Cos’è un sogno? E cos’è un incubo? E’ un binocolo, per osservare il pianeta oscuro di desideri e tentazioni che alberga la mente sgombra di stelle; esaminare crateri e dune per disegnare la morfologia di una psiche oscura. E’ una finestra, da cui affacciarsi per osservare il brulichio nella sterminata metropoli subconscio dell’individuo; dedali di strade e palazzi diroccati, nebbie industriali e binari fantasma, a delineare un labirinto onirico. Eraserhead è una galleria da grand guignol, attraverso gli incubi del regista. Una guida turistica per Lynchlandia, uno stradario di sinapsi e neuroni; Eraserhead è un seppuku artistico: le budella in piazza, per assecondare la necessità di esprimere in maniera visiva le angosce e le ansie che attanagliano le viscere dell’artista da giovane, alle prese con un mondo sconosciuto.
All’inizio degli anni 70, David si sente un po’ come Alice che ha attraversato lo specchio. E’ entrato finalmente nel mondo fatato del cinema, ma si sente spaventato, disorientato; non sa che pesci prendere e si sente intrappolato, come se una grata lo dividesse da quella vita da bohemien che ha sempre desiderato. Il matrimonio, una bimba appena nata, e pochi quattrini per sbarcare il lunario e finanziare la sua scalata da cineasta; e allora, che fare? Un esorcismo. Imprigionare gli incubi su pellicola e costruire un freak show personale, chiamato Eraserhead; guardare la bestia che disturba il sonno attraverso lo schermo e regalare i propri demoni al padre Karras con la cinepresa.
In questo incubo, Henry Spencer vaga per la città ostile, portando sul volto i segni della spada di Damocle della vita. Lui lo sa già, lo sente, che qualcosa sta per accadere, e l’invito a cena a casa della sua vecchia ragazza non lo sorprende. E’ incinta. O meglio, è madre di suo figlio. Nato prematuro e ricoverato in ospedale. Per lui quella creatura è un alieno, ne ha anche l’aspetto; non capisce come funziona, come fare per sfamarlo o semplicemente per farlo smettere di piangere. L’unica cosa che sa, è che la sua carriera come artista è appesa al chiodo, sostituita dalle responsabilità della vita coniugale. La sua capacità di sognare e immaginare è ormai ridotta a un baccello avvizzito, da mettere sotto chiave nella scatola dei ricordi di gioventù.
Basta velleità artistiche, basta vita da bohemien. Il suo talento dovrà essere sacrificato all’altare della famiglia, in nome di un lavoro retribuito e di uno stipendio sicuro. Si sente legato al letto da lenzuola che ricordano una camicia di forza, costretto in una sessualità fredda e distaccata. E’ tutto un sogno o è la realtà? Henry non riesce a capacitarsene, si sente solo perso e oppresso dalla presenza di quello scricciolo, che gli ha riempito la casa e la vita. Il neonato è un elefante nella cristalleria dei desideri di suo padre, tutti distrutti sotto i colpi delle necessità e delle malattie; pianto dopo pianto e pustola dopo pustola, la presenza del piccolo alieno sembra occupare l’intera stanza. Unico spiraglio di calore nella casa gelida è il termosifone, dietro cui si nasconde lo spirito della casa.
Uno spirito dalla figura di donna che lo invita a unirsi a lei, nei giardini del paradiso, unico luogo dove tutto potrà andare nel verso giusto. Ma Henry non può seguirla, ormai non asseconda più la sua volontà, non ragiona più con la sua testa. E’ diventato un Eraserhead, un ingranaggio, un uomo col cervello fatto di gomma da cancellare. Non gli resta altro da fare, se non bramare dallo spioncino il calore di un corpo, come un ladro di avanzi di amore nascosto nell’ombra; e restare a guardare mentre quel pianeta oscuro che abitava la sua mente cade a pezzi.
La storia, disse, è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi.
James Joyce – “Dedalus”
Henry è il nostro Stephen Dedalus, l’architetto che costruisce il labirinto della mente di un artista. Ed Eraserhead è il filo di Arianna, che ci guida in questo marasma di incubi e deliri, di paure e insicurezze che fanno vacillare l’artista di fronte alla grandezza del suo compito. Dall’inadeguatezza dell’essere umano di fronte al miracolo della vita, che tutto mette in secondo piano; al terrore del foglio bianco, dell’opera compiuta che fagocita quella ancora da compiere, in una sorta di cannibalismo creativo. Dalla paura di mettersi a nudo di fronte al pubblico, di dare in pasto a lupi scellerati la propria intimità, per il semplice gusto di vederla oltraggiata; all’angoscia di tagliare le bende che legano insieme i fotogrammi, per esaminare in profondità l’opera e scoprirla banale, fatta di carne e sangue come tutti.
Il labirinto rappresenta una sfida, una vittoria e una salvezza. La sfida di perdersi nelle proprie idiosincrasie, di innamorarsi delle proprie contraddizioni, senza che la nostra fallibilità prenda il sopravvento. La vittoria nei confronti del mostro che abita gli abissi del nostro inconscio, che ci spinge sul baratro dell’autodistruzione, che affoga la nostra immaginazione in un mare di paure. La salvezza nelle ali di Icaro, nella capacità di elevarsi al di sopra della mortalità; nella forza di costruirsi ali di sangue e frattaglie, pur di sollevarsi da terra e puntare al sole. Ogni essere umano è un artista, e ogni artista ha dentro di sé un labirinto da affrontare. Il labirinto di David Lynch è Eraserhead.