La Jetée di Chris Marker – Congelare la Memoria e Giocare col Tempo
La fotografia occupa un ruolo determinante nella storia delle immagini. È l’arte che ha dato voce alla realtà oggettiva, facendo spazio alla presentazione pura dopo secoli di rappresentazione mediata. Ed è stata precorritrice del cinema, dunque della possibilità di prendere quella realtà oggettiva (nella sua forma più fedele), sfruttare il potere del movimento (che dà all’immagine una maggiore prova di esistenza) e manipolarla a proprio piacimento.
«Il tempo all’interno di una fotografia è bloccato, congelato, mentre, al contrario, il cinema immette il singolo fotogramma all’interno di un flusso temporale.»
(André Bazin)
Con queste parole, André Bazin, critico cinematografico, ideatore dei Cahiers du Cinema, sottolinea come il cinema non sia immagine statica, ma immagine in movimento, e possiede qualcosa che la fotografia non ha: la durata.
Il regista e fotografo francese Chris Marker sceglie di mescolare il cinema e la fotografia in un cortometraggio fantascientifico di 28 minuti, La Jetée (1962).
Ambientato in una Parigi radioattiva, devastata da una catastrofe nucleare, una serie di fotografie in bianco e nero scorrono mentre la voce fuori campo di un narratore onnisciente racconta la storia di un’umanità rinchiusa come ratti nei sotterranei della città. Un gruppo di scienziati tedeschi (vincitori della guerra) decide di utilizzare il viaggio nel tempo e sfruttare come cavie i francesi sconfitti, mandandoli nel passato e nel futuro per impedire l’evento che ha causato la catastrofe. Viene scelto un uomo, le cui immagini mentali di un ricordo d’infanzia sono molto vivide, impresse nella sua memoria: sul molo d’imbarco dell’aeroporto di Orly ha assistito alla morte di un uomo, assassinato vicino a una donna, e quell’immagine non riesce a togliersela dalla testa.
Trasportato nel passato, l’uomo rivede la donna dei suoi ricordi e se ne innamora. Quando finalmente riuscirà a rivivere quel giorno sul molo di Orly, finirà assassinato dai tedeschi, i quali non lo riterranno più utile per la missione. L’immagine che tormentava la sua memoria era la rievocazione della sua stessa morte.
Il cinema è senza ombra di dubbio la più grande rivoluzione tecnologica e artistica del Novecento, il secolo delle due guerre mondiali, della psicoanalisi, delle avanguardie, dello sviluppo tecnologico e del consumismo. Ed è il secolo della memoria, analizzata da autori come Freud nella psicoanalisi, Joyce nel romanzo, Proust nella filosofia e Mahler nella musica con la riconduzione nella sfera privata delle preoccupazioni verso il passato.
È facile notare come la memoria sia d’interesse in qualsiasi campo del pensiero e dell’arte. E infatti il cinema non resta fuori dal discorso, tutt’altro, ci entra dentro con la stessa dirompenza con cui è entrato nella vita delle persone, quando è nato nel 1895. La Jetée, come l’intera produzione di Marker, ha a che fare con la memoria attraverso un’originale intreccio del genere fantascientifico con la storia d’amore. Ricorda il regime tedesco e i campi di concentramento (il passato) e metaforizza la minaccia nucleare (il futuro).
La Jetée è un film che analizza il proprio periodo storico. Si fa riferimento alla guerra fredda e alla minaccia dell’atomica, non dimenticando l’orrore dei campi di concentramento nazisti (che Marker ha avuto modo di affrontare collaborando nella realizzazione del documentario di Alain Resnais Notte e nebbia, del 1955). I ricordi di quell’atroce periodo sono ancora vividi nella memoria, quella stessa memoria che al regista e fotografo francese sta profondamente a cuore.
Chris Marker sceglie di raccontare la sua storia come se fosse un fotoromanzo. Difatti il film non è composto da fotogrammi, ma da fotografie vere e proprie. Il montaggio, gli effetti sonori e la voce narrante creano dinamismo e permettono all’opera di mantenere la sua dignità di racconto cinematografico (cine-romanzo). Ogni fotografia possiede una sua durata all’interno della narrazione. Istanti congelati dotati di una propria dignità e di una propria forza espressiva.
«Questa successione di immagini sconnesse è il mezzo perfetto per proiettare i ricordi quantificati e i movimenti nel tempo che sono il tema del film.»
(J.G. Ballard)
Il protagonista de La Jetée è ossessionato dal volto della donna che era presente sul molo dell’aeroporto di Orly. Non sa a chi appartenga. La ricerca di una risposta è il motore della storia.
L’uso delle fotografie fisse permette di soffermarsi su ogni immagine ed effettuare un’analisi più approfondita. Roland Barthes, nel suo saggio La camera chiara (1980), riflette sul significato della fotografia e sull’impatto che quest’ultima ha sul fruitore, definito spectator. Il semiologo francese distingue due modi che ha lo spectator di percepire una fotografia. Lo studium, che è l’aspetto razionale, in cui ci si pongono domande sulle informazioni della foto, e il punctum, in cui un dettaglio particolare della foto cattura l’attenzione dello spectator e lo colpisce emotivamente. Ed è proprio nell’immagine del volto della donna che si identifica il punctum, così ossessivo per il protagonista e per i suoi ricordi.
«Con il ricordo è possibile eseguire un fermo-immagine sul tempo.»
(Gilles Jacob)
Marker sceglie di bloccare il tempo per esaminare la memoria, permettendo di osservare più attentamente le immagini e individuare il punctum, che rappresenta l’aspetto più emozionale. La fotografia è un ricordo perché rapportato al reale, che non è del tutto distaccato dall’immaginazione. Infatti, realtà e immaginazione possono considerarsi non del tutto divisibili perché il ricordo non opera secondo una logica lineare. Nell’inconscio, il ricordo è discontinuo, e dunque anche la memoria.
L’unico momento in cui si interrompe la staticità delle immagini fisse è quando la donna sembra uscire dal sonno, apre gli occhi e per un istante sembra svegliarsi da un sogno. Il suo battito di ciglia è come un’estasi. Ma proprio per questo, è un attimo che la storia torni a raccontare le vicende dei personaggi attraverso le fotografie, a dimostrazione che non si sfugge dal tempo.
Ma cos’è/com’è il tempo?
Forse una delle domande più difficili che l’essere umano si sia mai posto. Dal ritenerla una semplice grandezza calcolatoria a considerarla più come un qualcosa che va oltre la comprensione umana. Ce lo si domanda dalle origini della filosofia.
Parmenide considerava il tempo come un aspetto dell’opinione e dell’illusione, piuttosto che come un aspetto della realtà, affermando che l’essere è un’entità che non concepisce il succedersi degli eventi, e quindi respinge la percezione del trascorrere del tempo. Per Platone il tempo è la misura del moto nel mondo materiale, l’immagine mobile dell’eternità e nella totalità del mondo delle idee. Aristotele considerava il tempo come una misura del movimento e del cambiamento naturale, dunque più sul piano scientifico. C’è la visione più cristiana di Sant’Agostino, che analizza il tempo sul piano più interiore, definendolo come indefinibile; qualcosa che è opera di Dio e che gli è impossibile decifrare. Un concetto connesso al mutamento dell’anima.
L’idea di tempo più rivoluzionaria e accattivante è sicuramente quella di Nietzsche, espressa in Così parlò Zarathustra (1883), e richiamando a sè influenze dello stoicismo greco. Si pensa ad una ruota che gira, a un serpente che si morde la coda, ad un percorso chiuso, ad un ciclo infinito, e dunque all’eterno ritorno, la ripetizione infinita degli eventi, il terrore dell’essere umano per il fato contrapposto all’accettazione e all’amore per questa stessa condizione così angosciante.
Henri-Louis Bergson, nel suo Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), riflette sul tempo distinguendo il tempo della scienza, ovvero esteriore (meccanico, organizzato, scandito da secondi, minuti e ore), dal tempo della vita, ovvero interiore. Più intense sono le emozioni legate al ricordo e maggiormente saranno vivide nella memoria. Ogni avvenimento acquista significato in relazione a quelli passati e a quelli futuri. Dunque il tempo non è oggettivo, ma soggettivo. Dipende dalla percezione del singolo individuo ed è strettamente legato alla sua vita psicologica. Il tempo della vita è stratificazione, ricordo e memoria. Ne La Jetée gli scienziati (in teoria studiosi del tempo della scienza), in questo mondo futuristico sperimentano col tempo della vita.
«Non si può fuggire dal tempo.»
(Narratore La Jetée)
Chris Marker utilizza l’espediente fantascientifico del viaggio nel tempo per giocare con la soggettività del protagonista. Immagini passate, presenti e future servono ad aggirare il tempo, che non è lineare, eppure ugualmente collegato alla memoria. Ma non è possibile uscire dal meccanismo del tempo. L’uomo che non lo accetta è destinato a soccombere, esattamente come l’uomo de La Jetée, che inizia la sua avventura da bambino, con la visione di una morte che alla fine si rivelerà essere la sua. Il film inizia sul molo di Orly e finisce sul molo di Orly. Ed è qui che il concetto di eterno ritorno di Nietzsche si manifesta in tutta la sua essenza.
Il viaggio nel tempo è solo una continua ricerca per ritornare fisicamente alla scena iniziale, attraverso la circolarità narrativa.
E la scelta delle fotografie, immobili e di un bianco e nero fortemente contrastato, accompagnate da una voce fredda ed essenziale, propria di un narratore onnisciente, è come se simboleggiasse l’impossibilità di scappare dalla cruda realtà, in cui il destino è una pagina che è già stata scritta.