Quando scrisse e diresse Il Vangelo secondo Matteo, Pier Paolo Pasolini aveva esaurito quella carica epico-lirica del poema popolare che aveva inaugurato con Accattone (1961) e terminato con La ricotta (1963). Lungo questo arco temporale, lo scrittore, il saggista, nonché regista e, alla meglio, intellettuale, aveva deciso di intraprendere quella condotta nazional-popolare di stampo gramsciana, la quale caratterizza questa prima fase produttiva fino al 1966 con Uccellacci e uccellini.
Siamo nel 1964 e Pasolini decide di trasporre sul grande schermo Il Vangelo secondo Matteo, un’opera di per sé maestosa, apprezzata sin da subito dalla critica intellettuale. Come da Jean-Paul Sartre, che incontrò poi il Poeta in una cafè parigino, e persino da registi di fama mondiale come Martin Scorsese, il quale non solo rimase folgorato dalla visione, ma si sentì usurpato dall’idea di voler realizzare una pellicola che avesse come personaggio principale un Gesù Cristo molto vicino al popolo e che, nel caso del regista americano, vagasse per le strade e per il centro di New York.
Un Cristo letteralmente realistico, smontato dalla retorica liturgia molto cara al mondo cattolico e credente. Ebbene, quando Scorsese vide il film di Pasolini esclamò che quel film esisteva ed era di un regista italiano.
Pasolini arriva a Il Vangelo secondo Matteo come autore di film oramai affermato e criticato.
Il suo bagaglio consisteva in opere piuttosto note, come le già citate Accattone e La ricotta, Mamma Roma (1962) e il celeberrimo documentario Comizi d’amore (1964), attraverso cui l’autore comincia a scalfire quella cupola di convenzionalità borghese che stava rinchiudendo l’intero popolo italiano. Siamo ancora distanti dal Pasolini eretico di fine anni Sessanta e inizi anni Settanta; dal Pasolini di Teorema (1968), di Porcile (1969); dal Pasolini di Petrolio (postumo, 1992) e, in particolare, dal Pasolini che sapeva tutto, come recitava il suo famoso articolo pubblicato per il Corriere della Sera.
Vi è, nella sua prestigiosa carriera di scrittore e regista, una specie di labile confine, nel quale Pier Paolo cerca di concretizzare al meglio le sue riflessioni che, lette sempre in una prospettiva generica, non si discostano molto da quell’unicum che è il suo pensiero.
Per essere più chiari, se una di queste istanze è il mito (vedi opere come Medea e Edipo Re), con il Il Vangelo secondo Matteo Pasolini cerca di indagare il sacro. E lo fa realizzando un’opera che ha solo una fisionomia cattolica, nonostante in realtà non sia il lavoro di un cattolico praticante.
La realizzazione de Il Vangelo è preceduta da un’idea, da un istinto. Ed è Pasolini stesso a parlarcene quando, nel 1963, rivolge al suo produttore Alfredo Bini la seguente lettera:
«Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo».
(Pier Paolo Pasolini)
Nell’ottica di Pasolini vi era la concezione di progettare un’opera che non fosse propriamente una rivisitazione o una parafrasi epica di un avvenimento religioso; bensì un’opera irrazionale, la cui stessa irrazionalità includesse quel principio di libertà, di bellezza immediata e di purezza che lo stesso Pasolini ha trovato nella pagina evangelica. Ne Il Vangelo secondo Matteo non abbiamo né un’ideologia né una poesia, benché ne voglia il regista che l’ha definita, appunto, un’opera poetica.
Lo stesso autore appena terminata la lettura del testo di Matteo ha avvertito sin da subito un’intensa «energia terribile, quasi fisica, un aumento di vitalità».
Pasolini cerca di non tradire l’essenza del messaggio evangelico cercando di essere egli stesso evangelico. E questo lo realizza servendosi, in primis, di un’estetica che non trasgredisce l’epoca in cui si svolgono i fatti. Basti pensare alla figura di Gesù, incarnata dall’attore Enrique Irazoqui, i cui lineamenti non sono per niente morbidi e dolci, come siamo soliti osservare nell’iconografia rinascimentale; bensì ambigui, sconcertanti, trasmettono forza e decisione; insomma, quel classico volto che possiamo osservare nei pittori medioevali.
Pier Paolo in quel Cristo rovescia tutte le tendenze sacrali, mitiche ed epiche, sebbene la propria visione del mondo lo portasse a non credere nella visione del Salvatore. Un Cristo disperato, rabbioso, veggente solitario, lacerato e angosciato. Un Cristo che non è giunto sulla Terra per portare pace, amore e serenità, bensì la lotta, la spada. E come spiega egli stesso:
«Avrei fatto una ricostruzione positivista o marxista al massimo, e così, nel caso migliore, una vita che avrebbe potuto essere la vita di ognuno dei cinque o seimila santi che predicavano a quel tempo in Palestina. Ma non volevo fare questo perché non mi interessano le dissacrazioni: questa è una moda che odio, è piccolo-borghese».
(P.P. Pasolini)
Ebbene, a quel Pasolini non interessavano le dissacrazioni. Una visione dogmatica del Vangelo avrebbe comunicato (e ripiegato) un tentativo di retorica spicciola, cosa che il regista voleva assolutamente evitare. La sacralità, certo, possiamo riscontrarla, come è stato più volte sollecitato da una fetta di critica, in Vittorio Cataldi di Accattone. Ma applicarla al Gesù e a un testo già di per sé sacro avrebbe costretto l’autore a una deriva ideologica. Per questo Pasolini opta per una scelta più documentaria, servendosi di nuove tecniche registiche, con l’utilizzo di diversi movimenti di macchina.
Avvertiamo quindi un constante contrasto a ogni livello. Si susseguono campi lunghi e dettagli, totali e primi piani. E, nell’ottica dell’autore, tutto rientra pienamente nella contraddittorietà, nella libertà esasperata; in quel caos, in quello stilema di conversione propri del messaggio evangelico.
Persino il sonoro non è da meno. Si alternano infatti dialoghi e discorsi
(i quali occupano gran parte del film e molti di essi tratti propri dal Vangelo); linguaggio muto delle immagini e colonna sonora concepita come un mosaico di cori: canti popolari, composizioni di autori antichi e moderni. La stessa voce di Gesù, che in teoria dovrebbe occupare un posto di rilievo, si alterna tra momenti di profonda enfasi profetica e subordinazione al rumore del vento che tenta di sovrastarla.
Questo è il Vangelo. Non la poesia o la relativa ideologia. Pasolini regista diviene qui teologo ed esegeta. La sua è una vera e propria lectio evangelica.
E non sarà un caso che i presupposti e le scelte adottate per Il Vangelo secondo Matteo porteranno l’autore a stendere, nel 1968, un abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (tuttavia mai realizzato, ma uscito postumo in volume nel 1977).
Come è stato giustamente osservato, ne Il Vangelo Pasolini trasmette tutto se stesso. Costituisce un momento che attraversa tutta la sua storia, il cui autore pone in risalto un problema religioso non privato, bensì oggettivato nella fede e nel mito. Che, a ben vedere, è lo stesso procedimento (e, aggiungerei, rovesciamento) tenuto in conto nel costruire le storie di romanzi, coi parlanti romani o friuliani.