Salò o le 120 giornate di Sodoma – Cinque chiavi di lettura

Matteo Melis

Maggio 11, 2020

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Non c’è nulla di definitivo, di esplicito o di nettamente definibile in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), quindi proporre un’analisi che goda di una certa fissità è non solo impossibile, ma anche inutile. L’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, piuttosto, vive in transito tra una moltitudine di allegorie che vanno a costituirne una più ampia e dai contorni decisamente vaghi. Questo accade perché il poeta e regista ha voluto inserire così tante influenze, richiami e tematiche da non permettere una fluida interpretazione del testo. A dire il vero, l’opera appare volutamente illeggibile. 

Inoltre, il taglio utilizzato nel film non gli conferisce una maggiore agilità, anzi, Pasolini ha optato per uno stile documentaristico, fortemente distaccato e oggettivante, una scelta che ha spesso intrapreso nella sua carriera.

In più si aggiungono ampi momenti visivamente prosaici e volutamente indigeribili. Il film è ricco di lunghi piani sequenza a camera fissa, ma anche quando interviene il montaggio, le scene non diventano di certo più frizzanti. La casa nella quale è ambientata la vicenda è decadente, i colori sono cupi, le atmosfere ondeggiano tra l’asettico fino al putrido. Nulla in Salò è bello, è un’opera che non vuole in alcun modo restituire un’esperienza cinematografica piacevole, piuttosto tende a conformare il piano visivo e quello contenutistico per far sì che il disgusto all’apparenza coincida col disgusto delle riflessioni sollevate dalle immagini.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)

Senza dubbio questo intento viene raggiunto, visto che Salò rappresenta una delle vette italiane in materia di coraggio, complessità e potenza dei temi trattati. Proprio per via di questo sua illeggibilità, proviamo a proporre qualche chiave di lettura del film attraverso cinque delle allegorie visibili, ognuna appartenente ad ambiti diversi. Nessuna esclude l’altra, al contrario si integrano e sembra che man mano ognuna sia il contenitore di quella successiva.

Salò, Dante e il marchese de Sade – La letteratura

Il film è un adattamento del romanzo Le 120 giornate di Sodoma di Donatien Alphonse François de Sade, del 1785. Pasolini trovò un’ispirazione dantesca nel libro, perciò decise di conferire alla sua opera una struttura somigliante alla Divina Commedia, inserendo le tematiche a lui care, ma al contempo riportando con una certa realtà le crude pratiche sadiche. Ecco perché il film si articola in quattro capitoli: Antinferno, Girone delle manie, Girone della merda e Girone del sangue, con dei nomi che lasciano poco spazio all’interpretazione. Proprio come Dante, anche Pasolini sfrutta in maniera maniacale la simbologia numerica, ma al numero tre preferisce il quattro: nei quattro capitoli si parla di otto ragazzi di famiglie antifasciste, quattro per ogni sesso, che vengono rapiti dalle SS a Salò e reclusi in una villa per subire le torture di quattro uomini, i quali vengono intrattenuti da quattro donne, tre narratrici e una pianista.

Il Monsignore, il Duca, l’Eccellenza e il Presidente in Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)

Rispettando questo tipo di accostamento, possiamo scorgere in due modi l’inasprirsi delle pratiche corporali, uno ascendente e l’altro discendente. Se vediamo l’allegoria dalla parte di chi tortura, allora la possiamo leggere come un’ascesa. Il Girone delle manie, quello degli stupri e dei giochi sessuali, è l’inferno, essendo immediatamente successivo al rapimento e alla selezione dei ragazzi, che costituiva l’antinferno. Il film scorre verso il Girone della merda, toccata, venerata e ingerita, e arriva al Girone del sangue, le vere e proprie torture fisiche: il paradiso per chi tortura. Ma non è un caso la scelta di chiamare “girone” ogni episodio. Infatti, per coloro che subiscono le torture quest’esperienza non può che essere una discesa tra le bolge infernali.

Salò, il Duca e il rifiuto del nazifascismo – La politica

I quattro personaggi maschili hanno lo stesso nome del romanzo di de Sade: il Duca, il Presidente, il Monsignore e sua Eccellenza il presidente della Corte d’Appello. È geniale come Pasolini, pur mantenendo i nomi originali, abbia strutturato questi personaggi e i rapporti tra loro così da emulare lo stato fascista. Sembra che tra i padroni ci sia una relazione gerarchica: anche se le decisioni importanti, come determinare quale tra i deretani dei torturati sia il migliore, vengono prese rimettendosi alla votazione, c’è sempre un uomo che pare comandare sugli altri, ovvero il Duca. L’assonanza con “duce” è già di per sé esplicativa, la sua alterigia da leader tirannico e la scelta di Salò, roccaforte fascista, fugano ogni dubbio. Infatti, nella votazione citata sopra vince il ragazzo proposto dal Duca. Gli altri stanno a guardare. 

La giustizia è lasciva, la religione collusa, il presidente, che per sua carica dovrebbe essere al comando, è il più infantile e deviato tra tutti.

È innegabile, insomma, come la più aspra delle invettive contenute in Salò sia indirizzata al fascismo e alla sua natura autoritaria e liberticida, volta a torturare il cittadino.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)

Sadismo non è solo trarre piacere dal provocare dolore a qualcuno, ma anche farlo con metodo e sistematicità. La critica quindi si allarga anche al nazismo e alla sua orrenda battaglia verso il diverso. In generale, a essere attaccata è l’arbitrarietà del potere. Laddove questo può essere utilizzato in qualsiasi modo senza controllo, lì c’è del putrido. I militari a protezione dei padroni sono un esempio di come Pasolini rappresenta il meccanismo del potere: sono schiavi felici del proprio mestiere, pronti a farsi comandare o ad accoppiarsi con chi lo detiene, forti con i deboli e docili con chi dà loro gli ordini. L’incubo dello stato militare.

Salò: La vessazione del debole – il capitalismo

«Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica, e chi scava. Tu scavi.» diceva il Biondo di Sergio Leone. Ho sempre trovato che questa frase, scevra dal contesto in cui è inserita, sia un’ottima descrizione della società capitalista. Una società costruita sullo sfruttamento di chi ha la sfortuna di essere indifeso per l’arricchimento di chi è già in una situazione di vantaggio.

Così come per il fascista, anche il capitalista sfrutta il potere in maniera arbitraria, pensa e scrive le regole del gioco senza contraddittori. La sua goduria è in perenne ascesa mentre la sofferenza del torturato è in caduta libera. La visione pessimistica dell’autore riguarda l’intero assetto sociale, totalmente dedito al sacrificio e alla corruzione del corpo, all’universo dei sensi, al compiacimento individuale. E anche il cinema non è escluso dal meccanismo.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975), spiegazione

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)

La mortificazione del corpo – l’arte e il consumo

La società dei consumi ha corrotto anche l’arte. I quattro uomini mettono in scena qualcosa di somigliante a degli spettacoli teatrali, così come a loro volta sono intrattenuti dai racconti delle narratrici. I padroni-registi, quindi, usano il corpo degli schiavi-attori per la produzione di scene indecenti, di qualcosa che con l’arte ha poco a che fare. Il corpo è merce per strappare biglietti, per fare pubblicità che stimolino gli acquisti, per creare divi che fidelizzino il pubblico. Ecco perché i ragazzi scelti da Pasolini non rispondono a degli ideali di bellezza, ma sono persone normali, con i loro pregi e difetti fisici, quelli che la società del consumo vuole nascondere, rimpiazzare e uniformare.

Il cinema, nonostante sia uno dei frutti più preziosi dell’ingegno umano, è spesso calato nel meccanismo e non si tira fuori dall’orrore, anzi ne prende parte, seguendo le sue leggi.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975), spiegazione

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)

La decadenza dell’intellettuale – l’autocoscienza e il pessimismo cosmico

L’ultimo passo è talmente crudo e profondo da sembrare irreversibile. Pasolini gli dedica l’ultima lunga sequenza del film, quella nella quale i padroni sono seduti nelle loro stanze e osservano divertiti con un binocolo i ragazzi che, nello sterrato di fronte alla casa, vengono brutalizzati in ogni maniera. Quella persona sembra diventare il simulacro di se stesso: l’intellettuale che scruta passivamente lo spargimento di sangue di fronte a lui.

Dopo aver offerto una lettura lucida della società che lo circonda, Pasolini quasi ammette di essere incapace di agire. Coloro che detengono il potere culturale dovrebbero essere i motori del cambiamento, non degli osservatori isolati in una stanza schiavi del proprio voyeurismo. La loro decadenza è segnalata da quella della casa, nonché quella delle torture, figlie della mancanza di qualsiasi tipo di moralità in chi le perpetra. Grazie all’uso delle soggettive, il regista mette anche noi nella stessa posizione, diventiamo spettatori che assistono seduti e inermi al degrado, capaci unicamente di comprendere, disgustati e immobili.

Il pessimismo con cui Pasolini permea Salò o le 120 giornate di Sodoma è universale, investe ogni anfratto dell’assetto sociale e progressivamente trasforma un film che inizia come provocatorio e si conclude come un devastante trattato nichilista.

Leggi anche: La Ricotta – Storia di sogni, morte e povertà nel corto di Pasolini

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