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È stata la mano di Dio e Pasolini – La soggettiva libera indiretta

Matteo Melis

Dicembre 19, 2021

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Chissà se Pier Paolo Pasolini avrebbe apprezzato È stata la mano di Dio. Una domanda dalla risposta imprevedibile, visto che si parla di un intellettuale atipico, un impareggiabile maestro della commistione tra produzione artistica e sua teorizzazione, con uno sguardo e un linguaggio trasversali in entrambe le aree.

In Empirismo Eretico, illuminante raccolta del 1972, Pasolini teorizzava due modi differenti di fare cinema: da una parte il cinema di poesia, che oggi come oggi assoceremmo in modo semplicistico al film d’autore, dall’altra il cinema di prosa, più diretto, più semplice, legato strettamente alle dinamiche del genere.

Gli accostamenti che abbiamo appena proposto, però, sono di comodo. Per Pasolini, infatti, non c’è un’esatta sovrapposizione tra cinema di poesia e autorialità né tra cinema di prosa e film di genere.

La condizione necessaria affinché il cinema di poesia possa essere chiamato tale è l’uso di quella che Pasolini ha ribattezzato soggettiva libera indiretta.

è stata la mano di dio
Pier Paolo Pasolini

Partendo dalla semi-soggettiva teorizzata da Mitry, nella quale la cinepresa “guarda insieme” al personaggio restituendone la direzione di sguardo senza tuttavia incarnarlo, Pasolini prova a estenderne la presenza a zone del film nelle quali non è possibile determinare se lo sguardo coincida o meno con quello di un personaggio. La macchina da presa vaga, come gli occhi di un protagonista dell’opera, e osserva spazi e personaggi attraverso uno statuto per cui non è chiaro se quello sguardo sia effettivamente vincolato a qualcuno (soggettiva) o libero (oggettiva).

Così come in letteratura il discorso indiretto libero presenta delle intromissioni dialogiche, cambi di registro e scelte lessicali che suggeriscono la compresenza di voce narrante e voce del personaggio, così nella soggettiva libera indiretta non è determinabile se l’inquadratura sia soggettiva o oggettiva.

Questo meccanismo è fondamentale in È stata la mano di Dio (2021), l’ultima opera di Paolo Sorrentino.

è stata la mano di dio
Fabio Schisa (Filippo Scotti), protagonista di “È stata la mano di Dio” (2021)

Non siamo certamente di fronte ai primi esempi di semi-soggettività estesa da parte dell’autore napoletano, anzi, probabilmente in film come La Grande Bellezza (2013) e Youth (2015) questa tecnica è più pervasiva e quindi meglio rintracciabile.

In È stata la mano di Dio, però, la soggettiva libera indiretta restituisce un effetto di coerenza e intimità che Sorrentino forse non aveva mai raggiunto prima.

Nel film seguiamo le vicende di Fabietto Schisa, un giovane liceale napoletano alle prese con la propria crescita, con la famiglia, con sogni e traumi. Dentro le vicende del suo protagonista, Sorrentino immette la propria esperienza personale: la giovinezza vissuta nel capoluogo, la morte dei genitori, il sogno di diventare regista, il Napoli, Diego Armando Maradona. Tutto è concentrato nell’arco di tre anni, forse sufficienti a Fabietto per capire che uomo diventerà.

In un’opera così pensata, Sorrentino rappresenta se stesso, ma anche qualcosa e qualcuno che inevitabilmente sono altro da lui, perché nello schermo c’è Fabio, non c’è Paolo. Ciò che sorprende è che nel film, lo spettatore riesce a respirare contemporaneamente entrambi i climi: quello del giovane uomo diventato regista che rivede e riprende parte di sé, e quello di Fabio in quanto protagonista di un’opera finzionale, con le proprie personali esperienze che deviano dal percorso di Paolo per comunicarci qualcosa di nuovo.

è stata la mano di dio
Fabio con i genitori Saverio (Toni Servillo) e Maria (Teresa Saponangelo)

In questa fusione tra autore e protagonista, si inseriscono perfettamente momenti discreti in cui lo sguardo della cinepresa vaga, si sposta, indugia su dettagli talvolta poco affascinanti, ritaglia il mondo nel modo in cui lo vede Paolo e nel modo in cui lo inquadrerà Fabio. Perché il protagonista lo dice in modo chiaro: guardare è l’unica cosa che gli riesce bene.

Infatti, Fabio posa insistentemente il suo sguardo su ciò che per lui è sinonimo di bellezza, ne analizza ogni angolo e piega senza paura di essere visto.

Nel film assistiamo a più di una soggettiva in cui la vista di Fabio si concentra su qualcosa o qualcuno, e di rimando anche noi possiamo farne esperienza. In altri momenti, però, quel modo di dirigere lo sguardo viene replicato senza che appartenga esplicitamente al protagonista né a nessun altro, l’occhio della cinepresa “si muove da sé” con pari sensibilità e grazia, indugiando sugli stessi dettagli e mantenendo, dunque, una coerenza di fondo tra l’occhio di Fabio e l’occhio dell’inquadratura oggettiva, che idealmente possiamo associare a quello di Paolo.

Nella dimora di San Gennaro

Così come resta sfumato il confine tra chi è Fabietto e il Paolo che c’è in lui, così nel film si sfumano i contorni tra idillio e disastro familiare, tra il tipico calore di Napoli e la sofferenza che affligge la città, tra umano e divino, sia che si parli di San Gennaro sia che si parli di Maradona.

Perciò è stata e non è stata la mano di Dio a salvare Fabio (e Paolo) da una morte certa nella casa in montagna insieme ai genitori: perché è un miracolo che Fabietto non fosse lì, ma allo stadio per vedere un altro miracolo, quello di Maradona a Napoli, una divinità che della sua umana debolezza ha fatto un manifesto.

Ecco che, proprio come nel linguaggio cinematografico di Sorrentino, gli elementi si mescolano senza punti di riferimento precisi, senza che l’autobiografia fagociti il film e senza che la narrativa svuoti le pagine della memoria dell’autore, in un intero universo libero indiretto.

Leggi anche: Sorrentino e Bauman – Le conseguenze dell’amore (liquido)

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