Parlare del significato filosofico di un’opera come Blow-up (1966) è un invito a leggerla sotto una prospettiva che probabilmente Antonioni non avrebbe accettato. In questa pellicola così nuova, e per certi versi così lontana dalla drammaticità abissale che caratterizza il cosiddetto ciclo dell’incomunicabilità (L’Avventura, La Notte, L’eclisse e in particolare Il Deserto Rosso), la tragicità risiede, nascosta, tra le pieghe sgranate di una fotografia: non sembra esserci alcuna idea.
«Il fotografo di “Blow-up” non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge. Questo è un po’ il senso di “Blow-up“».
(Michelangelo Antonioni)
Nonostante Thomas non sia un filosofo, è seguendo i contorni del suo oggetto, metafora dolorosa della (non) conoscenza umana, che un contatto con la filosofia diventa possibile. Liberando quest’opera dal suo tempo, per connetterla al tempo di ognuno, lasciamo che lo spazio filmico diventi lo spazio visibile di una domanda antica: Blow-Up ci propone una domanda filosofica. Fino a dove il nostro sguardo può arrivare? Ma soprattutto fino a che punto il reale si lascia inglobare dal nostro sguardo, e ancor più dalle nostre pretese?
Londra, 1966: Thomas esce in fila con altri da un ospizio, sporco e assonnato. Le sue fotografie ritraggono in posa le carni di ragazze, modellate e travestite, dipinte in viso; un carro con dei giovani mimi, appare come uscito da un circo. Fanno festa e chiedono soldi. Gli stessi, attori senza un pubblico, riappariranno all’epilogo divertiti e giocondi di fronte al mistero. Ma quale mistero?
Il mistero dell’invisibile, e dell’immaginabile che rende visibile; di tutto ciò che non si può vedere, ma che inspiegabilmente ci appare, a distanza, se solo ne accettiamo il gioco.
Nella nuda realtà giace, non morta, ma soltanto addormentata, l’opinione di un bambino, la certezza di uno schizofrenico, o di un cieco. Di chi, in un modo o nell’altro, vede il mondo senza fagocitarlo, perché ne accetta senza resistenza le contraddizioni. Il mondo è così, per loro: una mistura di percezione e immaginazione, a intermittenza. Invece, come in un limbo, Thomas si muove alla ricerca ostinata di un’immagine appropriata, che sia per sempre custode fedele di realtà concreta, verace, presente.
Sul significato di Blow-Up: Husserl e la costituzione della cosa
Nelle densissime pagine del primo libro di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), Edmund Husserl tesse, per la prima volta dopo il 1901, le fila di una nuova ricerca. Una ricerca infinita, attenta ai buchi, mai riempiti dalla tradizione, che corrodono la storia della coscienza trascendentale e in particolare della coscienza scientifica. Anche la cosa ha la sua incredibile storia: si costituisce in noi e attraverso di noi, portando tuttavia con sé un orizzonte indefinito di oscurità.
Irraggiungibile nella sua interezza, essa è piuttosto simile all’idea kantiana (la quale non deriva dall’esperienza, ma ne guida il procedere). È un polo teleologico, un fine elevato, certo, ma che mantiene pur sempre la forma di un desiderio. E come un desiderio non trova appagamenti completi, né soddisfazioni:
«Ciò che è attualmente percepito, ciò che è più o meno chiaramente compresente e determinato (o almeno determinato in certa misura), per quanto sempre soltanto in modo imperfetto, è in parte attraversato, in parte circondato da un orizzonte di realtà indeterminata oscuramente consaputo. In questo orizzonte io posso affondare, con risultati variabili, i raggi dello sguardo chiarificatore dell’attenzione».
(Edmund Husserl, “Idee I”)
La soggettività empirica del fenomenologo deve farsi sguardo neutrale, sovra-personale. Essa deve abbandonare l’atteggiamento naturale dentro il quale vive da sempre, per intraprendere un percorso innaturale quanto radicale. Thomas sembra ricercare la stessa radicalità, quando da fotografo di vita vissuta si trasforma in un ricercatore attento. Il suo sforzo, la sua perdizione, il suo atterraggio in una verità nuova, sembrano i passaggi necessari alla conoscenza, oppure al disincanto che segue la scoperta di averla mancata.
La cosa si dà per manifestazioni, per adombramenti. Di essa nell’effettivo non vedo che lati, ma non sono i lati che io intendo, quando guardo un oggetto. Io vedo sempre, in ciò che è dato, un senso. Il reale, nonostante sia sempre connesso a un vissuto, è irriducibile a esso. E nonostante in Husserl vi sia una certa fede nella “presenza”, un positivismo senz’altro ingenuo, la sua coscienza filosofica non è mai tracotante: richiamandosi ai limiti dell’esperienza vissuta, egli constata che l’oggetto è irraggiungibile nella sua interezza: conoscibile, all’infinito. Mai del tutto conosciuto.
«Anche per il lato effettivamente visto risuona il grido: avvicinati maggiormente, guardami modificando la tua posizione, cambia la direzione dello sguardo, ecc.; riceverai da me ancora qualcosa di nuovo da vedere […]. Ciò che è sempre di nuovo conosciuto è sempre ancora sconosciuto».
(E. Husserl, “Lezioni Sulla Sintesi Passiva”)
In una delle poche riflessioni che ci sono giunte di Husserl, quest’ultimo richiama al suo bisogno quasi viscerale di chiarezza, di evidenza, soprattutto verso la fine della sua vita. Una chiarezza, oserei dire, fotografica. Il conoscere fenomenologico è anch’esso associato alla “visione”, alla cosiddetta visione d’essenza o intuizione categoriale. Da un punto di vista metodologico, il fenomenologo e l’artista procedono insieme: il particolare esibisce, in tutta la sua complessità sensibile, la semplicità di una struttura universale.
Anche Thomas ricerca l’essenza, la rincorre con passione in una ragazza-immagine. I suoi scatti repentini seguono le sue intenzioni percettive, le sue pretese di conoscenza fino all’amplesso finale: una sorta di “orgasmo” arrivato con fatica. Si tratterà di una piccola luce, un abbaglio conoscitivo destinato a svanire nella densa oscurità di tutto ciò che ancora ignora.
Nondimeno, Husserl non può assumere né ammettere una realtà assolutamente altra da quella che, secondo le condizioni di possibilità dell’apparire, siamo destinati a recepire. Egli non può considerare propriamente fenomeni degli oggetti e delle situazioni che non rispettino parametri fenomenologici. Detto sinceramente, per Husserl non vi è ragione né di ammettere né quindi di assumere qualcosa che trabocchi dai limiti della fenomenologia trascendentale: un qualcosa del genere risulterebbe letteralmente indescrivibile.
In Blow-Up è come se trovassimo il fallimento di questo pensiero della presenza, e il sorgere di un pensiero, ovviamente metafisico, dell’assenza: il reale è ciò che resta assente, è il residuo di ogni nostro gesto conoscitivo. Il reale si perde nel dettaglio, si perde nell’analisi, si perde nell’ingrandimento. È come se ci dicesse, ribaltando la frase husserliana: «guardami da lontano, e in questo modo mi verrai più vicino».
Sul significato di Blow-Up: l’ingrandimento fotografico
È mattina. In un parco periferico Thomas incontra due amanti, e di nascosto scatta loro delle fotografie. Le vorrebbe inserire alla fine del suo libro violento e disperato: un bacio appassionato in un orizzonte di orrore. Cosciente di chissà quale colpa, la donna vorrebbe sottrarre il proprio corpo immorale all’evidenza dell’immagine, vorrebbe eliminare l’immagine, o appropriarsene. Decide di presentarsi a casa di Thomas, agitata e impaziente: sa di essere la guardiana di un segreto inconfessabile. Ma il mestiere del fotografo è questo: rubare per sempre al reale la sua verità. Eppure, quanta verità si nasconde nel reale… quanto è reale la distanza tra ciò che pretendiamo di incontrare, e ciò che effettivamente accade.
L’ingrandimento sempre più profondo dell’immagine porta Thomas a vedere, in maniera via via più confusa, l’imminente avvento di un omicidio. Questo evento inquietante, realizzatosi ormai, si celava dietro l’immediatezza del suo sguardo. Era sfuggito al suo occhio, ma non al suo obiettivo. Questa presenza pesante, inaspettata e inappropriata, sembra essere l’unica, autentica traccia del reale: l’incontro con l’inintelligibilità del fenomeno, lo scacco dell’occhio umano, e anche della sua fotografia.
Il richiamo husserliano all’irraggiungibilità assoluta della cosa è tanto più forte quanto più il reale è già di per sé difficile da trattenere. Allora si guarda più a fondo la cosa, cercando di tratteggiarne la struttura, di coglierne l’essenza. Thomas si adopera per appropriarsi del reale eclissato dalla bassa qualità dell’immagine, ma più si avvicina all’oggetto e più esso scompare.
Blow-Up: l’assenza
Il cadavere dell’amante, che Thomas ha visto disteso nel parco alle prime luci dell’alba, è scomparso come scompare l’oggetto di un’allucinazione. Forse tutto è stato immaginato: il parco, gli amanti, l’omicidio. Un’illusione nata dal troppo osservare, dal troppo ruminare. Una punizione, forse, per aver voluto scomporre le fondamenta di un’immagine, fino a renderla un’immagine informe, un dipinto astratto (simile a quei dipinti del suo amico pittore Tom).
La razionalità del dato, dell’attualmente presente, non può più esibirsi come condizione di un incontro tra Thomas e la realtà. Il reale, sciolto dalle maglie prepotenti della presunzione umana, è adesso assente. Ma l’assenza rivela una fenomenicità diversa, intraducibile, quasi miracolosa.
È proprio l’ultima scena a rivelarci che l’intero Blow-Up è una metafora. Riappare, a chiudere il quadro, il carro dei circensi apparso all’inizio. Uomini e donne felici, di una gioia quasi infantile, tipica di certe figure felliniane. Thomas assiste, in quel parco che è adesso un non-luogo, al gioco di una pallina da tennis che nel film non appare: eppure lui sembra vederla, insieme a tutti gli altri, trafiggere il vento; sembra sentirne i colpi violenti, lontani…
«Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai, o forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà».
(M. Antonioni)