Lynch e Buñuel – Lo spettro onirico della realtà

Roberto Valente

Febbraio 8, 2023

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Una delle ambiguità più importanti, in campo artistico, riguarda la sottile definizione di realtà. L’Ottocento ha palesato lo scontro ideologico ed espressivo tra due diverse modalità di guardare il mondo e di rappresentarlo: la tensione ad una religiosa aderenza alla realtà, che nasconde in sé una forte vena sociologica, e quella di un trasferimento della realtà fenomenica ed emotiva in una zona liminale e onirica, accessibile attraverso i simboli dell’espressione stilistica.

Les Mémoires d’un sains, Renè Magritte.

Il Novecento ha posto questo scontro al centro della sua riflessione linguistica e semantica. La fotografia era la realizzazione compiuta della mimesis, mostrando la possibilità di guardare la realtà senza apparentemente la mediazione umana. Il cinema ha messo in serie queste immagini e ci ha fornito una rappresentazione in movimento di quella che definiamo realtà. Eppure, questo era solo il punto di partenza. Le avanguardie di inizio Novecento hanno dichiarato guerra al linguaggio artistico precedente, ormai avvertito come una serie di consuetudini estetiche fissate e opprimenti.

La loro era una guerra contro il linguaggio, non contro la volontà o possibilità di esprimere la realtà. L’innovazione alla base sta nell’idea che il riconoscimento, quello a cui l’essere umano da sempre tende attraverso la volontà di rappresentarsi, può passare da soluzioni espressive alternative  a quelle conosciute.

Il Surrealismo, tra tutte le avanguardie, ha allargato la propria battaglia al campo semantico attraverso la creazione di una nuova possibile realtà. Questa nuova possibilità è stata sfruttata dal cinema, quando i militanti del movimento ne hanno colto le proprietà di connessione con il mondo onirico.

Questo processo può essere dimostrato grazie alle opere prime di due dei più importanti innovatori dell’arte in immagine dello scorso e di questo secolo. Si parla di Un Chien andalou di Luis Bunuel e di Eraserhead di David Lynch.

Se il cinema “mira a trasformare il mondo in immagini”, come sostiene Werner Herzog, allora possiamo intuire come esso si sia posto in prima fila nell’accogliere quella primordiale necessità umana che Bazin intravedeva nella volontà di rappresentarsi e vedersi rappresentati.

Quando il cinema ha intravisto le possibilità linguistiche dei suoi mezzi, ha imparato a creare delle diverse modalità di sguardo. Quello che il cinema ha conquistato con gli anni, è stata la capacità di moltiplicare le modalità fruitive ed espressive del punto di vista. Insomma, il cinema ci ha insegnato come guardare gli oggetti, i volti, quella che definiremmo realtà e a mettere tutto ciò in discussione.

«Se cercate nella realtà qualcosa di più reale della realtà stessa, rivolgetevi alla finzione cinematografica».

(Slavoj Žižek)

Un Chien Andalou: L’anarchia del reale

Scritto a quattro mani con Salvador Dalì e diretto dal giovane Luis Bunuel, questo film ha rappresentato, nel 1929, un punto di svolta nel processo che vede da una parte il cinema e dall’altra il suo divenire linguaggio del presente. L’opera parte dalla volontà di legarsi alla pratica dell’automatismo tipica del surrealismo; ciò che si vuole colpire è il controllo esercitato dal filtro della ragione quando essa influenza il linguaggio artistico per farsi epifania del reale.

La celebre scena iniziale

A detta degli storici del cinema e dello stesso Bunuel, i due autori avevano deciso di mettere in scena le idee che uno suggeriva all’altro dandosi pochi secondi per decidere se tale idea fosse buona o da scartare. L’obiettivo era quello di eliminare le secolari influenze morali ed estetiche che la rappresentazione richiedeva.

Se il Novecento ha agito ampliamente su uno dei sensi dell’essere umano, quel senso è sicuramente la vista. A tal proposito, ricordiamo la sequenza iniziale di Un Chien Andalou e consideriamo il famoso taglio che il barbiere-artista (Bunuel) compie sulla retina della sua cliente-spettatrice.

Quello del recidere metaforicamente lo sguardo è un potente atto rivoluzionario che decostruisce le certezze in immagini che l’essere umano si era creato attraverso la tradizione artistica, la quale aveva sempre legato l’estetica con la fedele devozione alle forme materiali e date della realtà.


«Ho incontrato Dalì in vacanza. Abbiamo pensato a Un Chien andalou per via di due sogni. Lui ha sognato la sua mano piena di formiche. Mi ha detto il sogno. E io ho sognato un occhio tagliato da un coltello. Lui disse che potevamo fare un film. Utilizzando quegli elementi irrazionali, abbiamo scritto la sceneggiatura in sette giorni. La regola era di rifiutare ogni immagine che avesse un significato razionale, e ogni ricordo o cultura. Significava che ogni immagine che ci appariva, che noi consideravamo impressionante o che ci impressionava, era accettata»

(Luis Bunuel)

Volessimo spiegare di cosa tratta questa enigmatica opera, allora potremmo definirla come una storia che vede un uomo e una donna attratti l’uno dall’altra. I due cercheranno di congiungersi, facendo però i conti con la violenza delle proprie pulsioni sessuali e con i propri retaggi culturali. Per superare questi ostacoli, raggiungere la verità rappresentata dalla possibilità di un incontro, essi dovranno attraversare i simboli che la realtà semina dinanzi a loro.

Le formiche invadono la mano del protagonista

Tali simboli sono rappresentati come un ostacolo alla tensione umanamente corporale e spirituale che li vede protagonisti. Ecco che le formiche che invadono la mano del protagonista divengono metafora per rappresentare una sensazione di angoscia interiore a cui gli insetti si fanno espressione. Così come le primordiali pulsioni umane, essi vivono la propria vita nel sottosuolo, in uno stato di relegazione ad una dimensione liminale del reale.

A ciò si accompagna l’apparizione di diversi oggetti e figure animate. Il protagonista che trascina con delle corde, dalle quali risulta avvinghiato, un pianoforte, degli ecclesiastici, perfino un asino. Questi elementi sembrano a prima vista non essere collegati con la categoria attendibile di aderenza alla realtà. Eppure, dietro questi simboli troviamo una realtà permeante. Le corde, il pianoforte che rappresenta la tradizione artistica accademica passata, i chierici che stanno ad indicare i dettami e le inibizioni che l’istituzione ecclesiastica ha propinato nei secoli con le sue strutture morali ed estetiche.

Allacciando così profondamente il confronto che ogni individuo affronta con la propria emotività e la propria esperienza, condizionate ineluttabilmente dall’identità socioculturale nel quale esso agisce, l’autore smembra il corpo della realtà per ricostruirlo in maniera altrettanto verosimile ma con una rinnovata modalità di messa in scena.

Il carico di retaggi “razionali” personificati in immagini cinematografiche


«Le Chien Andalou di Luis Bunuel è dichiaratamente eseguito secondo un registro di pura espressività: ma, per questo, ha bisogno del cartello segnaletico del surrealismo. E va detto che, in quanto prodotto del surrealismo, è supremo. È La natura onirica e reale del sogno e della memoria inconscia che il surrealismo mette in funzione con il cinema»

(Pier Paolo Pasolini
)

L’opera di Bunuel e Dalì si chiude, con un breve idillio di due personaggi che apparentemente son riusciti ad incontrarsi e amarsi. L’ultima lapidaria inquadratura ci mostra l’uomo e la donna seppelliti dalla sabbia, colpiti e segnati sul volto da una forza invisibile che li ha probabilmente uccisi. Questa forza invisibile è la realtà, con tutta la sua violenza fatta di norme e di retaggi. Quelle corde legate al corpo del protagonista sono state messe in discussione, un occhio è stato squarciato, però la strada da percorrere è ancora lunga.

La dimostrazione degli effetti collaterali o dei vizi di forma del sistema e delle sue strutture, amplificandone le conseguenze sugli individui, denuncia una realtà precisamente per come una generazione (di cui Bunuel è emblema) l’ha percepita. Il gioco sottile di percezione si sostituisce a quello di rappresentazione passivamente fruita, quella rappresentazione che ammicca al fruitore ponendo davanti al suo sguardo il mondo che ci si aspetta di trovare.

Eraserhead: Si può cancellare la realtà?

Nel 1977 il giovane David Lynch, con alle spalle una grande ammirazione per i surrealisti e per la psicanalisi, gira il suo primo lungometraggio. Eraserhead sconvolge una schiera di cineasti e registi, divenendo col tempo un cult che, al pari di Un Chien Andalou, è riuscito a porsi come fonte di ispirazione per le generazioni future.

Vi è però una sostanziale differenza nelle due diverse messe in discussione della nozione di realtà che questi film esplicano. L’opera di Bunuel apparteneva ad un determinato milieu culturale, ad una protesta artistica che tendeva a decostruire un certo linguaggio rappresentativo. Quarant’anni dopo Lynch si pone nel mezzo sì di una altrettanto violenta protesta artistica, rivolta però non tanto contro la tradizione (il linguaggio precedente) quanto piuttosto contro il significato. I luoghi da distruggere non sono gli stilemi, ma i semantemi.

Eraserhead si apre con una sequenza che ci mostra poco della realtà. Un uomo emaciato aziona una leva, un grande masso nello spazio viene mostrato assieme a delle forme che rimandano a degli spermatozoi. In maniera onirica il regista vuole introdurci alla realtà attraverso il concetto di origine. Il film allora ci porta poi a tu per tu con lo sguardo del protagonista, un uomo dalla eclettica capigliatura che si guarda attorno spaesato.

Il momento in cui entriamo nello spazio di realtà

Quello a cui assisteremo, da questo momento, sarà una rappresentazione filtrata dalla soggettività dello sguardo creatore. Al momento dell’uscita del film Lynch aveva trent’anni, conosceva la complessità della responsabilità genitoriale.

«Io ho “sentito” Eraserhead, non l’ho pensato. È stato un processo molto semplice, che partiva dalla mia interiorità e andava verso lo schermo»

(David Lynch)

Come Bunuel, anche Lynch utilizza il linguaggio e la messa in scena di una realtà tradita, seppure in senso diverso. Ciò che accumuna le due operazioni è ciò che allo stesso tempo le separa. I due registi scelgono di dare priorità al sentito spirituale ed emotivo, sentimenti tanto tangibili quanto reali. Come in un sogno, le sovrastrutture temporali (in questo caso cinematografiche del corto e del lungometraggio) perdono di significato.

I riferimenti alla realtà si fanno permeanti, nel bellissimo bianco e nero il protagonista si muove in una città desolata caratterizzata dalla meccanicizzazione del paesaggio e dalla mancanza di altre forme di vita. Così facendo si viene a definire un’iperbole del reale. Dietro quel paesaggio non vi è un nome. Possiamo però intendere come tale città fosse la Philadelphia degli anni Settanta, nella quale il giovane Lynch proietta le proprie insicurezze mentre l’asettica società della tecnica continuava a costruirsi i suoi castelli.

La realtà che possiamo percepire è fatta di isolamento e incomunicabilità. Percepita dall’autore, questa viene poi messa in scena a costituire il mondo che noi possiamo guardare.

Il protagonista è da poco diventato padre di una creatura deforme e ciò non gli permette di accogliere la vita. La sua relazione si sgretola, il rapporto con i genitori della sua compagna diviene motivo di imbarazzo e umiliazione morale.

Fuori dalla finestra del suo appartamento non vediamo nulla, se non un muro di mattoni che impedisce di guardare all’orizzonte. Il suo minuscolo appartamento diviene l’unico luogo in cui il protagonista può trovarsi, non perché rappresenti per lui una zona franca, quanto piuttosto per la mancanza di possibilità di interfacciarsi con l’esterno.

Il protagonista e il suo habitat
Un Chien Andalou si dichiara fin da subito come lontano dalla realtà. Il sogno è l’abbandono necessario alla visione e alla comprensione dell’opera. Lynch, invece, pone delle scene oniriche all’interno di un altro livello narrativo. Come per separare il sogno da qualcosa di più permeante che potremmo, a questo punto, definire realtà.

Proprio in una di queste sequenze oniriche troviamo il punto focale del film. Il protagonista si trova in un luogo indefinito dove si producono gomme da porre sulle matite. Dal suo cervello viene prelevato un qualcosa che diventerà poi una delle gomme che la fabbrica produce.

Dietro questa immagine non vi è solo una denuncia al sistema industriale e al suo rapporto con l’individuo, in particolare con l’artista, ma vi è soprattutto una domanda che viene posta. Può essere possibile cancellare la realtà?

Può il nostro protagonista tornare indietro ed evitare la situazione di isolamento e nevrosi a cui è destinato? Lynch sceglie di mostrarci la sua realtà riprendendo in ogni caso oggetti e situazioni riconoscibili o metaforizzanti. Dei simboli. Li pone però in contrasto con i momenti onirici. La realtà stessa viene vista come un delirio; un delirio che viene percepito dal soggetto e si accorda con ciò che gli sta attorno. Non solo vi si accorda, ma porta addirittura a pensare che la realtà stessa abbia generato le sensazioni a cui assistiamo. La protesta non è palese ma è avvertita, l’artista si trova isolato da un mondo che può solo tramutare ogni rapporto in aggressione.

Eraserhead
Eraserhead (1977) di David Lynch

Ma cosa parliamo quando parliamo di reale?

In conclusione, si potrebbe dire che in ogni caso la realtà è legata indissolubilmente al cinema. Non rappresentare qualcosa di confortante come le immagini che abbiamo costantemente davanti a noi, non riconoscerle, non vuol dire evadere dalla realtà. Il cinema è per sua natura rappresentazione della realtà mediante la visione pura, prelinguistica, spesso mediata da forme ideologiche e simboliche. Esso si trova nella particolare condizione di essere allo stesso tempo rappresentazione di una realtà e la realtà che viene rappresentata. Molto spesso si parla di diverse modalità di fare cinema e ciò porta alla continua ambiguità di termini come realtà. Pier Paolo Pasolini, in Empirismo Eretico, sviluppa la sua idea a proposito del rapporto tra cinema e realtà e ci dice:

«Tanto la mimica quanto la realtà quanto i sogni e la memoria, sono fatti quasi preumani, o ai limitidell’umano: comunque pregrammaticali e premorfologici. Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipi irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale»

(Pier Paolo Pasolini)

Leggi anche: Alla Ricerca della Percezione Cinematografica

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