Quello italiano è un cinema vivo; al di là di retoriche spicciole e declamazioni nostalgiche sui cineasti che furono. E da sempre, il cinema italiano rivendica la sua unicità con una potenza espressiva talvolta sorprendente: è ciò che portò alle vittorie di Tornatore e Benigni negli anni ’90, o alla scalata al successo di registi come Paolo Virzì e Paolo Genovese.
Tuttavia, due nomi hanno monopolizzato in particolar modo la scena italiana del nuovo secolo: due registi stilisticamente molto diversi, ma nelle cui poetiche è possibile scorgere un legame, un fil rouge che le collega quasi indissolubilmente. Sto parlando, ovviamente, di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone.
Coetanei, o quasi (si scartano due anni), il primo napoletano e il secondo romano, 17 film in due. E se è vero che il nome di Sorrentino è indubbiamente più altisonante, sia per la travolgente estetica dei suoi capolavori, sia per il prestigio conferitogli dai numerosi premi internazionali, Garrone fa del realismo il suo autentico marchio (sin dal suo esordio con Terra di mezzo, del 1996). Alla fotografia e alle immagini suggestive del regista premio Oscar, il cineasta romano risponde con riprese crude, ambientazioni degradanti e dialoghi essenziali spogliati, di fatto, della loro funzione veicolante: è una realtà svuotata del pathos, priva di filtri, che sfocia a tratti nel sadico.
Ma tra l’enfasi e la spettacolarizzazione di Sorrentino e il minimalismo estremo di Garrone (talvolta sembra davvero che non esistano copioni o scenografie, che la cinepresa sia stata semplicemente poggiata lì in un angolo), c’è un elemento che accomuna le due visioni, che anzi si fa protagonista assoluto dei loro lavori: l’Uomo. Perché seppur in due universi opposti tra di loro, l’uomo si muove nello stesso disagio esistenziale, lo stesso imbarazzo relazionale, la stessa infinita ricerca di un qualcosa. Proviamo, dunque, ad addentrarci nella poesia dei due registi.
Anni 2000- Inseguire
La Bellezza
La ricerca della bellezza intesa come ideale da poter imbrigliare, tenersi stretti, è un leitmotiv a cui i registi italiani ci hanno da tempo abituato. Ed è da questa grande illusione che i due registi conquistano la scena nei primi anni 2000: Sorrentino, in particolare, rende subito chiara la natura della sua ricerca con L’uomo in più (2001), il suo primo film. Pur senza travolgerci con le suggestioni e le enfatizzazioni del suo cinema recente, nel suo primo lavoro Sorrentino mostra molti degli elementi salienti della sua produzione. Spicca immediatamente il viso e il carisma di Toni Servillo, che come molti dei protagonisti sorrentiniani più noti, ricerca il suo ideale di bellezza nella mondanità, nello sfarzo, in quel circo immenso e luccicante che nasconde desolazione e vuoto.
Emblematico, in questo senso, che molti dei volti di Sorrentino facciano parte del mondo della popolarità, della fama e della disillusione che ne deriva: dal sopracitato Servillo de L’uomo in più allo Sean Penn di This must be the place, dallo Jep Gambardella de La Grande Bellezza agli americani Michael Caine e Harvey Keitel in Youth. Senza tralasciare i ritratti di Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi ne Il Divo e Loro.
Ma è un ideale di bellezza che si rende a più riprese irraggiungibile, inafferrabile, lasciando i protagonisti in un limbo di malessere che li porta all’erranza, al vagabondare in un mondo irreale, rarefatto, in continua ricerca di una qualche traccia di poesia. I viaggi di Sorrentino, di fatto, non giungono mai ad una vera conclusione; rimangono sospesi, tra sequenze oniriche di felliniana memoria e scenari ove malinconia e ricordi si mischiano in prospettive angoscianti.
Ne Le conseguenze dell’amore (2004), e L’amico di famiglia (2006), pur essendo assente l’elemento mondano, il regista naviga sulle stesse tematiche. La noia e il grigiore esistenziale dei due protagonisti vengono smossi da un illusione, un ideale di bellezza a cui i entrambi aspirano: un indecifrabile amore per una barista, nel primo film, una travolgente attrazione sessuale per una ragazza trent’anni più giovane, nel secondo.
La cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale.
(Toni Servillo, Le conseguenze dell’amore)
L’Ossessione
Nell’universo garroniano, l’inseguire la bellezza si traduce il più delle volte come bisogno insito, maniacale, di controllarla; o meglio, possederla. All’estetismo del cinema di Sorrentino, dunque, Garrone risponde scavando a fondo la natura di uomini aggrappati ad un’ossessione, indubbiamente più concreta, tangibile, ma che allo stesso modo porta alla medesima degradazione interiore.
I suoi primi tre film veramente rilevanti sono prodotti nello spazio di quattro anni: Estate romana (2000), L’imbalsamatore (2002) e Primo Amore (2004). In tutti e tre i film, oltre al sopracitato stile crudo e reale, Garrone dipinge protagonisti alla deriva, fondamentalmente soli, che si ancorano ad aspirazioni effimere ed ideali di bellezza malati, deformati. Il nano de L’imbalsamatore e il protagonista di Primo Amore ne sono gli esempi più lampanti: entrambi ossessionati dal controllare, dallo stringere nelle proprie mani le rispettive maniacali fissazioni (il primo insegue una controversa attrazione per un ragazzo alto e bello, il secondo una morbosa perversione per la magrezza femminile, tanto da modellare, letteralmente, le ragazze che incontra).
In Estate Romana ciò è meno evidente: la bellezza ricercata dai protagonisti non è che un tentativo di fuga dallo squallore delle loro vite, attraverso goffi tentativi d’espressione artistica. Ma è un’aspirazione presto inglobata, risucchiata nel vortice di disagio ed inutilità nel quale vagano i personaggi del film; e la speranza di poter prendere il controllo delle proprie esistenze alla deriva scorre via tra le dita come sabbia in una spiaggia romana. Tematiche del film che, a mio personale avviso, confluiscono velatamente in quelle de La Grande Bellezza, seppur differendo completamente in tutto ciò che riguarda stile, forma ed estetica. E, ovviamente, ceto sociale dei personaggi.
Anni 2010- Convivere
Disillusione
Dal grande successo di Gomorra per Garrone e de Il Divo per Sorrentino (entrambi del 2008), lo stile dei due registi inizia ad assumere un’identità solida, riconoscibile, ma non per questo statica. Evidenti, per l’appunto, gli elementi d’innovazione appartenenti ai loro film più recenti.
E se su La Grande Bellezza sono stati scritti fiumi e fiumi di parole, particolare attenzione la meritano allo stesso modo le due produzioni hollywoodiane di Sorrentino: This must be the place (2011) e Youth (2015). Nel caso dei protagonisti dei due film (un ex popstar nel primo, un compositore ed un regista nel secondo), la natura delle loro ricerche ci è immediatamente mostrata nella sua effimerità. Siamo gettati nel tremendo scenario di uomini che convivono con la più desolante e devastante consapevolezza a cui un artista possa giungere, ovvero di quanto tutto ciò che le loro vite hanno costruito ed espresso sia in realtà irrilevante, insignificante.
https://youtu.be/OZkOAeBeo8Y
Uno dei maggiori omaggi felliniani di Sorrentino: un disilluso Harvey Keitel contempla malinconico le più celebri figure femminili da lui dirette in passato, ormai consapevole di quanto poco possa offrirgli il futuro.
I campi fondi e gli indugi sui paesaggi diventano parte essenziale della scena, volta a stabilire uno stretto contatto tra il personaggio e l’ambiente che lo circonda. Le due vicende prendono strade diverse, com’è giusto; tuttavia, entrambe condannano i protagonisti a vagare, ad aggirarsi tra i fantasmi del loro passato per paura di guardare negli occhi il torbido futuro che li attende. Senza più la via d’uscita delle illusioni giovanili.
Desolazione
Nello stesso periodo, Garrone produce Reality (2012) e l’atipico Il Racconto dei Racconti (2015), sua prima e unica produzione internazionale. Il primo dei due mantiene gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del regista negli anni 2000, ovvero riprese gettate al centro delle ambientazioni, coinvolte e mai distaccate, e un realismo stupefacente nei dialoghi e nei rapporti interpersonali. Oltre a, dettaglio da non ignorare, un cast attoriale composto da nomi semisconosciuti o addirittura non professionisti (il protagonista, in particolare, è un ex camorrista). Con lo stesso sguardo dei suoi primi lavori, Garrone costruisce la trama intorno ai turbamenti di un uomo, il pescivendolo Luciano, nel quale nasce e germoglia una fissazione che pian piano si impossesserà di lui: la possibilità di partecipare al Grande Fratello.
Nell’attesa della telefonata che gli annuncerà il suo ingresso in trasmissione, Luciano deforma completamente la realtà intorno a lui, distorcendola e travisandola, vittima e succube del suo maniacale chiodo fisso. L’ossessione, dunque, è ancora una volta l’elemento centrale: in Reality, l’ambizione che il protagonista si illude di poter gestire gli si insinua nelle membra e prende a sua volta il controllo, manipolando e snaturando la sua percezione del reale. Influssi della poetica di Garrone presenti, seppur in chiave favolistica, anche ne Il Racconto dei Racconti, nel quale è ancora una volta l’illusione di poter possedere ed ingabbiare la bellezza a dare il via alle tre vicende, sfocianti in macabre ossessioni e disperati tentativi di fuggirle.
2018
Si arriva così al 2018 o, più precisamente, alla primavera del 2018. Sorrentino e Garrone si affermano prepotentemente sulla scena con i loro ultimissimi lavori: Loro e Dogman. Con Loro (suddiviso in Loro 1 e Loro 2), il regista napoletano ritrae l’ingombrante figura di Silvio Berlusconi, affidandola al volto affidabile del solito Toni Servillo, mentre Dogman racconta un fatto di cronaca nera romana degli anni ’80, il delitto del canaro. Evidente, a primo impatto, il partire dal reale, dall’accaduto, per poi spingersi più a fondo e scavare la natura degli eventi colorandola con il loro oramai inconfondibile tratto. E ciò di espresso nelle loro brillanti carriere si fa nuovamente spazio negli antri di questi due ultimi lavori. A partire dal Berlusconi di Sorrentino.
L’oro
E’ un film passato da plausi unanimi a critiche feroci, questo va detto. Il regista premio Oscar sfoga interamente la sua verve espressiva, travolgendoci con immagini e colori che hanno sullo spettatore l’effetto di un caleidoscopio. Si ha l’impressione che Sorrentino abbia volutamente trascurato il lato politico, non schierandosi né condannando come forse ci si aspettava, bensì limitandosi al mostrare, al dipingere la società italiana cresciuta intorno alla figura di Berlusconi. Parentele con La Grande Bellezza che sorgono a più riprese: dalla spettacolarizzazione del vuoto del film del 2013 si è passati ad una spettacolarizzazione del vizio, dell’assuefazione, della brama dell’oro che assoggetta l’uomo al suo volere.
In entrambi i casi, è una spettacolarizzazione che nasconde un nulla esistenziale, ignorato il più possibile da un popolo schiavo dell’effimera lucentezza del materiale, che sia sesso, droga, o denaro. Ed è questo popolo, questa fauna, la vera protagonista di Loro 1, tanto che il volto di Berlusconi apparirà solamente nella parte finale e per pochissime scene.
La contrapposizione tra contorno e nucleo, tra loro e lui, è uno degli elementi più interessanti del primo film. Riccardo Scamarcio è il generale di un esercito arrivista e convinto che l’arrivare a Lui, il toccare con mano quell’irraggiungibile mondo dorato possa dare un qualche significato alle loro vite. Questo loro arrampicarsi, quest’esasperato danzare tra colori e luci viene interrotto non appena entra in scena il viso di Servillo/Berlusconi, immobilizzato dietro ad una maschera sorridente già estremamente iconica.
Perché il Berlusconi mostrato da Sorrentino non è che un’immagine. Un venditore dalle mani da Re, un commediante dal fascino medio-orientale, capace di costruirsi intorno quel circo luccicante e rintanarcisi dentro, mentre all’esterno il popolo assuefatto e ammaliato smania per poterci entrare. Perché è così; non c’è nulla di complesso, è tutto elementare, una lunghissima ed ininterrotta messa in scena. Solo un trucco. E’ un film che trascende dal lato politico poiché mostra, al di là dello stile, una società che esiste. Una società nascosta in un involucro dorato perché troppo impaurita di rivelarsi, di scoprirsi.
C(ont)rollo
In Dogman, Garrone rimane ugualmente fedele a se stesso. In una periferia romana selvaggia, il regista romano racconta la storia di Marcello, un uomo esile ed amichevole che trova nel rapporto con i cani e con la figlia l’unica traccia di purezza in grado di salvarlo dalla desolazione di quegli ambienti. Perché Marcello è, nella vita quotidiana, debole ed incapace di dominare il corso della sua esistenza.
Tenuto quasi costantemente al guinzaglio da Simone, un colosso violento ed approfittatore, il protagonista si convince di poter rigirare la natura dei fatti dopo un anno passato in galera al posto proprio del suo aguzzino. Dopo aver tentato a più riprese di esigere risarcimento per quanto accaduto, Marcello lo rinchiude a tradimento in una gabbia per cani, illudendosi in questo modo di poter riuscire a prenderne il controllo come si trovasse di fronte una bestia domabile ed innocua.
Tema del controllo, dunque, e tema della contrapposizione fisica dei protagonisti che trovano legame diretto con L’imbalsamatore. Parallelismo tra le due pellicole che offre ulteriori spunti interessanti, a partire dal motivo insito nei due protagonisti, da cui scaturirà l’evolversi degli eventi. Il Marcello di Dogman guarda lo spaventoso Simone con gli stessi occhi con cui guarda un cane feroce e rabbioso: timoroso, certo, ma allo stesso tempo affascinato, soggiogato, quasi, da una natura così diversa dalla sua. E allora, con la stessa pazienza che si concede ad un pitbull, il minuto protagonista prova ad avvicinarsi e ad avvicinarlo nonostante le continue e disgustose angherie subite. Allo stesso modo, Peppino l’imbalsamatore insegue la bellezza di Valerio, il ragazzo alto e bello, inconsciamente convinto di poterla imbrigliare, renderla sua per sempre, imbalsamarla.
Ed entrambe le illusioni porteranno ad un finale tragico. Dogman si conclude con un Marcello che, messo di fronte al terrore di veder Simone distruggere la gabbia ed esser quindi ucciso con violenza, lo colpisce alla testa, per poi, quasi senza prevederlo, causarne la morte impiccandolo con una catena fissata al muro. Il finale è iconico: per l’ultimissima volta, Marcello crede di essersi in qualche modo liberato dalla sua debolezza, conquistato il rispetto e il timore dei vicini. Aver assunto, quindi, una sorta di controllo sugli eventi che da tempo immemore lo sballottavano di qua e di là.
Ma si chiude così, con lo sguardo del protagonista rimasto solo, consapevole del vuoto oramai incolmabile che l’omicidio ha portato nel suo animo. Non più illusioni, non più aspirazioni; la desolazione interiore di Marcello e quella fisica dei paesaggi si fanno tutt’uno.
Due facce della stessa medaglia, lo yin e lo yang, due visioni che convergono verso lo stesso nucleo prendendo strade totalmente opposte. Definiteli come più vi aggrada: ciò che è certo è che i nomi di Garrone e Sorrentino sono ormai parte integrante dell’immaginario cinefilo italiano (e non solo). Che li si apprezzino o meno.