Amsterdam – Quel brutto pasticciaccio

Giulia Pilon

Dicembre 12, 2022

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Dopo sette anni, David O’ Russell torna a deliziarci con la sua ultima creazione, Amsterdam, facendo ricredere tutti su una potenziale malinconia per la sua assenza.

Commistione tra noir satirico e commedia nera in costume, Amsterdam è una cornice a un racconto confuso. Gli attori – un cast stellare che comprende la presenza di ben dieci divi hollywoodiani – appaiono ricorrersi l’un l’altro nel tentativo di mordersi la coda. La sfarzosità eccessiva – elemento fondante dell’intera pellicola – riflette perfettamente il risultato finale, scialbo e lezioso.

Margot Robbie (Valerie Voze), John David Washington (Harold Woodsman), Christian Bale (Burt Berendsen) sono i tre protagonisti di Amsterdam

Ambientato tra la fine della prima guerra mondiale e i primi passi verso la seconda, Amsterdam racconta l’America, l’Europa e i legami intricati tra questi due mondi culturali. Al centro, un trio, un triangolo amoroso-amicale. Harold, Burt e Valerie. Conosciutosi in infermeria, i tre ridono, scherzano, ballano, si fanno promesse. E poi ballano, si promettono cose e ridono ancora.

Insieme, si trasferiscono ad Amsterdam che, oltre a dare il titolo al film, assurgerà anche a momento santificatore del loro sodalizio: da lì in avanti i tre dovranno sempre aiutarsi l’un l’altro, nel bene e nel male.

Una parte del cast (tra cui Chris Rock e Robert DeNiro, sulla destra) in una delle scene finali del film

Tuttavia qualcosa si spezza, Burt vuole tornare a New York dalla moglie Beatrice, una figlia di papà succube e complice dei soprusi dell’alta borghesia. E, dopo poco, Harold, informato dei guai dell’amico, sceglie di correre in suo soccorso, mentre Valerie viene meno al patto scegliendo di non seguirli in America.

Il legame simbiotico fra i tre – che non può che echeggiare la triade Jules, Jim e Catherine, seppur senza quella malinconia poetica intrinseca dei giovani turchi – si dissolve. Quell’amore si rivela mistificatore.

But they’ll always have Amsterdam, come direbbe un certo Bogart a una certa Bergman.

Da queste premesse – che vengono inserite nel testo come flashback – si dipana poi tutto il resto della narrazione, che vedrà protagonista un tentativo di colpo di stato fascista. Harold e Burt, partners in crime, si ritrovano invischiati in un pasticciaccio che li vede sospettati numero uno nell’uccisione di Elizabeth Meekins.

I tre protagonisti in una scena del film

Lei, figlia di un generale che aveva combattuto coi due in Francia, aveva in realtà contattato entrambi per investigare proprio sulla morte misteriosa del padre. Prima di essere spinta sotto un’auto da un sicario, però, rivelerà un nome chiave: Voze. È da qui che inizieranno le indagini dei due scapestrati, l’uno un particolare dottore dai metodi discutibili, l’altro un diligente avvocato.

Crimini e misfatti aleggiano sulle teste ricercate di Harold e Burt, che dovranno ripulire il proprio nome con l’aiuto di grossi nomi della borghesia newyorkese. È dopo una serie di malcapitati incontri che i due si riuniscono – casualmente – a Valerie.

Sono passati ben dodici anni ma l’unica cosa che sembra aver subito il passare del tempo è la pelle di Christian Bale. Valerie e Harold risvegliano il loro profondissimo sentimento senza nemmeno doverlo rispolverare e tutto torna come prima, in un incontro insipido e anonimo.

Sequenza fondante del pericoloso e disastroso costrutto che è Amsterdam è proprio l’inaspettato e sorprendente incontro fra i tre amici. Sconcertante non solo perché da’ modo ai personaggi già conosciuti di dispiegare appieno la loro piattezza narrativa. Ma anche perché ne inserisce di nuovi altrettanto prosaici.

Paradigmatico, in questo senso, il ricco Tom Voze, fratello di Valerie, che si scoprirà essere parte di una facoltosa famiglia newyorkese da lei detestata. Complice l’inespressività – o meglio la mono-espressività di Rami Malek – il personaggio non coincide con l’idea che la narrazione (e lo spettatore) ha di lui. Così come la moglie Libby, un’Anya Taylor-Joy fin troppo sopra le righe.

Tom Voze (Rami Malek), Libby Voze (Anya Taylor-Joy), Valerie Voze (Margot Robbie)

Tom e Libby Voze riflettono perfettamente l’estetica intrinseca ad Amsterdam. Essi sono, per tal motivo, esemplari della vuotezza terrificante che aleggia per tutta la narrazione.

Mascherato da uno sfarzo eccessivo e abbagliante, e patinato da una fotografia artefatta, il racconto è stucchevole e ripetitivo, esattamente come chi lo abita.

Lascia a desiderare anche la direzione degli attori, che vede un sergente potenzialmente intrigante come Gil Dillenbeck (Robert De Niro) stanco, fiacco e inefficace.

Gil Dillenbeck (Robert de Niro) in una scena di Amsterdam

Christian Bale, abituato a continue trasformazioni fisiche, qui, con quel suo occhio di vetro cadente, annoia, ed è, a tratti, stucchevole. Allo stesso modo, Margot Robbie, a suo agio con i corpi e le voci sopra le righe – vedi Tonya, Harley Quinn, Naomi Lapaglia – è troppo statica e vittima di clichè.

Il sospetto è che O. Russell abbia raggruppato un cast così gremito di star per nascondere il vuoto cosmico che in realtà è la sua narrazione e il suo film. I lustrini, lo sfarzo, l’attenzione minuziosa alla scenografia, la grandezza estetica, non bastano per nascondere una coreografia narrativa scevra di significato. Nemmeno la voce narrante o i montaggi rapidi interni alla scena, cifra stilistica tipica del regista, utilizzata anche in Silver Lining’s Playbook o American Hustle, aiutano. Invece di unire le trame, sono scollati, scollanti e spesso fastidiosi. Non trovano dunque un terreno fertile sul quale piantarsi, proprio perché il fondo è in realtà un cratere che sprofonda lentamente.

Il trio di protagonisti in una delle scene finali di Amsterdam

Il tentativo di O. Russell coincide nella volontà di creare un dettagliato mosaico di una storia tutta americana e, quindi, nel desiderio di esplorare degli archetipi in un determinato periodo storico. Il desiderio sottostante alla narrazione è quello di raccontare delle caratterizzazioni umane che si mescolano l’un l’altra in un puzzle da ricostruire.

Ciò che però il regista non riesce a portare a compimento è proprio la forma di quest’ultimo, che risulta, alla fine, scomposto, incompleto e insignificante. Questo probabilmente a causa dell’infinito amore che viene riposto sull’idea che il regista ha dei suoi personaggi, che non coincide mai con quello che realmente sono. Delle macchiette, abbozzi di modelli.

Questi ultimi, così come i meccanismi narrativi, risultano essere la parodia di sé stessi. Di conseguenza, le azioni – e i valori – di cui si fanno portatori, come l’umorismo, sono ostentati ed esagerati e si vanificano nell’inconsistenza.

È chiara l’intenzione di conferire ad Amsterdam un alone tra il nostalgico, il misterioso, il satirico e il noir. Ma Burt Berendsen non ha un briciolo del fascino di Doc Sportello, e la pellicola non si tingerà mai dei colori dolceamari di Vizio di Forma.

Ma non è nemmeno questo ciò che avevamo chiesto. Volevamo soltanto divertirci.

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