Persona – Dal silenzio di Dio al silenzio dell’Uomo
Il silenzio è lo specchio dell’anima; gli occhi sono solo uno spioncino da cui ogni persona può sbirciare le angosce che attanagliano l’essere umano. L’anima si ascolta nello specchio del silenzio, si abbandona in una spirale di pensieri e parole per scoprirsi e riconoscersi.
Come il silenzio di una camera buia, pregna di sogni e colma del delirio dell’inconscio. Occhi chiusi, l’anima procede imperscrutabilmente tra i solchi della mente per poi risvegliarsi alla deriva nei mari angoscianti dell’esistente. Oppure come il silenzio di una chiesa vuota, perché si sa che le divinità non rispondono mai alle domande; il suono di un prete solo orfano di dio e di fedeli che riconosce la profonda inutilità della fede dal suo pulpito sul vuoto. Silenzio in sala: inizia lo spettacolo.
Elisabeth Vogler protagonista di Persona (1996), il capolavoro di Ingmar Bergman, è un’esperta nel silenzio. Lo affronta ogni sera, sul palco di un teatro, indossando di volta in volta costumi diversi per affabulare un pubblico adorante.
Nasconde i suoi occhi mettendo sul volto una maschera, quella dramatis persona dei drammi latini da cui non traspare l’essere, ma solo la sua rappresentazione.
Elisabeth è stanca di farse e di ruoli, non ne può più di impersonare Elettra. Non vuole più essere schiava di un’idea di famiglia che la vorrebbe angelo del focolare, sostegno di un marito che è anche fratello, assassino della madre. E non vuole neanche più dover sottostare a quegli dei che, riconoscendo in suo marito Oreste l’eroe, ne designano la santità, sancendone la sacralità della progenie.
Meglio il silenzio. Meglio morire spiritualmente agli occhi degli altri piuttosto che dovere assecondare i capricci di un pubblico infantile e capriccioso, che ne accarezza l’icona come un bambino implorante. L’attrice decide di lasciare la scena, per far subentrare la vita; sceglie di far venir fuori la sua persona a scapito dei personaggi; si abbandona a quella che tutti considerano una follia e si lascia chiudere in ospedale pur di perseverare.
Il rifiuto di parlare non è un blocco psicologico, ma una scelta deliberata.
Nella clinica l’attrice diventa suora del dio dello spettacolo, prende velo e voti di solitudine e silenzio. Elisabeth si rinchiude in un isolamento invisibile pur di rifuggire i ruoli e le attese che il mondo vuole affibbiarle; smette di parlare e di interagire, convinta che questo basti a salvarla. Determinata più che mai, nella sua prigione, a ricomporre il puzzle della sua persona.
La speranza si rivela presto vana. Perché i medici, con l’obiettivo di farle cambiare idea riguardo a quel silenzio, le concedono un periodo di svago e isolamento in una villa al mare, affiancata da un’infermiera dolce e di belle speranze, Alma. Affascinata e quasi rapita dal fascino e dalla personalità dell’attrice, Alma troverà in quel silenzio il rifugio di un fiordo sicuro e nascosto: di fronte alle reticenze di Elisabeth a parlare, l’infermiera solleva il velo dell’intimità.
Smette di riempire la conca del silenzio con parole sterili, vuote; mette a nudo la sua persona, rivela la sua visione del mondo e i suoi segreti più oscuri.
Il palco irrompe nella vita. Elisabeth è di nuovo soverchiata dalle richieste insistenti di una bambina capricciosa, Alma, che cerca nella sua comprensione materna o in un tocco quasi erotico la soluzione della sua stessa esistenza. Il silenzio è prima grembo, poi abbraccio, poi stretta gelida di morte; messa di fronte allo specchio di indifferenza e reticenza di Elisabeth, Alma è dapprima incuriosita e poi affascinata, ma a lungo andare frustrata.
L’infermiera si mette a nudo, si abbandona completamente tra le braccia dell’attrice, convinta che il suo silenzio in realtà celi comprensione e attenzione. Questo però non le basta, vorrebbe qualcosa in cambio. Ha bisogno di un cenno per sentirsi viva, consistente. Si torce l’anima al pensiero di non esistere, come se gli occhi di Elettra fossero quelli del mondo intero. Orfana del divino, cerca nell’umano un dolce conforto, trovando invece una persona altrettanto insicura e spaventata.
Ingmar Bergman: «Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv ed a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: «Ma Liv, sembri così strana!» E Liv disse: «No, sei tu, Bibi… sembri davvero strana!». Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso».
Alma è sgomenta all’idea di sparire come essere umano, liquefatta in un mare di convenzioni borghesi, fatto di matrimoni convenienti e figli. Cerca disperatamente nell’altra una conferma, un cenno che le possa permettere di esistere, fino a impazzire. Messa di fronte allo scherno e all’indifferenza, la psiche di Alma va in pezzi, si sdoppia: diventa al tempo stesso vittima e carnefice.
Le due inquiline sono unite dalla paura incommensurabile dell’oblio, della morte. Elisabeth può tutto, può resistere a qualsiasi spinta o sollecitazione, barricata nel suo silenzio, ma non può morire, non può rendere eterno il suo mutismo attraverso il sacrificio della carne.
Si avventurano in un labirinto onirico alla Karpman, avvicendandosi e compenetrandosi tra sogno e realtà. Fino ad arrivare al centro, dove trovano il minotauro, metà persona e metà bestia. Un volto per due facce, un’esistenza per due anime. La realizzazione dell’aberrazione in cui si è tramutato il loro rapporto le spinge a dividersi. Alma rifiuta di salvare Elisabeth, di prendere sulle sue spalle il ruolo di madre e moglie che l’attrice rifiuta, crescendone il figlio e amandone il marito; Elisabeth dal canto suo non vuole essere attrice o maschera, né tanto meno madre, di carne o mente non importa.
L’unico modo per salvarsi è scappare, tornare alle loro vite tanto denigrate; ritornare nell’unico, nel sé e rifugiarsi nel caldo giaciglio delle convenzioni.
Il teatro rompe di continuo la diga dell’esistente e annega la vita sotto un fiume di maschere, personaggi. L’obiettivo della cinepresa è essa stessa uno specchio in cui guardare, a cui parlare o strappare una foto tra i flutti; il dramma di Elisabeth e di Alma non è rappresentazione, ma crisi esistenziale e umana. Rappresenta l’archetipo di una nuova angoscia di vivere fomentata dal silenzio profondo del divino. La perdita di una speranza in una vita ultraterrena, non compensata da una paragonabile crescita dell’es.
Ingmar Bergman: «Ci sono poeti che non hanno mai scritto, perché plasmano le loro vite come poesie; attori che non recitano, perché la loro vita è un alto dramma. Ci sono pittori che non dipingono e cineasti che vivono i loro film, perché non abuserebbero mai del loro dono materializzandoli nella realtà».
Sotto il bombardamento della tecnologia e delle aspirazioni, la persona ne esce a pezzi, tranciata di netto come la pellicola di fronte al collasso di Alma. L’altro diviene solo uno scoglio su cui poggiarsi per non annegare, naufraghi in un mare di menzogne. L’unica speranza è la vita stessa, la spinta a creare e crearsi, dietro e davanti la macchina da presa; agitarsi come un branco di formiche nella pelle di un serpente morto.