Premessa necessaria: descrivere questo film, Gli ultimi giorni dell’umanità, è quasi impossibile. Esattamente come descrivere la vita. Le parole, di fronte a cotanta materia-matrice pulsante, si dimostrano misere, insulse, fino a diventare parodia di loro stesse. Certo, non se quelle parole sono prese in prestito da Karl Kraus, autore della tragedia omonima (nell’adattamento di Luca Ronconi), e Franz Kafka, voci-guida di un’umanità persa e perduta.
Come ci finisce la vita in un film? Il film della vita di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo si può solo circoscrivere, delimitare, frammentare, avvicinare, trasformando in senso quello che è un atto, uno slancio, una volontà archetipica e insieme apocalittica.
Fare un film come Gli ultimi giorni dell’umanità è un gesto minuscolo dal respiro titanico: un niente marasmico che è pur sempre qualcosa nel tutto infinito, un frangiflutti nell’oceano, un punto nello spazio siderale.

In questo flusso “eccedente” di immagini (si stima qualche numero: più di 700 ore di archivio e 4 anni di lavorazione per tessere questa tela meravigliosa), il fuoco di un’eruzione vulcanica si mescola con le onde del mare in tempesta. Però, nel caos distruttivo si intravede il biancore di una vela lontana. Va su e giù, su e giù, su e giù. Come la telecamera che spia dalla serratura lo sguardo commosso e impaurito di una giovane Aura Ghezzi, figlia d’arte e interprete.

Vincitore del Premio Fedic, Gli ultimi giorni dell’umanità è un poema visivo, un’odissea “anarchica e anarchivica”, il racconto dello stato nascente delle immagini. Come nell’Aleph di Jorge Luis Borges, fissando un punto si possono vedere tutte le immagini del mondo, una compresenza di attimi, schegge impazzite di passato-presente-futuro.
L’esperienza della visione de Gli ultimi giorni dell’umanità è talmente immersiva che ci si chiede: siamo noi a guardare il film o è il film a guardare noi?
L’impalpabilità dello sguardo, nostro e delle cose, s’incontra con quella del sogno: a questa carrellata di oggetti in caduta libera, di volti (per citarne alcuni: Bernardo Bertolucci, John Malkovich, Abel Ferrara, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet) e di paesaggi interiori (scene di vita quotidiana, risvegli intorpiditi, giochi paterni e meditazioni ad alta voce), non poteva accompagnarsi un’altra colonna sonora se non quella di Iosonouncane, sempre giusta, sempre ispirata nella sua mistica ed elettronica atemporalità.

Gli ultimi giorni dell’umanità è una lettera d’amore, è un’ode all’illusione, alla realtà sovraimpressa che ci costruiamo (e organizziamo) per vivere oltre quello che ci è dato. Dentro e fuori il tempo che ci è concesso. Il desiderio di ripetizione si realizza solo nel cinema, nello sguardo che si riguarda, che taglia e cuce, che smonta e rimonta, che trema e vibra, paziente.
E l’umano non è altro che una fragile spirale di simboli e analogie.