Il “giallo all’italiana” è una tendenza che nasce sulle basi dei film del brivido (ambientati in contesti esotici e goticheggianti) e del realismo americano (la figura dell’investigatore, i gangster e la violenza). Mario Bava è il regista che ha posto le fondamenta per lo sviluppo di tale genere, avendo avuto il merito di carpire la componente onirica dei film del brivido (si pensi al Nosferatu di Murnau, al Gabinetto del dottor Caligari di Wiene o al Fantasma dell’opera di Chaney) per trasportarla in un contesto realistico.
Inoltre, ha epurato il genere dall’alone gotico ed esotico per immetterlo in una Roma moderna, facendolo poi sfumare in una situazione surreale dove la scenografia, per la prima volta, acquista un carattere quotidiano inquietante e suggestivo (le strade di Roma assumono un aspetto differente).
Se è con il film La ragazza che sapeva troppo che Mario Bava ha iniziato a codificare questi elementi, il titolo che ne delinea significativamente i tratti è Sei donne per l’assassino, che introduce la figura del serial killer dai caratteri indefiniti (l’impermeabile, i guanti, il volto coperto).
Sinossi – Il cinema di Mario Bava tra reale e immaginario
Isabella, una giovane donna che lavora in un atelier di moda, viene improvvisamente attaccata e uccisa da un misterioso uomo con il volto coperto da un cappuccio bianco. Uno dei proprietari dell’atelier (la contessa Cristiana Cuomo) ritrova il corpo e contatta la polizia. Inizia così una serie di indagini atte a scovare il colpevole.
Come accennato nell’introduzione, nel cinema di Mario Bava l’immaginario e il reale si affiancano per poi compenetrarsi (quantomeno nella maggior parte dei suoi film).
Sei donne per l’assassino, da questo punto di vista, rappresenta probabilmente il lavoro più teorico e compiuto dell’intera filmografia del regista sanremese. Lo spazio all’interno del quale si svolgono le vicende cardinali, infatti, è quello di un atelier, termine francese che indica il laboratorio dell’artigiano, luogo all’interno del quale vengono prodotte forme e che si distacca, per sua stessa natura, dall’idea materiale di realtà.
E cos’è Sei donne per l’assassino se non un film di sagome plastificate, silhouette femminili e riproduzioni di corpi? Qui, allora, la riflessione sullo statuto baviano all’interno del panorama cinematografico nostrano diviene ancora più complesso (artigiano o artista?).
Nella prima inquadratura del film il vento fa staccare l’insegna dell’atelier Christian, ponendola in fuori campo e lasciando spazio all’ingresso della struttura. Il gioco di profondità, la distensione delle ombre, i rampicanti intorno alla porta di ingresso e le statue dalle fattezze animalesco/umane danno l’immediata sensazione di trovarsi all’interno di un mondo incantato, dall’atmosfera gotico internazionale.
Quello che si evince dal film è la presenza di una riflessione, di uno sguardo, che pone al suo centro il cinema, l’immagine e la sua costruzione. L’ambiguità più interessante delle sue opere, infatti, rimane sicuramente quella dell’intreccio tra reale e irreale, fisico e immaginario.
Non è un caso che i titoli di testa del film si aprano su una rapida carrellata di immagini che affiancano quelli che saranno i protagonisti della storia a dei manichini di plastica. Qui, ciò che è reale (i corpi degli attori), pur mantenendo il proprio carattere, si confonde con ciò che invece simula, riproduce, imita, entrando a fare parte di una cornice nella quale sono le pose, le forme e i colori ad assumere un ruolo narrativo fondamentale.
I manichini presenti all’interno dell’Atelier possono essere osservati come la proiezione artificiale della personalità bizzarra del regista. La vita è trasformata in morte, le persone in oggetti: nel cinema di Mario Bava la morte è spesso caratterizzata da colori glam, così i cadaveri sembrano avere vita, tornando sovente davanti alla camera per rivendicare la loro fastidiosa partecipazione.
Il bombardamento visivo della messa in scena ha quasi la maniera di una pubblicità, opprime lo spettatore e lo rende vittima di incursioni di immagini e segni che lo trasformano in un manichino passivo e bersagliato, esattamente come i suoi personaggi.
I caratteri del film, quindi, si pongono come vere e proprie funzioni che hanno l’unico scopo di essere mandate al macero in quella che si potrebbe definire una “spettacolarizzazione dell’omicidio”, direttamente dialogante con l’estetismo dell’arte visuale ed espressa tramite la sua serializzazione.
Rigore e perversione
In Sei donne per l’assassino l’inchiesta poliziesca che dà origine alle vicende diviene lo sfondo per una serie di scene di suspence, dove vengono uccise le vittime predestinate.
L’intreccio diviene un mero pretesto: il film è costruito in funzione delle scene di terrore e di orrore, e quelle dell’assassino si delineano come vere e proprie performance voyeuristiche, costruite attraverso ingegnosi meccanismi di messa in scena.
Sei donne per l’assassino è un film sui modi di uccidere. Ogni omicidio è diverso dall’altro, si usano armi insolite e minacciose come il parabraccio dell’armatura di un cavaliere, dotato di tre lunghi spuntoni.
Particolare attenzione viene posta da Bava anche nei confronti dei tempi dell’azione, dall’inizio del procedimento di uccisione fino a quando i corpi non perdono vita e diventano inanimati. Se il primo omicidio ha tutte le caratteristiche di uno stupro (si pensi alla colluttazione iniziale o ai vestiti strappati della donna) il secondo indugia maggiormente sui primi piani della vittima e su progressivi zoom, fino a quando con uno stacco è inquadrata posteriormente la mano dell’assassino che preme il volto della donna contro il metallo rovente.
Vi è quindi la presenza di uno stile e di un modo di intendere il cinema sicuramente artificioso e delapidante. La trama risulta esigua e costellata di ingenuità, ma Bava depista lo spettatore marginalizzando l’azione principale.
Il piano-sequenza, all’interno del film, è metodico. I movimenti di macchina immotivati (e quindi prevalentemente esplorativi) immergono lo spettatore all’interno di ambienti sfavillanti, saturi di corpi e oggetti.
Mario Bava e il thriller italiano
Sei donne per l’assassino è il film che codifica definitivamente il thriller italiano. Gli elementi tematici, stilistici e iconografici impostati da Bava sono molteplici: l’artificio retorico sul passaggio dalla vita alla morte, il deturpamento dei personaggi, l’estetizzazione della violenza – discorso poi ripreso da numerosi registi e showrunner televisivi del contemporaneo, come Nicholas Winding Refn o James Manos (Dexter, 2006-2013) – l’assassino misterioso dotato di cappuccio e guanti, i modi creativi di uccidere.
Si tratta di un’opera che sfugge a qualsiasi principio di categorizzazione, scollegandosi dal proprio contesto socio-culturale e mostrando, forse più di qualsiasi altro suo film, la capacità di questo regista di raccontare atmosfere attraverso le immagini.