“Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, “creature di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.”
(Carver)
Queste parole, battute per la prima volta su una vecchia macchina da scrivere, provengono da Da dove sto chiamando, l’ultima raccolta di racconti del maestro della poetica del non-detto, dell’autore di riferimento del minimalismo letterario americano, dell’uomo e scrittore Raymond Carver.

Raymond Carver
L’interconnessione tra vita e produzione creativa è l’asse portante della letteratura carveriana, essendo lui un autore costretto a prediligere la dimensione della narrativa breve per pura contingenza esistenziale. Ray, immerso nelle trame di una vita che lo rese sposato e padre a vent’anni, era vittima della necessità delle circostanze quotidiane e, scrivendo nelle pause tra un pannolino e l’altro, tra un bicchiere e l’altro, nell’automobile parcheggiata aspettando i figli a scuola e nei pochi weekend liberi, non aveva la forza per sorreggere il peso di un romanzo.
Tuttavia, riuscendo a trasformare tale contingenza in passione, Carver divenne maestro dei racconti brevi, di quella narrazione che, senza indugi, mostra un frammento di vita. Sempre di vita, poiché lo scrittore riporta ciò che ha essenzialmente esperito nel proprio quotidiano e, essendo figlio di un operaio di segheria e di una cameriera dell’Oregon, rivela il volto dietro la maschera dell’America, di quell’America che vive nelle periferie, animata dalla più alienante banalità esistenziale. I personaggi dei racconti di Carver, infatti, rappresentano la gente comune, coloro che, oppressi dalle proprie abitudini, esigono di essere amati e salvati dal mondo oltre che da sé stessi. Si narra di uomini che, aggrappandosi a tutto ciò che sembra offrire loro una speranza – che sia un’amante, fiumi d’alcool o uno sfogo violento – lottano per non annegare in un mare di umana disperazione.
Paradossalmente, però, nei racconti di Carver non sembra accadere nulla. In Carver, come nella vita, la maggior parte delle cose sono già accadute, oppure stanno per accadere. L’autore, in quanto rappresentante della narrazione del non-detto, o meglio del non-scritto, decide di non raccontare il momento decisivo di un personaggio, poiché la vita, sempre la vita, non è fatta solo di momenti decisivi. La realtà, infatti, è molto spesso poco entusiasmante, noiosa e profondamente abitudinale. Tuttavia, Carver, consapevole che ogni frammento di vita, come ogni piccola goccia nell’immenso oceano, valga la pena di essere narrato, decide di raccontare non il frammento determinante, ma quello immediatamente prima o irrimediabilmente dopo. Carver racconta ciò che vede e vive, semplicemente. Uno degli esempi più interessanti è Con tanta di quell’acqua a due passi da casa, appartenente alla raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, in cui viene rappresentato un weekend di pesca tra amici, inizialmente interrotto dal ritrovamento del cadavere di una ragazza bloccato nell’ansa del fiume, per poi riprendere nell’indifferenza generale dei protagonisti che, divertendosi, pescando e bevendo si comportano come se nulla fosse.
Insito negli illimitati confini dell’azione umana si rifugia un vero e proprio autentico mondo; infatti, nessun agire si può definire compiuto, poiché la sua espressione si basa su un passato imperscrutabile e si rivolge a un futuro insondabile, rivelando come qualsivoglia fare abbia qualcosa da dire. In questo modo, lo scrittore rivela l’imprevedibilità del banale, la straordinarietà dell’ordinario racchiusa nella vita di ciascuno, raccontando così ciò che tradizionalmente la narrativa ha scelto di omettere.
Essendo squarci di vita vissuta, i racconti di Carver si rivelano essere minuscole vicende secondarie, oneste e sincere, proprie di una trascurabilità assolutamente necessaria. Un racconto, infatti, sostiene l’autore, non ha bisogno di arrivare al momento in cui si parla d’amore, per parlare d’amore.
Chi più rimase folgorato dall’essenzialismo carveriano fu senza dubbio il grande Robert Altman. Nel 1990 il regista, per superare le lunghe ore di un volo transoceanico, portò con sé una raccolta di racconti di Carver che lesse, inevitabilmente, tutto d’un fiato, tanto che una volta atterrato a Los Angeles decise di realizzare un film su nove di tali narrazioni e una poesia. Siamo nel 1993 e nasce America Oggi.
Tuttavia, Altman nota un filo rosso che sembra accomunare le trame della narrazione carveriana: la vita, sempre la vita, permette a quei frammenti di realtà di trovare un ordine nel caos, di completarsi in un puzzle, di disporsi in modo tale da divenire un autentico mosaico.
Il regista, infatti, non intende semplicemente trasporre cinematograficamente i racconti a sé stanti dello scrittore (uno dei quali è proprio Con tanta di quell’acqua a due passi da casa), ma decide di intrecciarli, di mescolare le storie e di far scontrare le onde dei destini dei singoli personaggi. L’imprevedibilità propria del caso diviene il filo conduttore che lega il cammino di 22 personaggi in cerca d’autore – chi più sulle orme di Raymond Carver e chi invece più influenzato da Robert Altman – e di sé stessi.
Nell’arco di quattro giorni a Los Angeles, dalla notte della disinfestazione aerea alla giornata del terremoto, il regista narra di un’America che trascende il tempo, di quell’America che rimane eternamente oggi, pervasa da un cinismo e un’apatia dilagante, generatrice di uomini alienati e alienanti. In America oggi, infatti, muoiono due figli, avviene un omicidio, un suicidio e nessuno si mostra in grado di salvarsi, mostrando un grande affresco corale tinteggiato dalle pennellate esistenziali di tutti e 22 i personaggi.

America oggi (1993)
Rivelando solo alcuni giorni della quotidianità propria di questi soggetti, non emerge alcuna loro evoluzione o introspezione, e non sembra accadere nulla di rilevante. Eppure, succede di tutto. Eppure, la vita, sempre la vita, anche la più banale o ordinaria possibile – una battuta di pesca tra amici o un litigio di coppia – si rivela degna di essere raccontata. Infatti, dietro a una cena tra amici e pick nick nel prato si nascondono tradimenti, morti e bugie.
Altman, come Carver, racconta ciò che vede, legge e vive, semplicemente.
“Il Cinema è la possibilità di vivere molte vite” (Robert Altman)
Mostrando autentici frammenti di vita, è come se Altman, riprendendo gli insegnamenti carveriani, riuscisse a rappresentare cinematograficamente sinceri lampi di esistenza vissuta, come se narrasse storie senza un inizio o una fine definita, come se la cinepresa potesse furtivamente entrare e uscire nei pezzi di vita dei personaggi.
Se Carver si erge rappresentante della poetica del non-scritto, Altman ne assume il ruolo per la poetica del non-mostrato.
America oggi narra la realtà semplicemente come accade, e il risultato è una storia che drammaticamente si rivela senza l’evoluzione di alcun personaggio e senza un fiabesco lieto fine. Il terremoto finale, infatti, in grado di interrompere per un istante tutti i protagonisti dalle loro azioni futili, mostra come nemmeno un evento catastrofico possa modificare gli equilibri e i destini ai quali sono condannati.

Robert Altman, Maryl Streep e Paul Thomas Anderson
L’allievo dichiarato di Robert Altman, tuttavia, un certo Paul Thomas Anderson, con il suo Magnolia riprende l’idea dell’evento catastrofico del maestro, ma ne rivoluziona l’assioma. P.T. Anderson, infatti, narra di una pioggia di rane che redime i personaggi, che conduce a un possibile lieto fine.
“Se qualcuno vorrà chiamarmi Bobbie non sarà certo un problema per me, anzi. (…) Ho rubato da Bob come meglio ho potuto. I suoi film e l’uomo che è stato sono stati la più grande impronta alla mia immaginazione”
(P.T. Anderson)
L’influenza che ebbe Robert Altman, e quindi un po’ anche Carver, sul regista statunitense contemporaneo fu fondamentale per la sua formazione. Nell’ultimo film del maestro, Radio America, l’allievo aveva il ruolo di aiuto regista, mentre il capolavoro dell’allievo Il Petroliere è dedicato al maestro.
In Magnolia, l’autore compone un immenso affresco raccontando la vita di nove personaggi che, durante un solo giorno nella San Francisco Valley, come in America oggi, per una serie di coincidenze, stranezze e fatalità, banalmente si incontrano.
P.T.A. ha sempre ammesso il suo incalcolabile debito nei confronti di Altman, quindi non risulta strano come il poliziotto Jim di Magnolia (John C. Reilly) si riveli essere un rovesciamento opposto a quello di America oggi (Tim Robbins), oppure come il suicidio della violoncellista (Lori Singer) con il gas della macchina nel film di Altman si trasformi nel tentativo fallito di Linda (Julianne Moore).

Magnolia (1999)
Lo sguardo sul mondo dell’allora ventinovenne P.T. Anderson sembra essere più ottimistico e fiabesco rispetto al realismo duro e crudo di un sessantottenne Robert Altman. Se il maestro, insieme a Carver, nelle trame di una società ormai esplosa, racconta la storia dei suoi detriti, l’allievo narra di come questi detriti tentino di assemblarsi intorno a una nuova forma di aggregazione: la consapevolezza di sé stessi.
I personaggi di Magnolia, come quelli di America Oggi e dei racconti carveriani, sono personaggi in uno, nessuno e centomila pezzi, vittime della loro stessa esistenza, senza più alcun appiglio al quale aggrapparsi. Tuttavia, acquisendo l’insegnamento dello Shakespeare richiamato da Anderson – secondo cui noi possiamo chiudere con il passato, ma è il passato a non chiudere con noi -, i protagonisti imparano che l’unico modo per redimersi sia un’autentica consapevolezza e quindi accettazione di sé stessi. L’ultima scena del film, infatti, accompagnata dalle armoniose note di Wise Up di Aimee Mann, mostra l’evoluzione del personaggio di Claudia, figlia costretta per tutta la vita a portare con sé le colpe del padre, attraverso un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.
“Tutte le storie devono far parte della stessa storia: non devono sembrare dei frammenti, ma avere un unico legame. Sto cercando in tutti i modi di costruire un solo racconto”
(P.T. Anderson)
Magnolia racconta l’accadere di nove storie, storie di personaggi con vite ed esperienze diverse, ma accomunati da un medesimo filo rosso; storie che si sfiorano senza mai toccarsi; storie che, come fossero petali di uno stesso fiore, radici di uno stesso albero, lacrime di uno stesso pianto, succedono, semplicemente.
Se Carver narra racconti indipendenti l’uno dall’altro, degli autentici frammenti di vita, con Altman questi trovano interconnessione, generando un microcosmo di matrice universale; con lo sguardo totalizzante di Anderson, invece, i frammenti attuano un processo di sintesi, divenendo un unico racconto, un autentico mosaico costruito pezzo dopo pezzo.
In questo modo, Raymond Carver, Robert Altman e Paul Thomas Anderson si rivelano essere autentici narratori americani, maestri dell’epica del quotidiano, capaci di rivelare l’essenziale nei fugaci momenti di vita quotidiana, far emergere un intero mondo racchiuso in racconti brevi, sostenere come valga la pena narrare frammenti di qualsiasi vita, e mostrare il volto di quell’America che spesso si tenta di dimenticare.