«Il contenuto politico implicito di Porcile è una disperata sfiducia in tutte le società storiche: dunque, anarchia apocalittica. Essendo così atroce e terribile il “senso” del film, non potevo che trattarlo a) con distacco, quasi contemplativo; b) con umorismo».
(Pier Paolo Pasolini)

Il dibattito su Porcile
Sul periodico Tempo Illustrato del 1969, Pier Paolo Pasolini rivendicava entusiasticamente il risultato divisivo di Porcile. Rispetto ai progetti che concorrevano allora, come il felliniano Satyricon e La caduta degli dei di Luchino Visconti, forti del successo di pubblico, Porcile confermava la sua carica anti-commerciale e anti-sistemica. D’altronde, i festival cinematografici, Venezia soprattutto, non smentivano affatto questa corrente uniformante. Anzi, silentemente avallavano, spesso dietro la maschera sublimante della critica, un certo ritorno al moralismo, fattosi ancora più marcato. Pasolini, corsaro ed eretico, sapeva che la sua “sorpresa”, né la prima né l’ultima, non sarebbe piaciuta e che, alla sua angosciante denuncia, si sarebbe senz’altro preferito il placido gusto borghese, più prevedibile e più rassicurante.
«Porcile, manco a farlo apposta, è il miglior film di Pasolini dopo Accattone e La Ricotta. Ma ha il torto di affrontare un tema tra i più importanti del mondo moderno: l’impossibilità per l’individuo dissenziente o anche semplicemente “diverso” di esprimersi e di vivere in società corrotte (altri dicono alienate) che creano i tabù per difendere non già la cultura (come le società primitive) ma gli interessi. Col risultato, alla fine, di sopprimere la cultura».
(Alberto Moravia)
Venuto alla luce dapprima come opera teatrale nel 1966, Porcile non perde la sua natura statica neppure sullo schermo. Alberto Moravia non si fermò davanti all’amicizia con Pier Paolo Pasolini e, in piena virtù di quella loro sincerità intellettuale, in Al cinema del 1975 dichiarava di non approvare questa coerenza strutturale del testo-film, vedendo in questa piuttosto una sorta di appiattimento, di “pigrizia estetica”.
«Il cinema è audiovisivo, d’accordo. Ma a teatro il drammaturgo fa raccontare un avvenimento in quanto “non può” rappresentarlo in azione. Il cinema può».
(A. Moravia)
Le panoramiche orizzontali e i primi piani sono i due movimenti di macchina prediletti dal cinema pasoliniano. Paesaggio esteriore e paesaggio interiore, concomitanti ed esasperati, lirici e asettici. Esattamente come la sua poetica, indocile ed estrema, profondamente animata dalle contraddizioni della realtà stessa.
«Si è detto che ho tre idoli: Cristo, Marx, Freud. Sono solo formule. In realtà, il mio solo idolo è la Realtà. Con la crisi del marxismo mi sono trovato molto solo e il mio film è maturato durante questo periodo».
(P.P. Pasolini)

La trama di Porcile
«Sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano».
(P.P. Pasolini)
Proprio sul principio di complementarità (lontananza-vicinanza, ortodossia-disubbidienza, purezza-perversione) si gioca la trama di Porcile. Si tratta di un racconto allegorico bipartito, sia per l’ambientazione sia per la storia. Le due narrazioni scorrono in parallelo, senza soluzioni particolari, se non quella di far dialogare, insieme ai personaggi, anche i luoghi.
Nel primo episodio, un’austera tenuta borghese a Godesberg, in Germania (girato in realtà in un’antica villa padovana); nel secondo, una landa vulcanica desolata, arida, chiaramente alle pendici dell’Etna. Da una parte Julian, giovane rampollo post-sessantottino di venticique anni, interpretato da Jean-Pierre Léaud, abulico e sarcastico, si scopre affetto da zooerastia; dall’altra, un impenetrabile e crudo Pierre Clémenti, nei panni di un cannibale errante del XVI secolo.
Cannibale: «Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia».
Entrambi si configurano come antieroi, vittime e carnefici allo stesso tempo, reificati e ridotti a loro volta a offerte sacrificali. Il rigetto non è altro che l’altra faccia della devozione al potere costituito e all’autorità vigente. Questa scelta di vita – una scelta subita, perché l’unica possibile secondo Pasolini – riproduce nella storia dell’uomo una parabola uguale a se stessa: la resa del trasgressore termina nell’autodistruzione. Una fine che non lascia tracce, allusivamente data in pasto a un’imperterrita damnatio memoriae.
Che cos’è allora il porcile? Un luogo deprecabile o il ritorno all’origine? Non è la libertà a essere immonda, ma i tentativi di ostacolarla. La violenza più grande sta nel non riconoscerne l’importanza. Non esiste una natura snaturata, ma un’umanità disumanizzata.
In Porcile la lista degli interpreti d’eccezione è lunga: il mirabolante Ugo Tognazzi e l’esilarante Alberto Lionello tra tutti. E ancora Anne Wiazemsky, i sodali Franco Citti e Ninetto Davoli, e il regista Marco Ferreri.