tecniche ad una visione relazionale del soggetto, in cui il suo vivere è mediato dal suo rapporto con gli oggetti del mondo che lo circonda: non è più un soggetto di cui è rappresentato qualcosa, come nella postura posizionale, quanto un soggetto che è egli stesso in posizione di testimone delle sue esperienze.

La soggettiva, e le sue evoluzioni più moderne come il FPS, riprendono ciò che le tradizionali forme visive e prospettiche avevano già messo sul tavolo, radicalizzando il rapporto tra soggetto e mondo – attraverso i punti di convergenza tra sguardo (corpo), macchina da presa (dispositivo tecnologico) ed esperienza vissuta (visione dell’essere umano) – ed elevando il numero di occhi possibili a quattro, quelli del personaggio e quelli dello spettatore, che però sembrano confondersi in un tutt’unico.

Metalinguisticamente parlando, tecniche cinematografiche come la soggettiva fomentano una forzatura della scelta estetica, ma non una forzatura in negativo, quanto un modo di costringere lo spettatore ad un’immersione scopica che ha il fine di immedesimarlo, se non identificarlo tout court, con quei personaggi di cui il regista gli racconta.

Merleau-Ponty, autore del saggio Fenomenologia della percezione (1945), nostro riferimento molto puntuale per questa ricerca

Ci sarebbe da considerare come nel futuro questa unificazione di sguardo biologico e sguardo tecnologico si evolverà; al di là dell’effetto sorprendente che ha in termini di impatto sugli spettatori e di effetto rappresentativo del soggetto empirico stesso, difatti, bisogna considerare se e quanto ci ricorderemo che uomo e tecnologia restano due cose diverse.

Leggi anche: Attraverso il Cinema: Merleau-Ponty e l’arte cinematografica

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