Quest’anno l’abbiamo atteso a lungo, Dune. Forse troppo. Finalmente, dopo numerosi ostacoli e rallentamenti, i cinema hanno avuto l’occasione di proiettare la fantascienza proposta da Denis Villeneuve.
Dopo un lungo periodo di attesa e anni d’indiscrezioni, il film tratto dai romanzi di Frank Herbert è arrivato, come riadattamento della pellicola di David Lynch del 1986.
La presentazione a Venezia per la 78esima edizione della mostra d’arte cinematografica, durante la quale il brillante cast ha dato il meglio di sé, ha anticipato l’arrivo del film nelle sale italiane a metà settembre.
Una doverosa premessa è necessaria prima di aprire la riflessione vera e propria: sia dai trailer che dalle anticipazioni date da Legendary, era prevedibile aspettarsi un’opera di questo tipo, sospesa, esteticamente dettagliata seppur incompiuta, caratterizzata da dialoghi impostati in modo sublime, e tanto più perché sembrano inconsapevoli di esserlo.
Per coloro che il cinema non l’hanno più visto a causa della pandemia, dell’attesa per i vaccini e per i Green Pass, Dune sembra essere una vera e propria benedizione calata dall’alto, una possibilità tanto rara quanto preziosa per allontanarsi dalla nostra Terra, sofferente e ricco di sofferenza.
Il futuro mostrato da Villeneuve non è migliore, chiaramente, ma ha gli elementi narrativi per garantire all’uomo la possibilità di ri-costruirsi dopo un reale così inauspicabile.
Dune: Ereditare il potere

La prima costruzione che salta all’occhio guardando Dune è quella delle relazioni di potere tra i personaggi, una gerarchia antica ma ancora riconosciuta. Indipendentemente dalla lettura del libro, emergono i membri più importanti della nobile famiglia Atreides e gli ufficiali più affidabili del Duca Leto.
Da questo presupposto nobiliare la trama di Dune si evolve, lasciando sullo sfondo la spiegazione minuziosa e dettagliata dei rapporti tra le diverse casate, i pianeti e la centralità dell’Imperatore. Ha dignità di esistenza, questa storia, rappresentata in un modo non solo degno, ma anche magnifico. Producendo un sentimento di stupefacente meraviglia, chi conosce questo universo ne ammira la solennità, la sua distaccata freddezza, nobile e al tempo stesso confortante.
Nel 10191, l’Universo è costellato dalle stesse difficoltà che affliggono attualmente la realtà umana: interessi personali, politica, corruzione e violenza sono il minimo comune denominatore della saga di Dune, come del nostro presente.
Manipolato dai fili del sangue e del destino, il giovane Paul Atreides sembra un burattino costretto a diventare grande e ad assumersi responsabilità su ogni fronte. La madre lo inizia alla via della Voce, un’arma magica telepatica particolarmente potente appresa grazie al culto Bene Gesserit. Invece, il padre, più reale e ancorato alle necessità della famiglia, rappresenta per lui un ideale tanto irraggiungibile da sembrare indesiderato.
La ricostruzione che Villeneuve offre della faida tra le casate Harkonnen e Atreides è tanto epica quanto attuale: il duca e suo figlio sono figure che si devono confrontare loro malgrado con il tema dell’ecologia, attraverso uno storytelling a tratti effimero ma comunque efficace.
Dune: L’estetica dell’esilio

La modalità narrativa tipica di un’immaginazione psichedelica che Villeneuve celebra in questo film non è unica nel suo genere, perché anche Arrival aveva lasciato intravedere prospettive simili.
Sebbene l’accoglienza del film sia stata complessivamente positiva, è indubbio che il pubblico sia rimasto diviso dopo la visione di Dune. In un modo o nell’altro, infatti, si tratta di un kolossal epocale riproposto decenni dopo, letto dal regista quando era appena adolescente.
La cura nei dettagli celebrata da Herbert è resa magnificamente dalla maestria di Villeneuve, ed è forse nella rappresentazione degli ambienti che il messaggio della sofferenza della famiglia Atreides viene trasmesso meglio.
Dopo il tradimento ad opera degli Harkonnen e dell’Imperatore, infatti, tutti i sudditi del Duca Leto intraprendono questa personale e collettiva lotta per la giustizia. La costruzione della saga ricorda uno stampo quasi ellenistico, una fantascienza antica e al tempo stesso ipermoderna che sembra ritrovare nuova linfa.
Dopo la sconfitta e l’assassinio di suo padre, come l’omerico Paride, Paul Atreides deve fuggire, e il luogo più inospitale si rivelerà il più accogliente. Qui, infatti, il giovane eroe e sua madre devono farsi valere per essere accettati tra le fila dei Fremen, guerrieri indigeni del deserto, capaci di convivere con i giganteschi Vermi della Sabbia.
Il contesto ostile che li circonda – alimentato dalla guerra politica che circonda la Spezia, una sostanza incredibilmente potente ma assuefante – è quello di una storia forgiata ma non ancora conclusa. La divisione del film in due parti voluta da Villeneuve è determinata proprio dalla necessità di rappresentare nella maniera più dettagliata possibile l’originale storia di Herbert.
Dopo il rito d’iniziazione, un combattimento all’ultimo sangue sviluppato con tutti i limiti di una narrazione parziale, Paul Atreides viene temprato e formato, e l’esilio diventa la sua eredità. In un intreccio poetico tra passato, presente e futuro, le sue resistenze diventano le sue nuove possibilità. Il suo retaggio nobiliare, precedentemente la sua condanna, può diventare la possibilità concreta della rivalsa della sua casata.
In questo chiasma epico entrano in gioco fattori che Villeneuve approfondirà nel secondo (eventuale) episodio: dalla profezia del Bene Gesserit al rapporto con l’Impero, passando per altre relazioni interstellari.
Dune: Il ruolo della telepatia

Al di sopra della realtà violenta e cruda della guerra, del sangue e del tradimento che orbitano intorno alla scaltrezza politica, c’è solo la metafisica relazione telepatica che unisce Paul a Chani, la Fremen interpretata da Zendaya.
I due giovani sembrano essere uniti da una forza che li trascende e che non riescono ancora a comprendere chiaramente. Come il resto del film, anche questo sentimento volubile e umbratile sembra anelare a una concretizzazione più intensa, motivo per cui Villeneuve si dimostra ancora una volta furbo e lungimirante.
La fenomenologia ha poco a che fare con la bellezza di Dune. Legare uno dei temi caldi del pensiero del Novecento alla rappresentazione di vita, ragione e sentimento che questo film offre potrebbe sembrare un’operazione forzata, ma come al solito non è negli intenti di questa pagina operare associazioni di tipo riduzionistico tra teorie e opere.
Solo la connessione tra i due protagonisti consente una timida speculazione sul concetto di telepatia, così com’è inteso dal filosofo francese Merleau-Ponty. Una spinta intersoggettiva inconscia all’unione tra le singolarità nella loro radicale differenza.
Chani e Paul vivono distanti, non si conoscono eppure sembrano voler conoscersi, e quando s’incontrano è come se si conoscessero già.
Concludere questo contributo sembra quasi un’offesa, poiché Dune stesso nasce per non concludersi. Laddove quell’universo (metaforicamente nostro) ci lascia in attesa di scoprire se un seguito dell’avventura di Paul Atreides prenderà vita, quello che ci resta da imparare da una storia come questa non riguarda solo la fantascienza e la sua bellezza, ma anche, forse, quanto la bellezza stessa possa essere concreta.
Con tutto il cuore e con tutta la mente, in maniera quasi cosmica seguiamo l’anelito di Villeneuve, e speriamo che giunga presto il tempo in cui Dune: Parte 2 si palesi a noi dall’alto della sua bellezza sospesa.