L’uomo senza gravità è un film del 2019, diretto da Marco Bonfanti. Il protagonista interpretato da Elio Germano è Oscar, bambino prodigio che fin dall’infanzia dimostra di possedere una qualità straordinaria: la gravità non ha effetto sul suo corpo, facendolo “volare” via se non ancorato a qualcosa (un peso, come lo zaino della Invicta) o a qualcuno (l’abbraccio di una persona a lui vicina).
Il film si sviluppa come una metafora sulla discriminazione della diversità in un mondo dove ogni tratto distintivo fuori dal comune sembra essere percepito negativamente. Il protagonista, infatti, dopo poco tempo, verrà catapultato all’interno di una narrativa mediale che lo sfrutterà come mezzo macina-soldi, una sorta di Freak-Show trasmesso giornalmente, frutto di uno sguardo collettivo (o per meglio dire di un immaginario) estremamente perverso e proiettivo.
È il mito che soffoca l’uomo, è lo spettacolo, lo stra-ordinario che soffoca l’ordinario.
In tal senso, volgendo uno sguardo più attento al panorama cinematografico italiano contemporaneo, può risultare evidente come siano il fumetto e la figura del supereroe, insieme a un approccio cinematografico di spielberghiana memoria, a rappresentare il profilo iconologico principale, tramite il quale mascherare oppure “oggettivizzare” la storia.
Sembra, però, che l’approccio utilizzato da molti registi italiani in questi ultimi anni abbia, in nuce, l’idea di muoversi verso una direzione più vicina al realismo magico, e quindi alla dimensione fantastica come strumento d’evasione, piuttosto che al modello Marvel o DC.
Il realismo magico
L’espressione “realismo magico” venne creata dal critico tedesco Franz Roh negli anni ’20. Egli la utilizzò per evidenziare la visione bizzarra e originale del realismo pittorico post-espressionista, sviluppatosi in Germania nel dopoguerra. Se inizialmente si trattava quindi di un’espressione utilizzata in riferimento alla pittura europea, diventò poi un modello in grado di cambiare la mentalità della popolazione, che sfogava il proprio bisogno di evasione disseminando la quotidianità di caratteri magici e incantevoli.
Il realismo magico si configurò quindi, con il passare del tempo, come una poetica che agglomerava in sé soggetti magici, elementi surrealisti e un’accurata rappresentazione realista del mondo.
È inevitabile, data l’enorme influenza che questa tendenza ebbe in tutto il mondo, il suo arrivo anche negli ambiti narrativi, in particolare modo la letteratura (specie negli anni ’60) e il cinema. Per quanto riguarda l’audiovisivo, il concepimento di questa espressione non differisce molto dalla descrizione poc’anzi fatta: una forma di realismo contenente elementi surreali.
Sotto, “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli, che gioca nel raccontare la surreale esistenza di una giovane donna.
Nel panorama cinematografico italiano degli ultimi anni sono molteplici le pellicole che hanno raccolto l’eredità di questo modello, ricontestualizzando “italianamente” l’immaginario supereroistico e raccontando in modo spettacolare temi estremamente contemporanei, come quelli legati al freak o al diverso, del quale L’uomo senza gravità fa parte.
Basti pensare a Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, film che vede un laconico e aggrottato Claudio Santamaria muoversi e assumere i suoi poteri in una degradata Tor Bella Monaca, che si srotola a partire da un canovaccio noir, o a Copperman, di Eros Puglielli, che ben si aggancia alla tendenza evasiva del realismo magico (il protagonista è Anselmo, ragazzo affetto da ritardo mentale e convinto che quel padre che l’ha abbandonato alla nascita sia in realtà un supereroe intento a salvare costantemente vite umane).
O al più recente Freaks Out, anch’esso di Mainetti, opera che esemplifica forse nella maniera più lampante il lavoro di riadattamento dell’identità locale a un format ormai estremamente consolidato, dove realtà e immaginazione sembrano quasi darsi battaglia.
Decostruzione di un archetipo ne L’uomo senza gravità
L’uomo senza gravità, inscrivendosi all’interno delle dinamiche narrative del realismo magico, sembra voler tentare di scardinare gli archetipi del supereroe classico. Il protagonista, infatti, non ha acquisito il potere di fluttuare nell’aria in mancanza di un peso che lo ancorasse a terra, ma ci è nato. Questo lo ha costretto, per molto tempo, a non poter uscire di casa per paura di affrontare il mondo esterno.
Nessuna azione quindi, nessun atto eroico (al massimo la sistemazione di un’antenna televisiva), bensì un conflitto interno, quello che attanaglia Oscar, desideroso di mostrarsi al mondo, ma anche profondamente intimorito da ciò che lo potrebbe aspettare.
Bonfanti parte quindi da una presupposto tipico delle fiabe e ne estrapola le caratteristiche maggiormente umane, soffermandosi sugli aspetti più intimamente sentimentali.
È l’equilibrio tra l’immaginazione incantata e la complessità del reale a rendere L’uomo senza gravità un più che degno rappresentante del realismo magico, specie nella sua dinamica interna più interessante, quella che vede Oscar spesso sovrapposto alla figura di Batman.
Ecco che qui si crea allora un paradosso, dal momento che Batman, in realtà, non possiede alcun potere, mentre Oscar sì. Eppure, sul finire del film, lo vediamo pulire i vetri di un grattacielo travestito proprio da uomo pipistrello, indice di un discorso legato strettamente alla mitologia e alla visione che si ha di essa.
Ecco che quindi la natura del film, proprio sul finale, compie il suo decorso: la maschera di Batman, indossata da Oscar, che fluttua tra i vetri del grosso grattacielo, è l’apoteosi della serenità e della spontaneità che dovrebbe permeare ciascun individuo.