Ombre Platoniche e Meta-Cinema

Tommaso Paris

Aprile 24, 2021

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Ombre Platoniche e Meta-Cinema

Immaginiamo dei prigionieri che, fin dalla nascita, sono incatenati negli abissi di una caverna oscura, costretti a guardare le mura di una parete e, impossibilitati persino a voltare lo sguardo, osservano le immagini e i frammenti di vita che si manifestano davanti ai loro occhi. Tuttavia, essi non sanno che dietro di loro è presente un fuoco che proietta le ombre di cose, animali e persone generate da altri uomini, accompagnate dall’eco delle loro voci. I prigionieri, non avendo esperito alcun fenomeno del mondo esterno, scambiano le ombre per la verità, condannati a credere che questa illusione sia l’unica e autentica realtà.

Attraverso questa allegoria, Platone nel VII libro de La Repubblica, esplica la condizione esistenziale umana poiché, rivela Socrate all’interlocutore Glaucone rimasto stranito dall’immagine di quella narrazione, i prigionieri «somigliano a noi». Analogamente alla caverna platonica, l’uomo è condannato a credere alle ombre e non alla verità che si cela dietro di esse, alla rappresentazione e non alla realtà, alla doxa e non all’episteme, al fenomeno e non al noumeno, a un mondo sensibile eternamente in divenire e non all’iperuranio, casa del mondo delle idee.

La caverna platonica

Platone, dunque, ipostatizzando una realtà intellegibile, immutabile e perfetta, caratterizzata da un’oggettività assoluta capace di determinare e trascendere il mondo esperienziale, caotico e transitorio, costituisce un dualismo di matrice ontologica e assiologica: la miccia che accende uno dei primi fuochi che definirà il corso della cultura occidentale.

Sarà proprio il platonismo – con l’affermazione di un ordine “vero” di realtà e la separazione di due mondi contrapposti e subordinati, secondo il profetico Friedrich Nietzsche, ciò che segna la prima manifestazione del nichilismo, il primo passo verso quel sentiero ininterrotto di decadenza che conduce all’annuncio nietzschiano della morte di Dio nel 1882. Attraverso la trasvalutazione dei valori e il totale disancoramento da tutto ciò che fosse considerato ultimo o risolutivo, la Verità smarrisce il proprio carattere assoluto e universale, rivelandosi frammentata, prospettica ed eternamente parziale, segnando il tramonto del dualismo platonico di realtà-apparenza.

Nietzsche, infatti, ribalta lo schema che sino ad allora aveva accompagnato l’occidente; con un’autentica rivalutazione delle ombre platoniche, attribuisce a metafore e menzogne un significato ontologico, rivelando come, paradossalmente, «le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria». Se, come scrive il filosofo in Verità e menzogna in senso extramorale, la verità è nulla più che «un mobile esercizio di metafore», allora la più ingannatrice delle illusioni risiede nella credenza – ora svelatasi essere una vera e propria fede – in verità aprioristicamente concepite come oggettive e universali, di cui tutto il resto è copia meramente subordinata. La realtà, dunque, inconsapevole della sua costitutiva «natura illusoria», si rivela la vera menzogna; mentre l’ombra, conscia della propria sostanza metaforica, prospettica e perpetuamente in divenire, traspare più reale della realtà.

Friedrich Nietzsche

Dunque, scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, «col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente», e l’illusione si svela essere «la vera e unica realtà delle cose», una delle tante metafore create in quanto verità prospettiche che orizzontalmente dialogano tra loro, senza la pretesa di alcuna superiorità ontologica e valoriale.

Il filosofo tedesco, rimanendo all’interno della caverna, rinobilita le ombre platoniche, quell’espressione rappresentazionale e imitativa che tanto ricorda l’arte cinematografica, tanto da far pensare che non sia solo una coincidenza che, dall’annuncio della morte di Dio alla prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière – La sortie des usines Lumière (1895), – siano passati solo tredici anni.

Il cinema, dunque, si rivela essere molto affine alle illusioni di nietzschiana memoria poiché, sin dall’origine, è esplicitamente consapevole del proprio carattere illusorio, prospettico e parziale, ma soprattutto della sua possibilità di poiesis artistica e immaginifica, creando mondi e soggetti metaforici capaci di essere più veri della Verità.

La rivalutazione delle ombre platoniche, dunque, implica anche la rivalutazione dell’arte rappresentazionale in senso lato che, in quanto illusione consapevole di se stessa, si svela paradossalmente più reale del mondo vero. Lo stesso Nietzsche affermava come l’esperienza della tragedia sperimentata a teatro fosse una manifestazione della vita vera, una finzione profondamente realistica. Ci sono casi, tuttavia, in cui questa dinamica si manifesta all’interno della rappresentazione stessa – un’illusione nell’illusione -, addentrandosi in un quadro di meta-narrazione nella quale l’elemento metaforico si rivela essere l’unico portatore di verità.

L’Amleto shakespeariano, ad esempio, per rivelare la congiura contro il padre defunto, decide di mettere in scena l’accaduto in un’opera teatrale, tramutando così la realtà in racconto. Amleto, paradossalmente, tenta di smascherare la finzione attraverso la finzione e, concependo il teatro come specchio della vita, rivela il mondo vero attraverso una rappresentazione.

Amleto di Shakespeare

 Nell’immaginario di Platone così inteso, l’elemento meta-teatrale e meta-cinematografico rappresenterebbe la produzione artistica del mondo dell’illusione: la mimesis. Il filosofo greco, infatti, scredita apertamente l’arte, la poesia e l’espressione rappresentazione in senso lato, poiché nella sua cornice filosofica si rivela essere ombra delle ombre, copia della copia, imitazione del mondo sensibile che a sua volta è imitazione del mondo delle idee.

Nell’infinito orizzonte di possibilità proiettato su uno schermo di una stanza buia, simile a una caverna e a una sala cinematografica, esiste una forma particolare di meta-cinema nella quale la settima arte diviene un elemento centrale e interno nell’evoluzione della narrazione, cosicché, attraverso l’entità meta-rappresentazionale, i film e l’immagine metaforica si dichiarano esplicitamente illusioni consapevoli della loro «natura illusoria».

Le ombre platoniche e meta-cinematografiche sono rappresentate da una fotografia sviluppata e ingrandita dal protagonista di Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni che, solo attraverso una forma rappresentativa della realtà, scopre un omicidio, sfuggito all’occhio, ma non all’obiettivo; ma sono anche le videocassette presenti in Kynodontas (2009) di Yorgos Lanthimos, che permettono alla Figlia Maggiore di accedere a un grado più autentico di esistenza rispetto alla caverna platonica in chiave contemporanea del regista greco. In questo quadro, appare chiaro come il cinema possa permettere di uscire dal mondo per rientrarci con una nuova consapevolezza, di parlare della realtà più della realtà stessa, di rivelare la verità attraverso la menzogna, poiché, paradossalmente, sarà proprio attraverso alcune ombre platoniche – denominate Lo squalo, Flashdance e Rocky – che la Figlia Maggiore riuscirà a uscire dalla caverna.

Kynodontas (2009) di Lanthimos

Il cinema è dunque salvifico e redentivo, è etopoietico direbbe Foucault – in quanto poiesis dell’ethos, costituzione del «modo di essere di un individuo» -, lasciando in sottotraccia come, a volte, siano proprio le illusioni, l’alterità e le ombre nella loro autentica sincerità a permettere una comprensione più profonda di se stessi e del mondo.

In un senso di matrice esistenziale, all’interno della settima arte è possibile ri-trovarsi – come il giovane Hugo Cabret, il vecchio papà Georges Méliès e, meta-cinematograficamente, lo stesso regista del film Martin Scorsese -, ma è al contempo plausibile perdersi – come Filip Mosz, protagonista di Cineamatore (1979) di Kieślowski.

Tuttavia, è anche possibile ritrovarsi per poi perdersi in un secondo momento, come racconta l’evoluzione dall’infanzia alla maturità del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso (1988) o la parabola del personaggio di Cecilia ne La rosa purpurea del Cairo (1985) di Woody Allen. In quest’ultimo film, la dimensione meta-cinematografica e la relazione apparenza-realtà è talmente esplicitata che all’interno della sala – o, per dir si voglia, della caverna – un personaggio della narrazione fuoriesce dallo schermo relazionandosi alla protagonista, e poi all’attore reale che lo interpreta, richiamando le sfumature di Sei personaggi in cerca d’autore (1921) di pirandelliana memoria, in una eterna danza con l’illusione sulle note nate dalla dialettica tra metafora e verità.

Il film di Woody Allen ribalta lo schema di Sherlock Jr. (1924) di Buster Keaton, nel quale il protagonista, addormentandosi durante una proiezione, entra nello schermo cinematografico per poi svegliarsi e scoprire che le sue problematiche si sono risolte di per sé, ricongiungendosi con l’amata. Tuttavia, senza sapere veramente come approcciarsi, osserva due amanti sullo schermo del cinema, imitandoli, alternando la scena “reale” da quella filmica, così da creare un gioco di sguardi a tre tra lo spettatore, il film e il cinema in quanto tale.

Buster Keaton in Sherlock Jr

Le ombre, le metafore, il cinema, dunque, consapevoli della loro «natura illusoria» si rivelano essere realtà più vere della Verità; come, analogamente, i replicanti di Blade Runner (1982) si mostrano «più umani degli umani».

Non resta che affidarsi all’illusione, accettare il carattere eternamente in divenire della realtà e «trasformare la contingenza in passione», direbbe Jean-Paul Sartre. Un po’ come Thomas, il fotografo di Blow-up, che nel finale rincontra la compagnia di mimi – raffigurazione del meta-cinema per eccellenza – che, richiamando certe sfumature felliniane, giocano a tennis senza pallina e senza racchette. Il protagonista, forse consapevole della realtà dell’illusione, accetta il gioco, prende la pallina invisibile caduta sul prato e la rilancia.

«Se tutto fosse illusione e nulla esistesse? In questo caso avrei speso decisamente troppo per il mio tappeto».
(Woody Allen)

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