Anime Nere e Anime Spietate

Tommaso Paris

Marzo 24, 2021

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Anime Nere e Anime Spietate

«Pòlemos è padre di tutte le cose» diceva Eraclito.

La divinità della guerra, la personificazione del conflitto, dunque, si rivela fondamento, terreno battuto sul quale insediare le proprie radici. E qui, allora, entra in gioco la madre, madre terra, che in questa storia assume le sembianze della Calabria.

Ad accompagnare l’umile opinione di questo narratore, ci sarà la voce di Paolo Ferraina, fotografo e autore calabrese, un’anima non nera e nemmeno spietata, ma tanto affamata.

Paolo Ferraina: «In questi giorni c’è il maxiprocesso in Calabria, aula bunker di Lamezia. Sembra il sequel del maxi-processo a Palermo, ma a differenza di allora oggi in TV non se ne parla perché… beh, fatevi due conti e arrivateci da soli…».

Da questo incontro, conflittuale, ma originario, eternamente dialettico, ma mai realmente sintetico, emergono due anime fraterne, tanto vicine quanto distanti, con uno stesso inizio, ma una diversa fine, ancestrali e contemporanee, tragiche e mitiche.

Francesco Munzi e Renato De Maria, i veri padri artistici di queste due opere cinematografiche fraterne – Anime nere (2014) e Lo spietato (2019) -, parlano di anime tragicamente nere e anime miticamente spietate.

Paolo Ferraina: «Però io voglio parlarne a modo mio. Lascio narrare al cinema ciò che non possiamo discutere noi, non essendo né procuratori né criminali».

Nel conflitto nascono, con il conflitto si incontrano e attraverso il conflitto si perdono, proprio come due fratelli che intraprendono strade diverse, e la cui identità comune e irrisolta emerge proprio nella radicale differenza.

“Anime Nere” di Francesco Munzi

Paolo Ferraina: «Sono pellicole fraterne. Il primo è fermo sulla sua filosofia dando peso all’archetipo; il secondo è glam e pulp, piscia su ogni cosa e non per marcare il territorio, bensì per divertimento e individualismo, perché la famiglia non esiste e non esisterà».

Già, perché Anime nere è la storia tragica di tre fratelli, che da Milano scendono verso le terre natie dell’Aspromonte per sistemare un affare di famiglia, in un mondo fuori dal tempo, vivo di tradizioni, culti e rituali propri di un microcosmo dalle sue prassi sociali, composto da regole non scritte, ma dialettali.

«Quella descritta è una dimensione sociale che è diventata di fatto un insieme di gabbie. Nel film diventa una gabbia il clan, i rapporti di affari e i legami familiari. È una gabbia persino la quotidianità. Gabbie nelle quali si consumano le vite e le solitudini sia individuali che collettive».

(Francesco Munzi)

Lo spietato, invece, raccontando la costante ascesa-discesa di Santo Russo, compie il viaggio inverso, dalla Calabria alla conquista di Milano degli anni ’80, abbandonando la tradizione e approdando alla deriva del mondo nuovo, nella ricerca squisitamente individualistica dell’unica forma di potere che si stava affermando e si sarebbe affermata: il potere economico.

«Santo Russo insegue la ricchezza, ma anche un riconoscimento sociale che non ha mai avuto. Lo fa alla sua maniera: un gangster che si sente un manager, alla pari di Agnelli, il suo mito. E vuole essere come loro, come i ricchi di Milano, sapendo perfettamente di non essere come loro».

(Renato De Maria)

Riccardo Scamarcio ne “Lo Spietato”

Già, perché Lo spietato è la classica storia di un gangster, di un personaggio che dal nulla è riuscito a costruirsi un proprio mondo, fatto di amore e violenza, di eros e thanatos, donando la sua vita per assomigliare a uno di loro, per mettersi la maschera del padrone, aderendo a quel canone di felicità “deciso” dalla borghesia capitalistica milanese, che ha condannato l’uomo all’ideologia del successo economico.

Paolo Ferraina: «Cosa ci raccontano? Umani non giusti, non buoni e non risolti… In fondo chi lo è?! Umani che hanno scelto il male perché il bene non esiste, o meglio sanno che il bene viene deciso dal male che vince».

L’ascesa e la discesa di Santo Russo segue un arco narrativo lineare, richiamandosi alle classiche e mitiche considerazioni vogleriane de Il viaggio dell’eroe, o dovremmo dire dell’anti-eroe, classificandosi all’interno di un orizzonte cinematografico proprio del grande universo gangster.

Seguendo i passi dei maestri – poiché come disse Tarantino, i buoni artisti copiano, ma i grandi artisti rubano -, ne Lo spietato, dalle ambientazioni al puro accadere narrativo, c’è una forma di mitizzazione del personaggio, un’elevazione trascendente, un’eternizzazione simbolica di un’anima votata al solo interesse personale ed economico, di un’anima imprenditoriale e criminale, di un’anima spietata.

Santo Russo: «Nella Milano da bere, vince chi ha più sete».

Santo Russo, dunque, si mostra come una sorta di Tony Montana dello Scarface di De Palma che dalla prigionia si ritrova sul tetto del mondo, narrato da se stesso come l’Henry Hill di Quei bravi ragazzi scorsesiani, un po’ estraneo alle feste tradizionali fuori sede come ne Il padrino, così come alle nuove forme di arte contemporanea alla The square, e spesso correndo in fuga alla Trainspotting o in macchina alla Tarantino.

In questa forma di citazionismo di matrice post-moderna, intelligente e funzionale, persegue l’arco narrativo di Santo Russo che, seguendo la lezione di Vogler, nel finale si mostra pronto per riiniziare una nuova vita. Perché alla fine, esattamente come la parabola del protagonista di Scorsese, Santo Russo è un bravo ragazzo, e infatti ottiene una conclusione, magari non lieta, ma pur sempre una conclusione.

Riccardo Scamarcio ne “Lo Spietato”

Anime nere, invece, non ha una fine, e si distanzia enormemente dalla forma stilistica fraterna. Il film di Francesco Munzi, infatti, decide di lavorare per sottrazione, rimuovendo ogni residuo fiabesco dalla storia narrata e avvicinandosi alla realtà documentaristica, raccontando la storia di quattro personaggi legati al mondo della ‘ndrangheta: Luigi, trafficante di droga, Rocco, imprenditore e riciclatore di denaro sporco, Luciano, pastore rimasto in Calabria, e Leo, figlio di quest’ultimo.

Il regista ricerca una demitizzazione, sia narrativa che stilistica, abbandonando l’ideologia di un unico protagonista, frammentando così il punto di vista della storia che diventa essenzialmente pluriprospettica.

«Nel film non si vedranno mitizzazioni dei criminali o fascinazioni pericolose, si vedrà il dramma, il tradimento e l’isolamento che certe scelte portano. Si traccia un destino di sconfitta, sono anime che non si salvano, quelle anime non sono la Calabria, ma solo una piccola parte della Calabria che alla fine prende coscienza di quello che ha fatto ed esorta tutti a non emulare vite sbagliate, perché non hanno nulla di mitico».

(Francesco Munzi)

Rinunciando al mito, tuttavia, Anime nere sfocia nella vera e propria tragedia. Se ne Lo spietato i riferimenti culturali erano propriamente contemporanei e cinematografici, in Anime nere la ricerca avviene a pochi passi dalla Calabria, ma in un tempo lontano: nella Grecia Antica di Eschilo e Sofocle.

Nella tragedia attica, emersa dal conflitto dialettico tra Apollo e Dioniso, pòlemos è protagonista; così come lo è in Anime nere, rivelandosi medium di ogni rapporto relazionale, dai tre fratelli, al padre Luciano e figlio Leo, dalle cognate calabresi e milanesi, all’amico di Leo svelatosi traditore, ma soprattutto all’eterno conflitto tra le famiglie rivali, che si contendono l’onore e le terre dell’Aspromonte.

A differenza de Lo spietato, il film di Munzi non ha una vera e propria fine, anche se tuttavia la si può immaginare. In quanto vera e propria tragedia antica, dopo la morte di Rocco e del giovane Leo, il più grande dei fratelli, come fosse incarnato oltre che da una dilaniante sofferenza, dalla volontà di una fatalità cieca e risolutiva, brucia simbolicamente la foto del padre, prima vittima di questa guerra tra famiglie, per poi concludere la storia uccidendo il proprio fratello e, infine, puntandosi la pistola alla tempia.

anime nere

Il figlio Leo e il padre Luciano in “Anime Nere”

Attraverso il loro conflitto, tuttavia, Anime Nere e Lo spietato trovano nel carattere della hybris propria dei loro personaggi un elemento centrale che li accomuna: tragici e superbi, pronti ad affrontare la situazione nella quale sono stati gettati, tentando sempre e comunque di andare al di là di sé e oltrepassando la propria ineliminabile finitezza.

Paolo Ferraina: «Sono agenti della paura, conoscono le potenzialità della violenza e non la nascondono sotto il tappeto, sotto lo stesso tappeto, perché a fine giornata, ai fratelli non resta che tornare a casa… Nonostante ciò, non sono loro i più fortunati, la vera fortuna è dall’altra parte dello schermo, quella del cinema e di noi spettatori».

Ma mentre Lo spietato assume le forme di una tragedia mitica in chiave moderna, in cui protagonista è una realtà soggettiva, libera e necessitante di determinarsi da sé, le cui sventure e conseguenze sono puro frutto e risultato individuale, Anime nere, invece, richiamandosi a entità arcaiche e ancestrali, ha come fondamento una forma di eticità collettiva, in quanto ancorati a famiglia e microcosmo sociale, conferendo un ruolo centrale alle possibilità di un nefasto destino.

E ancora, dunque, pòlemos è protagonista, il conflitto tra una tragedia antica e una moderna, tra anime nere e anime spietate; come lo scontro dell’Antigone di Sofocle, nella quale Antigone – rappresentante della tradizione religiosa e archetipica greca – si oppone a Creonte – nuovo re di Tebe, simbolo della nuova realtà delle leggi dello stato – in un conflitto di due essenze in un certo modo uguali e opposte che dovranno entrambe soccombere per il volere del destino.

Anime Nere e Lo spietato, come veri e propri fratelli, si rivelano essere due facce della stessa medaglia, profondamente diverse, ma essenzialmente simili.

Paolo Ferraina: «Quindi ora sedetevi e godetevi il trailer immaginando di avere una pistola puntata dietro la testa».

Un trailer realizzato da Paolo Ferraina:

Santo Russo: «ça va sans dire».

 

 

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