La violenza e la crudeltà oggi ormai sono il pane quotidiano degli sceneggiatori e dei registi di mezzo mondo. Via via le barriere sono state abbattute e le asticelle spostate “sempre più in la”… Così agli albori dell’horror vi erano i classici di George Romero come La notte dei morti viventi, poi i tempi d’oro “nostrani” col Suspiria di Dario Argento, oppure con il controverso Cannibal Holocaust di Ruggero Diodato. Arrivando poi sino all’irruzione sul grande schermo di Saw – L’enigmista 15 anni fa.
Da allora il genere horror e splatter non ha conosciuto più alcun tabù.
Ma, avete mai sentito nominare i Guinea Pig?
No?
Guinea Pig è una serie di 7 film splatter prodotta in Giappone negli anni ‘80 su ispirazione del mangaka Hideshi Hino. Sebbene avesse avuto originariamente una produzione low-cost e para-amatoriale, ha poi riscosso notevole risonanza a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90… E non solo grazie al girato.
Accaddero degli episodi. Il primo a catalizzare l’attenzione attorno queste pellicole è stato l’arresto del serial killer Tsutomu Miyazaki, nella cui collezione di VHS furono rinvenute le copie dei primi 5 film della serie. Il secondo è stato quello sollevato nel ‘91 dall’attore Charlie Sheen, il quale dopo la visione di Flower of Flesh and Blood invocò l’intervento dell’FBI credendosi al cospetto di una snuff movie (pellicole in circolazione ritraenti torture ed uccisioni reali).
La cosa costrinse i realizzatori della pellicola a dimostrare che nelle riprese horror e splatter furono adoperati esclusivamente effetti speciali, e che nessuno “si era fatto del male”.
Ma occorre deporre in favore dell’attore, poiché, oltre al realismo degli effetti speciali per quei tempi, trae in inganno la qualità semi-amatoriale del girato che soggioga lo spettatore e lo catapulta forse più in un reportage che in un film.
-
Violenza e Crudeltà d’Oriente
Non solo i Guinea Pig, nella recente produzione cinematografica nipponica troviamo una marea di opere sadiche e cruente: violenza e atrocità vengono spiattellate sullo schermo senza scrupolo alcuno. Potremmo elencare un sfilza di pellicole, ma meglio ridurre l’elenco a tre o quattro di questi.
Ichi the killer. Film frenetico e caotico, ritrae la perversa fascinazione subita dai protagonisti verso il sado-masochismo.
Siamo nel contesto della criminalità giapponese, Anjo il capo di una gang della Yakuza viene trovato brutalmente smembrato e l’uccisione scatena una concatenazione di eventi legati da una parte, all’accaparramento di denaro e potere, e dall’altra alla vendetta dell’omicidio del boss.
Da un lato Ichi, giovane psicopatico con pulsioni da serial killer e manovrato dal boss Jijii, dall’altro Kakihara, maniaco sado-masochista e membro della gang di Anjo.
Ichi è una specie di super(anti)eroe vittima di traumi profondi, al punto da ossessionarlo con un desiderio sessuale strettamente legato a quello di morte.
Kakihara è invece semplicemente un invasato capace di sopravvivere solo se quotidianamente a contatto con il dolore: inflitto oppure patito.
Lui, come il Joker, riporta una ferita che dai lati della bocca compie delle curve sino alle guance.
Tenuta insieme da due orecchini, spesso viene da lui scenograficamente adoperata per espellere il fumo di sigaretta dalle guance.
Chi fosse alla ricerca di un genere di film veramente splatter e privo di freni inibitori… be’, dovrebbe vederlo.
Ora, però, “smorziamo il tiro” parlando di un film che, senza violenza, ha a che fare con la morte in un modo fine e delicato. Departures è una pellicola prodotta in Giappone nel 2008, l’anno seguente ha portato a casa l’oscar al miglior film in lingua straniera a Los Angeles.
Narra le vicende di un violoncellista che si trova improvvisamente disoccupato dopo lo scioglimento dell’orchestra con cui da anni si esibiva. Il tutto è contestualizzato nella profonda recessione economica dovuta alla deflazione sofferta dal Giappone fino a qualche anno fa. Daigo Kobayashi è così costretto a lasciare Tokyo e a cercare un nuovo lavoro. Risponde a un annuncio che poco aveva a che fare con la musica: il testo recita “assistiamo coloro che partono per dei viaggi”, ma presto scoprirà che poco aveva a che fare anche con le vacanze.
A distanza di tempo si ritrova immerso nella professione di tanatoesteta, colui che si occupa della procedura di trucco, preparazione e vestizione dei defunti durante le cerimonie funebri nipponiche.
All’inizio dovrà accettare l’impiego colto dalla situazione di bisogno ma, lentamente, il suo animo gentile ed il suo spirito artistico si legheranno a quella delicata professione. Dovrà poi lottare con il disprezzo di chi lo conosce e sdegnosamente non accetta la sua “occupazione”. Fino a conquistare il rispetto di sua moglie e degli amici con la sua arte.
La morte in Giappone può addirittura essere oggetto di gusto sopraffino, ma può rappresentare altresì un rituale.
La morte per suicidio, poi, appartiene alle fondamenta della cultura samurai, la quale ha incarnato la tradizione del Paese sino a poco più di un secolo fa.
Il rituale del Seppuku era un gesto di dignità e purificazione per un guerriero che avesse perso l’onore attraverso la sconfitta o la disobbedienza al “codice dei samurai”.
Forse, ora, meglio possiamo comprendere un film come Suicide Club – conosciuto come Suicide Circle in Giappone – la quale trama è tempestata da un’orda di suicidi in tutto il Paese. La prima scena ritrae 54 liceali sorridenti nell’atto di gettarsi sotto il treno della metropolitana, poi sarà un susseguirsi di lanci nel vuoto e di sparizioni misteriose.
I detective investigativi si troveranno alle prese con un sito web che indica le vittime mediante pallini rossi e bianchi a seconda del sesso dell’interessato, e con una band i cui riferimenti istigherebbero al suicidio chi li ascolta.
Una pellicola interessante, non solo per l’idea morbosamente accattivante, ma altresì per “la ciliegina” della morte (per suicidio) a metà proiezione di uno dei protagonisti principali. Ad ossequio di un grande cult del genere horror, nel famoso Psyco di Alfred Hitchcock, il regista provoca lo spettatore facendo morire la protagonista dopo appena 40 minuti di pellicola.
-
Le radici della Violenza
L’ultimo samurai. Tutti abbiamo ancora davanti gli occhi la scena in cui i samurai periscono sotto i colpi dell’implacabile mitragliatore al servizio dell’esercito giapponese di fine XIX secolo.
Ricordiamo ancora lo sguardo implorante del Comandante Katsumoto chiedere al capitano Algren, alias Tom Cruise, di aiutarlo a compiere il gesto ultimo del Seppuku.
Altra famosissima scena di Seppuku, questa volta collettivo, la ricordiamo in 47 Ronin, con Keanu Reeves protagonista.
Rappresentata nel film con tutto lo splendore e l’intransigente rigore del mondo nipponico.
Ad ogni modo, in entrambi i casi l’onore conseguito sul campo di battaglia e il rispetto, conquistato mediante la nobile causa di difesa di patria e ideali, non è valsa la vita né a Katsumoto né ai 47 prodi samurai.
Questi, infatti, hanno dovuto portare a termine la cerimonia del Seppuku sino in fondo, come la lama penetra l’addome a fondo sino all’elsa. L’aver combattuto un defraudatore, l’aver vendicato una morte innocente non è stato sufficiente a risparmiar loro la vita.
Nel mondo orientale l’altera severità e l’atroce si mescolano, compenetrando persino gli ideali più nobili. Come quello della fedeltà a un codice e ad un Signore a cui è sottomessa ogni cosa. Non interessano, quindi, esclusivamente le oscure pulsioni dell’Uomo come omicidi e torture.
Se ci spostiamo un po’ meno a est, ma poco, in un altro grande Paese dell’estremo Oriente, noteremo che anche nella cultura e nel cinema cinese l’atroce è parte integrante dell’Uomo, sia nelle sue zone d’ombra che in quelle di luce.
Sia nello Yin che nello Yang.
Dai miti e dalla letteratura, i film wuxia cinesi traggono ispirazione per raccontare un mondo a noi, fino a poco fa, sconosciuto.
Narrano le gesta di eroi marziali che, però, non sempre corrispondono all’ideale puro di eroe che regna sovrano nei nostri classici, a Occidente.
Qui le buone intenzioni non sempre appaiono chiare e l’ideale del giusto, contestualmente, risulta controverso.
Nella celebre Hero, pellicola del 2002, il guerriero senza nome interpretato da Jet Li, ad un passo (o meglio a 10) dall’uccidere il re di Qin, si ferma.
Eppure, l’esercito del re fu esecutore materiale dell’assassinio della sua famiglia, nonché colpevole di aver mosso guerra ad ognuno degli altri 6 regni della Cina. Ma, convinto a lasciar perdere la causa vendicativa da Spada Spezzata, guerriero illuminato, decide di fermarsi.
Nonostante sarebbe in suo potere prendere agilmente la vita del re guerrafondaio, nonostante riuscirebbe così a vendicare la morte di persone innocenti, e contravvenendo al patto stretto con i guerrieri Cielo e Neve Che Vola, si ferma.
Il pensiero di Spada Spezzata vivrà anche in lui, riassunto dagli ideogrammi che formano il concetto di tiānxià: sacrificherà ogni cosa per ottenere la pace sotto un unico cielo. Lui, rappresentato dal re destinato a unificare tutti i regni della Cina e porre fine alle guerre.
In questa raffinata pellicola il sacrificio, come spesso accade nei film wuxia, travolge la vita dei protagonisti compreso Senza Nome.
Ora ci è più chiaro di come bene e male possano mescolarsi: come nel giusto alberghi il seme del peccato e nello sbagliato quello della misericordia.
Come nel simbolo del Taijitu il seme dello Yang alberga nello Yin ed il seme dello Yin nello Yang (nel nero il seme del bianco e viceversa).
Andiamo a “scomodare” un altro colosso del genere: La città proibita.
Magnificente prova di ambientazione wuxia, questo film dai colori abbacinanti, dalle riprese e dalle scenografie sbalorditive, è un cesello della tradizione cinematografica cinese. Non per nulla nel 2006 fu il film più costoso mai realizzato nel Paese.
Ebbene, in uno scenario di questo tipo viene incastonata la travagliata storia di una famiglia imperiale della dinastia Tang.
Nella pellicola, l’ambigua condotta da parte dell’imperatore, la sofferenza patita dall’imperatrice ed il finale quanto mai crudele e spietato, non sono sufficienti per decretare nella scrittura una vera e propria condanna a carico del funesto sovrano.
Arrivano a noi il suo carattere altero e severo, il volere sinistro di avvelenare la consorte… ma non una condanna narrativa.
L’imperatore, guida sapiente e dallo spirito inossidabile, ferreo osservatore della dottrina e delle tradizioni, giunge a trafiggere le esistenze di tutti i membri della famiglia imperiale nel nome della propria autorità e dell’ordine delle cose. Rimarrà l’unico, nel finale, a poter ancora banchettare alla tavola imperiale.
La città proibita ci permette di comprendere cosa significhi il rispetto dell’autorevolezza nel nostro amato mondo orientale.
La regola è posta al di sopra di tutto incontrovertibilmente.
Al di sopra delle genti. Al di sopra del buon senso e della morale. E l’autorità che rappresenta la regola, la dottrina, è incontestabile.
Non importa in quali proporzioni il sovrano sia portatore di prosperità o di sciagura: la funzione di rappresentante dell’ordine nelle cose terrene lo tiene al di sopra del dubbio e dell’opposizione.
Capiamo sino a che punto possa arrivare, nelle culture d’Oriente, la devozione ad una regola spirituale e ad un codice di comportamento. Si potrebbe parlare di cieca fedeltà.
E la via da seguire non deve essenzialmente essere connotata da sentimenti quali clemenza e misericordia, è sufficiente che incarni l’ordine laddove regnerebbe il disordine, la certezza laddove imperverserebbe il caos.
Netta è la differenza col nostro mondo occidentale, mondo che forse intuisce “il percorso” in maniera più ovattata: con una moralità e una pulsione verso i sentimenti del giusto e del bene onnipresenti.
Da questa netta differenza di vedute, dalla visione di un cielo impassibile e non misericordioso, di una provvidenza severa e non indulgente, è probabile che sia recata la difformità nel concepimento dell’idea di violenza che in Oriente si ha rispetto all’Occidente.
Leggi anche: L’Oriente, il Cinema, la Poesia e la Violenza dell’animo – La Trilogia della Vendetta