Quasi tutti i cineasti hanno delle ossessioni particolari. Alfred Hitchcock è certamente tra questi; anzi, forse senza le sue bizzarre manie e fissazioni non ci avrebbe regalato alcuni tra i più grandi capolavori della storia del cinema. In particolare, il maestro del brivido considerava la scelta delle protagoniste femminili un’operazione sacra, da effettuare con attenzione quasi maniacale.
All’interno delle sue opere la donna ha infatti un ruolo centrale, cosa atipica se si pensa che Hitchcock realizzò i suoi film in un periodo fortemente ancorato a stereotipi e discriminazioni di genere. I personaggi femminili di Hitchcock non sono mai piatti o marginali, ma eroine a tutto tondo, interpretate da alcune tra le attrici più affascinanti e talentuose della loro epoca.
La critica cinematografica Tania Modleski, nel suo saggio The Women Who Knew Too Much: Hitchcock and Feminist Theory, evidenzia come nei film del regista le donne siano resistenti alle regole del patriarcato, divenendo soggetti, e non più oggetti, della storia. Non dobbiamo inoltre dimenticare che per tutta la sua carriera Hitchcock lavorò con il supporto e il contributo della moglie Alma Reville, figura messa in ombra dal successo del marito.
Ma si può realmente definire Hitchcock un autore femminista? Basta una sua celebre dichiarazione per ribaltare le carte in tavola:
«Le bionde sono le vittime ideali, sembrano virginali fiocchi di neve dai quali traspare un’impronta insanguinata».
(Alfred Hitchcock)
È nota l’ossessione di Hitchcock per le donne bionde. Da Ingrid Bergman a Grace Kelly, da Eve Marie Saint a Janet Leigh, le protagoniste dei suoi film erano tutte bellissime donne dai capelli dorati. Il regista riteneva infatti che le bionde avessero un fascino freddo e distaccato, in grado di renderne indecifrabili i pensieri e le intenzioni. Non ammirava però bellezze più marcate, proprie di attrici come Marilyn Monroe e Jayne Mansfield, perché a suo dire avevano «il sesso stampato in faccia».
Per Hitchcock, le figure femminili dovevano essere circondate da un costante alone di mistero, strumentale alla piena realizzazione della suspense. La concezione della donna come strumento narrativo, modello di femminilità plasmato ai fini della storia, potrebbe far storcere il naso alla maggior parte delle femministe. Soprattutto se si considera il discutibile comportamento che il regista ebbe nei confronti di molte attrici con cui lavorò.
Attraverso l’analisi di tre meravigliose protagoniste dei suoi film, proviamo a comprendere l’ambiguità che si cela dietro a queste cosiddette “bionde di Hitchcock”.
Lisa Freemont (Grace Kelly) ne La finestra sul cortile (1954) – L’eroina hitchcockiana
Tra le attrici con cui il maestro del brivido collaborò con maggiore armonia c’è senz’altro Grace Kelly. Prima di diventare principessa di Monaco, Grace Kelly recitò in tre film di Hitchcock, portando sullo schermo una femminilità perfetta per i racconti di suspense. Il regista era infatti solito definire Grace “ghiaccio bollente”: una donna bellissima, in apparenza algida e distaccata, ma che nascondeva una forte e imprevedibile passionalità. Il personaggio in cui questo ossimoro traspare maggiormente è senz’altro quello di Lisa Freemont ne La finestra sul cortile (1954).
Lisa è la sofisticata fidanzata del protagonista L.B. “Jeff” Jeffries (James Stewart). All’inizio della storia, quest’ultimo ha molti dubbi sulla loro relazione in quanto i loro stili di vita sono completamente diversi. Lisa è infatti un‘indossatrice di alta moda, abituata alla raffinatezza e agli eventi mondani, mentre Jeff è un fotoreporter burbero e trasandato.
Nonostante le loro differenze, Lisa è innamorata di Jeff ed è determinata a sposarlo, promettendo persino di cambiare vita pur di dimostrargli quanto tiene al loro rapporto.
Quando Jeff, bloccato sulla sedia a rotelle, inizia a spiare il suo vicino (Raymond Burr) e a sospettare che questo abbia ucciso la moglie, Lisa è inizialmente scettica. Non tarda però molto a farsi coinvolgere dall’indagine, mostrandosi profondamente intuitiva e aiutando in più occasioni Jeff nelle sue ricerche. Lisa arriverà a mettere in pericolo la sua stessa vita nel tentativo di incastrare l’assassino, dimostrando così all’uomo che ama quanta determinazione si nasconda dietro la sua raffinatezza.
Interpretata perfettamente da Grace Kelly, Lisa Freemont potrebbe quasi essere considerata un’icona femminista. Ha infatti un ruolo determinante e attivo all’interno della vicenda: senza Lisa, probabilmente Jeff non sarebbe mai riuscito a incastrare l’omicida. Hitchcock porta così sullo schermo un’eroina tenace e intraprendente, senza però privarla della sua femminilità.
Madeleine Elster/Judy Barton (Kim Novak) in Vertigo (1958) – L’oggetto di un’ossessione
La scelta dell’attrice protagonista di Vertigo (1958) non fu impresa facile per Hitchcock. Il regista contattò inizialmente Vera Miles, che aveva già lavorato con lui ne Il ladro (1956), ma la donna rimase incinta prima dell’inizio delle riprese. Infastidito, Hitchcock ripiegò sulla giovane Kim Novak. I due non ebbero un rapporto facile sul set, ma la Novak si rivelò una scelta più che azzeccata: a distanza di anni, la sua presenza scenica riesce ancora a incantare.
L’attrice interpreta Madeleine Elster, un’affascinante donna che è apparentemente ossessionata dai fantasmi del passato. Il marito (Tom Helmore) decide di farla seguire dall’investigatore John “Scottie” Ferguson (James Stewart); quest’ultimo rimane incantato da Madeleine e finisce presto per innamorarsene. Col passare del tempo, quella di Scottie diviene una vera e propria ossessione autodistruttiva, destinata a concludersi in tragedia. Qualche mese dopo, Scottie si imbatte in Judy, una donna dal viso identico alla sua amata.
Ignaro di essere stato vittima di un crudele raggiro, l’uomo inizia a plasmare Judy per trasformarla nella sua, defunta, ma mai dimenticata, Madeleine. Judy cambia vestiti e colore di capelli, arrivando a sopprimere la propria identità pur di farsi amare. La relazione tra i due si fa così sempre più malata, frutto delle fantasie di un uomo che sogna di possedere qualcuno che, in realtà, non è mai realmente esistito.
In Vertigo la donna è una mera creazione plasmata dall’uomo e dalle sue ossessioni, priva di personalità e indipendenza. Madeleine è un fantasma, l’oggetto di un machiavellico piano ideato da un assassino; Judy invece è reale finché è sola, ma è pronta a cancellare ogni parte di sé per essere accettata e amata. Secondo la maggior parte dei critici, Scottie è il perfetto alter ego dello stesso Alfred Hitchcock. Vittima e carnefice al tempo stesso, egli è schiavo delle proprie fantasie e manie, tanto da arrivare a plasmare la realtà pur di concretizzarle. In Vertigo, la donna ha quindi sì un ruolo fondamentale, ma come un oggetto, privo di ogni individualità.
Marnie Edgar (Tippi Hedren) in Marnie (1964) – Il volto del trauma
Negli ultimi anni si è parlato molto degli abusi subiti dalle donne nel mondo dello spettacolo. Agli inizi degli anni ’60, la giovane e inesperta Tippi Hedren fu una vittima delle ossessioni di Alfred Hitchcock. Il regista, infatuatosi di lei, non accettò il rifiuto dell’attrice alle sue avance, sottoponendola a violenze fisiche e psicologiche sul set de Gli uccelli (1963).
Quando Hitchcock volle realizzare un film dal romanzo di Winston Graham, Marnie, aveva inizialmente pensato a Grace Kelly per la parte della protagonista; nonostante desiderasse tornare sugli schermi, la principessa di Monaco dovette rinunciare. Il regista decise così di affidare il ruolo a Tippi Hedren, la quale provò a dare una seconda possibilità a Hitchcock, soprattutto in seguito al successo che le portò il film precedente.
Tippi interpretò così Marnie Edgar, giovane cleptomane con problemi psicologici; vittima di un grave trauma da bambina, Marnie è terrorizzata dal colore rosso e rifiuta ogni tipo di rapporto con gli uomini. Questo finché non trova lavoro in una società gestita dall’affascinante Mark Rutland (Sean Connery), che si infatua della giovane impiegata.
François Truffaut definì efficacemente Marnie «un grande film malato»: nonostante l’affascinante storia alla base, il film risulta imperfetto a causa di alcuni errori di percorso e realizzazione. In primis, il pubblico dell’epoca non era ancora pronto per un’antieroina così fragile e psicologicamente disturbata. Ma soprattutto, la pellicola risentì del clima tossico del set: a causa del comportamento aggressivo di Hitchcock, che arrivò anche a intromettersi nella vita privata dell’attrice, Tippi Hedren visse un’esperienza traumatica, che condizionò la sua intera carriera.
C’é un particolare che forse sintetizza l’ambiguo e conflittuale rapporto tra Hitchcock e la figura femminile.
Per la realizzazione di Marnie, il regista desiderò la presenza di una sceneggiatrice (lo script è infatti firmato da Jay Presson Allen), in quanto desiderava che nella storia prevalesse il punto di vista femminile. Al contempo, Hitchcock volle aggiungere una scena particolarmente disturbante, non presente nel romanzo. Durante la luna di miele, Mark, nonostante le continue resistenze di Marnie, forza la moglie a un rapporto sessuale. Una sequenza completamente gratuita, che umilia la protagonista e, in un certo senso, l’attrice stessa.