Dovremmo entrare presto nell’ottica che in questi giorni nelle sale è in proiezione uno dei film italiani più importanti degli ultimi trent’anni, lo si afferma qui senza paura e forse con molta incoscienza. Il tempo sarà giudice, come sempre d’altronde, sul destino de Il traditore. Sulla scia di Buongiorno, notte, di Vincere, di Bella addormentata, Bellocchio torna a raccontare di pagine scabrose della recente storia d’Italia. Del pentito Buscetta, del boss dei due mondi, del primo grande collaboratore di giustizia, il cui sodalizio con Giovanni Falcone renderà definitivamente palesi tutte le criminali dinamiche di Cosa Nostra, sino allora avvolte in un’aura di leggenda agli occhi della giustizia.
Ma ogni opera, sulla tela o nella stampa, sulla pellicola o nella carta politenata, non può sottrarsi alla forza centripeta del nome, prima e spesso involontaria scrematura nell’ampio spettro dei significati. E dunque una domanda sorge spontanea.
Chi è il traditore? Cosa è stato tradito? Chi ha tradito chi?
Una breve sinossi, che d’altronde non sono altro che fatti cronaca. In una festa di riconciliazione delle Famiglie organizzata da Stefano Bontate, ricco e influente boss della mafia palermitana e leader della potente loggia dei trecento, Tommaso Buscetta è il primo ad avvertire il clima di insanabile di tensione tra i corleonesi e le antiche famiglie mafiose del capoluogo. Fugge perciò in Brasile, poco prima che si scateni la tragedia annunciata della lupara bianca degli anni ’80. Il gelido contatore delle vittime parte inesorabile sui cadaveri falcidiati dei Bontate, degli Inzerillo, dei Badalamenti e dei Buscetta, in una spirale di ferocia e morte che sembra non avere freni, col contatore che cresce di centinaia in centinaia, come fosse inarrestabile.
Tommaso Buscetta assiste da spettatore impotente dalla sua latitanza in Brasile, consapevole – lui, che è uomo di mafia totalmente immerso nelle dinamiche e nella mentalità mafiose – che presto o tardi, non importa dove si trovi, arriverà anche il suo momento. Il suo, e anche quello della nuova famiglia che, come un gangster d’altri tempi dedito allo sfarzo e alla bella vita, si è costruito oltreoceano.
Lo troverà prima la polizia brasiliana, che dopo disumani quanto infruttuosi interrogatori concede l’estradizione in Italia.
Qualcosa che per Buscetta ha il sapore della condanna, poiché lì sarà impossibile sfuggire alla ferocia dei vincitori. E’ in quei giorni di transizione, transizione nel senso quasi fisico del termine ad indicare un passaggio di stato della materia, che inizia a turbinare quell’idea. I morti e gli spettri del passato gli fanno visita (elemento ricorrente nel cinema di Bellocchio), non propriamente come monito delle pene da scontare – o non soltanto almeno -, ma come profezia del destino che lo attende di lì a poco se non deciderà di dare una sferzata a tutto ciò che è stato sino adesso.
Ma cosa era stato sino allora Buscetta?
Il film vuole e può indagarlo sino a un certo punto, poiché come fu più di dieci anni fa “Il divo”, non è strettamente un film biografico, ma un percorso personale e creativo dietro una figura i cui contorni risultano sfuggenti; uno degli obiettivi che Bellocchio si pone è quello di provare a dare una raffigurazione inconsueta non solo del pentito per eccellenza, ma anche del contesto che si muove intorno a lui, e che non può prescindere da un considerevole tasso di invenzione cinematografica circa la sua sfera privata e i suoi moti interiori – sempre appena accennati, soffusi, mutevoli, doppi.
Non si dimentichi che Buscetta, ultimo di diciassette figli, ha le sue origini in un’umile famiglia di vetrai, di creatori di specchi.
Lo stesso Buscetta ha perso nel tempo gran parte della sua cadenza palermitana, imbastardita dal portoghese verde-oro, ha perso il suo volto dopo ripetute operazioni di chirurgia plastica per sfuggire alla morsa della legge e dei sicari, ha perso la sua stessa voce con un’operazione alle corde vocali. E’ un uomo che ha sempre vissuto nel doppio, nell’ellissi, nel non detto – come lo stesso Falcone intuisce durante le deposizioni -, e che tuttavia ha sempre lottato per conservare se stesso in queste disperate metamorfosi per la sopravvivenza. Ed è proprio per quel principio di sopravvivenza, per sé e per gli ultimi affetti che gli sono rimasti, che decide infine di collaborare, di permettere che venga istituito quel gran teatro del maxiprocesso, nelle cui mirabili scene si respira quasi un’aria da opera buffa; come se nel gran teatro dell’aula bunker si volesse ricreare il climax di quella tragedia, mai associata formalmente agli anni di piombo, ma ad essi direttamente collegata nell’anima, come una grande opera, utilizzando le misure, la musica, i tempi dell’opera, in cui domina stavolta un tragico grottesco.
Il resto è storia: Buscetta, pur con tutte le bugie che forse racconta più a se stesso che agli altri – per convincersi di avere, dopo Cosa Nostra, una nuova causa a cui poter giurare fedeltà – sposerà con indubbia coerenza quella causa. La continuerà dopo la morte di Falcone, personaggio cardine nel suo sviluppo, scegliendo di continuarne a suo modo l’operato attaccando il cuore di uno stato criminosamente assente, se non talvolta connivente, e che stavolta fa di tutto per screditarne l’operato, uscendone infine irrimediabilmente ridimensionato e impotente. I suoi appoggi istituzionali sono morti insieme a Falcone, la trattativa Stato-mafia è ormai in pieno svolgimento, e dunque non gli resta che ritirarsi sconfitto anche in questa sua ultima battaglia, lontano da tutto e tutti, armato di fucile davanti la porta di casa, con il costante terrore che qualcuno – come lui sa per esperienza – possa venire a reclamare il peso del suo tradimento.
Spesso si ha il sentore che opere di questo tipo possano generare ambiguità.
Ne abbiamo spesso sentito parlare nella storia recente a proposito di Gomorra, forse l’esempio più eclatante in tal senso, e verso tale direzione portano indirettamente una serie di botta e risposta tra Favino e il figlio di Antonio Montinaro. E’ come se in questo paese, a differenza di tanti altri come gli Stati Uniti, si avesse quasi timore di parlare dei grandi mali che lo affliggono, vivendo nella paura di esaltarli involontariamente, e per cui non resta altro che un’oggettivazione scolpita con l’accetta, o non parlarne affatto.
Basta però vedere questo film di cui si sentirà parlare a lungo per capire che questa soggettivazione del male di cui Buscetta faceva parte, e da cui poi si è discostato, altro non è che un pretesto per narrare non solo una vicenda umana – umana, non eroica -, ma anche per vie traverse la vicenda di un popolo, di una nazione che quegli anni hanno segnato per sempre.
E, riallacciandoci alla domanda di partenza, chi è infine il traditore?
Nella storia della salvezza evangelica, il personaggio più potente e affascinante è senza ombra di dubbio Giuda Iscariota. Non Simone Pietro, non Giovanni, neanche Cristo stesso. Lo testimonia una schiera sconfinata di magnifici lavori letterari che lo elevano a protagonista indiscusso della Salvezza per antonomasia, come il Giuda del compianto Amos Oz, un piccolo capolavoro e un grande elogio del tradimento, perché “solo chi tradisce, chi esce fuori dalle convenzioni della comunità cui appartiene, è capace di cambiare se stesso e il mondo.” Anche a costo di ogni cosa, anche al costo di veder svanire ogni legame con la sua comunità di appartenenza, perché non vedendo ciò che il profeta vede, la società tenderà a cacciarlo, umiliarlo, tacciarlo come il più infame dei traditori – lo faranno molti leader delle cosche palermitane, amici di Buscetta e chiamati in causa da quest’ultimo nel dossier costruito con Falcone, e lo farà esplicitamente la sorella, disconoscendolo per quel tradimento imperdonabile.
E lo riprende anche Borges nel mirabile racconto Tre versioni di Giuda, dove ipotizza che Dio non scelse di incarnarsi in Gesù, ma ne “l’ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni. (Is, LIII 2-3)”. Si incarnò in Giuda, nel traditore. In colui che prese su di sé ogni infamia e ogni colpa, rinnegato e abbandonato dai suoi amici come dai suoi nemici, pur di porre in atto il cammino della Redenzione per il genere umano.
Ma altro è alla fine dei giochi il punto cruciale del tradimento narrato, perfidamente nascosto tra le righe della cellulosa.
A cinquant’anni dalla strage di piazza Fontana, a quasi trent’anni dalla strage di Capaci, permangono alcuni interrogativi. In un paese dove sono accaduti fatti incredibili, in una regione dove sono accaduti fatti incredibili (attentati, tentativi di colpi di stato, esecuzioni, rapimenti, avvelenamenti), questi sono passati via come nulla fosse, senza che qualcuno si buttasse dalla finestra – o che venisse buttato giù dalla finestra.
E indirettamente, proprio su queste dinamiche a lui molto più vicine, Bellocchio getta uno sguardo sarcasticamente malinconico (quel sarcasmo, che gli è sempre stato proprio). Non cinismo, né ironia – il suo cinema è sempre pregno di uno sguardo cattivo nel mostrare le sfumature umane, specie le sue bassezze, eppure mai pienamente distaccato da quest’ultime, come se in quanto mostrato si avvertisse una costate e gelida pietas.
Un sarcasmo per le promesse disattese, per i proclami rimasti tali, per una lotta che ha visto anche i più strenui oppositori di Falcone salire sul carro dei vincitori, lotta che però non si ha la forza e, come mostrato, neanche la volontà di portare avanti sino in fondo, proprio perché intimamente collegata a questa terra.