Métisse (1993) di Mathieu Kassovitz – lo stesso regista del suo più famoso La Haine (L’odio, 1995) –, quinto appuntamento con la nostra rubrica Les Triangles Amoureux nella storia del cinema francese, è un film che utilizza lo strumento narrativo della triangolazione amorosa per mettere a nudo alcune dinamiche sociali. Difatti, si potrebbe leggere l’ausilio del triangolo amoroso non come il vero e proprio perno centrale dell’opera, ma come il mezzo per raccontare qualcosa d’altro rispetto a ciò che esso rappresenta simbolicamente.
Per un confronto sull’utilizzo di questo strumento narrativo basti pensare, per esempio, al parallelo per contrasto con film più datati come Jules et Jim di Truffaut (1962) o più recenti come Carne trémula (1997) di Almodóvar. Nel primo vediamo il tentativo, insito negli schemi narrativi tipici della Nouvelle Vague, di approfondire esistenzialmente la relazione dei tre personaggi che compongono il rapporto amoroso, mettendo da parte la dimensione sociale e collettiva che essi rappresentano. Stesso discorso rispetto al secondo film in cui, seppure più in profondità, a un livello relazionale, Almodóvar sonda la dimensione più carnale e più com-passionevole della relazione amorosa, foss’anche triangolare o quadrangolare.
Con questo film di Kassovitz siamo invece gettati in un continente di senso diverso, in cui la funzione del triangolo amoroso assume tutt’altro significato. Evidentemente al regista francese non interessa qui tanto scandagliare la natura, la sostanza, l’essenza psicologica della relazione triangolare, ma servirsene per lanciare un messaggio o, tutt’al più, per produrre un artificio narrativo utile a rappresentare un simbolo, un emblema culturale prima ancora che soggettivo e personale.
D’altronde lo stesso Kassovitz era figlio di madre cristiana e padre ebreo e non mancano, in Métisse, riferimenti biografici alla sua vita.
La trama è al contempo vivace e già conosciuta (non ripropone propriamente qualcosa di nuovo dal punto di vista topologico): due uomini, Jamal e Felix (interpretato dallo stesso Kassovitz) hanno una relazione con una donna, Lola, la vera meticcia del film, che si scopre essere incinta. La gestazione di questo bambino è l’alibi che Kassovitz utilizza per mettere a confronto i due protagonisti maschili, Jamal – nero ricco, di famiglia agiata – e Felix – bianco povero in condizioni economiche precarie.
I due accettano di continuare a stare vicino a Lola, accettano persino di contribuire entrambi – sebbene in forme diverse – a prendersi cura del bambino che nascerà perché, semplicemente, la amano. In fondo, sebbene da qualche parte, nel film, ci siano degli indizi a proposito del fatto che il bambino sia di Felix, di chi sia il bambino veramente non si sa.
È proprio sull’artificio narrativo di questa rimozione, di questo mancato approfondimento sulla paternità del bambino, che si genera Métisse e la rappresentazione simbolica che esso vuole trasmetterci.
Se Jamal rappresenta l’uomo più premuroso, meno impaurito rispetto a Felix, che invece con Lola sembra avere qualche problema di natura conflittuale, ebbene questo lo dobbiamo alla bravura di Kassovitz di mettere in piedi un film in cui i cliché possono contemporaneamente essere montati e smontati ogni volta che li si guarda.
È rappresentato il confronto col terzo, massimamente estremizzato nel confronto con un terzo diverso – in particolare col Terzo meticcio, simbolo dell’integrazione di un elemento (di una persona, in questo caso) di difficile etichettamento –, ma in fondo nessuno dei due uomini concorre davvero all’amore esclusivo di Lola; entrambi amano la stessa donna senza il bisogno di escludere il terzo, scegliendo invece di collaborarvi e condividere la situazione di impasse nella quale si trovano.
In questo senso il nero ricco e il bianco povero rappresentano sì il sovvertimento di un cliché tradizionale (quanto mai vivo in quella Francia che, a partire dagli anni ’50, si trovò a vivere una massiccia immigrazione di massa), ma alla fine il confronto tra i due resta comunque. Esso esiste nella dimensione – si voglia o non si voglia – di lotta per il possesso, per il potere rispetto a qualcosa. Il bambino che nascerà diventa, quindi, la posta del contendere tra due uomini, certo, ma anche sostanzialmente tra due culture diverse.
C’è in questo film un approfondimento del punto di vista sociale/razziale e un accenno al punto di vista relazionale. In un mondo che sta sostanzialmente cambiando (ricordiamoci che siamo negli anni ’90), in un mondo in cui le etnie si pluralizzano sempre di più, in cui – con la globalizzazione – è sempre più facile incontrare sul proprio cammino il diverso, il terzo, l’altro, ebbene, c’è a volte, come per controinvestimento, anche la difficoltà di accettarla, questa diversità.
Da qui fenomeni come il razzismo, in cui si proietta fuori di sé quell’odio verso l’altro che è poi, psicoanaliticamente parlando, quello stesso odio che non si riesce a provare e riconoscere verso sé stessi, verso quello straniero interno che ci abita, tutti quanti noi, come esseri umani.
Il razzismo come odio dell’altro, della sua differenza, è il razzismo verso sé stessi, e la simbolizzazione affettiva verso il nemico, come colui che sottrae qualcosa o qualcuno, si mescola alla possibilità di un suo contrario: l’altro non come nemico, ma come amico.
Questo è un tema molto caro a Kassovitz – come dimostra anche il successivo La Heine (1995) – perché incarna probabilmente un impegno sociale che si prende non solo nei confronti della cultura e del cambiamento della sua patria, la Francia, ma anche perché evidentemente ci sono lì delle questioni, anche forti, che il regista sceglie di rielaborare attraverso l’ausilio cinematografico. Si può leggere il cinema, qui, come un momento di trasmissione di un messaggio che non si conclude solamente nella storia che veicola, ma anche in quello che essa va a simbolizzare.
Queste questioni sono alleggerite proprio dalla forma con la quale Kassovitz sceglie di presentarle allo spettatore. La capacità di smorzare questi temi attraverso toni parodici, e finanche conviviali, rendono Métisse un film, alla fine, non perturbante – ossia non appesantito da dimensioni tragiche o drammatiche.
C’è, quindi, una dimensione di commedia e satira sull’incontro, negli anni Novanta, tra la cultura bianca e quella nera, che viene riproposta qui da Kassovitz nella forma della parodia, in cui al sovvertimento dei cliché corrisponde la sostenibile leggerezza della narrazione.
Eppure, vedendo Métisse, ci si potrebbe chiedere: e di questa donna che si fa amare da due uomini contemporaneamente? Di questo confronto con il terzo? Noi possiamo vedere allora il problema della relazione triangolare come archetipico, struttura elementare della parentela (come la definiva l’antropologo Levi-Strauss), in cui ci sono due uomini che si contendono (ma non se la contendono poi davvero) una donna (a chi venisse in mente il complesso edipico non posso che lasciare una strizzata d’occhio), che si fa oggetto del desiderio dell’uomo, ma che ingenuamente ne manipola due andando con l’uno e con l’altro. Quale fantasma non elaborato abita lo sfondo di una relazione triangolare?
In fondo, noi vediamo con questo film soprattutto un aspetto positivo del confronto col Terzo, che è sì un terzo bistrattato, colpevolizzato, ma è anche un terzo con cui alla fine si può convivere, si può stare insieme. Dal punto di vista culturale il film è forse anche un messaggio di Kassovitz alla Francia, un messaggio di speranza e possibilità, addirittura di realtà, rispetto all’unione e all’integrazione delle razze.
Nel bla bla bla dei personaggi, nel bla bla bla di certe scene del film in cui si grida e si sbraita, si mormora e si accusa, si critica e non si capisce, senza arrivare mai a una comunicazione che si faccia veramente sostanziosa, di una parola vera, piena, ma sempre in qualche modo urlata nella sua banalità e nella sua retorica, questo film ci ripropone uno spaccato sociale prima, e soggettivo poi, che evidenzia nel suo finale (la nascita del bambino a cui assistono Jamal e Felix) la pluralizzazione, nel nostro tempo, del Nome del Padre, che diventa in questo modo i Nomi del Padre, come direbbe Lacan. Métisse presenta dei figli di una cultura che, andando verso l’integrazione, si pluralizza ed espande sempre più.
Voce fuori campo nel finale: «Ormai si sa dove sperano arrivare: vogliono la nascita di bambini metà bianchi e metà neri, una mescolanza di razze che garantisca l’integrazione. Il risultato sarebbe un vero disastro: razze impoverite e imbastardite, dove né bianchi né neri avrebbero una loro collocazione».
Ma tant’è, oggi possiamo dire che se un futuro del confronto tra culture diverse, dell’integrazione del Terzo come Altro, era un tempo solo immaginato, oggi esso è possibile già qui, già ora. E il futuro della società e le scelte che lo determineranno sono, in fondo, già qui, già oggi.