Paolo Fiore Angelini racconta La rivoluzione non è più quella
9 maggio 2022.
Centro occupato in via Emilio Zago 1, Bologna.
Frammenti de La società dello spettacolo di Guy Debord vengono distribuiti insieme a birre e alla proiezione di un film, di un sogno intimo e personale che vissuto insieme diventa collettivo, di un’esperienza che può autenticamente definirsi Cinema.
E la rivoluzione?
«Oggi no,
Domani forse,
Ma dopodomani sicuramente».
(Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista, 1992)
25 agosto 1995.
Montesanto, quartiere popolare di Napoli.
Esiste un luogo abbandonato, sconosciuto anche ai suoi abitanti. La malavita sovrasta la vita, le siringhe bucano palloni e le mamme proibiscono ai bambini e alle bambine di frequentarlo. «È la paura della morte che frega», dice uno straniero nella sua stessa terra.
A partire da un’idea nata in una tavolata a Roma, un gruppo di rivoluzionari decide di conquistarlo. Sono accompagnati da una macchina da presa e da un dantesco Virgilio di quartiere, chiave d’accesso per i misteri di Montesanto, voce del silenzio di un microcosmo fino ad allora taciuto.
Salvatore Vitagliano: «Mi piace questo posto, ti ripeto. Già dare un’immagine a questo luogo, visto da più angolature, è come dare qualcosa di positivo alle persone. Ognuno potrebbe pensare di farci qualcosa, come l’abbiamo fatto noi.
(…)
Occuparlo voleva dire addentrarsi nelle cose e viverle, semplicemente.
In ogni caso abbiamo lasciato una traccia, e una traccia significa che qualcuno ti può seguire.
Tu Fiore che vuoi da questa occupazione?».
Fiore, giovane regista trentenne, insieme alla sua troupe anarchica e situazionista, usa il cinema per fare il cinema. Ora, quasi trent’anni dopo, a Bologna, risponde alla domanda che gli pone il pittore Salvatore Vitagliano, domanda che nel 1995 non trova risposta, domanda con la quale si conclude il film La rivoluzione non è più quella.
«Per me l’importante era fare un’occupazione e l’idea era di continuare ad occupare dei posti, dei posti disabitati e renderli abitati e abitabili da chi vive in quei quartieri, ma ovunque. Senza però doverci fissare in un luogo, un’occupazione nomade e permanente, un’azione di per sé».
(Paolo Fiore Angelini)
La troupe si addentra nel quartiere napoletano armata solo del mezzo cinematografico, alla conquista di quello spazio immenso e desideroso di essere vissuto che diventerà il centro sociale DAMM, Diego Armando Maradona Montesanto. E lo farà proprio attraverso il cinema, quella finzione talmente realistica che, consapevole della propria natura illusoria, risulta persino più vera della realtà, in grado di rendere l’idea astratta un progetto concreto.
«Noi mentre filmiamo, stiamo facendo l’occupazione. Abbiamo usato una macchina da presa che era già antica allora. L’idea era di usare una macchina da presa vistosa per l’effetto del pifferaio magico».
(Paolo Fiore Angelini)
Durante l’occupazione, l’esplicitazione dello strumento cinematografico attraverso l’utilizzo di una grande cinepresa a 16mm, crea un fermento comune, plurimo, ma tendente nella medesima direzione, manifestazione di un sogno collettivo di cui il cinema in quanto visione e in quanto produzione si fa portavoce. Il quartiere napoletano viene pervaso dalla meraviglia – intesa nella sua accezione originaria greca -, quel thaûma che mostra il carattere dialettico e perturbante di questo sentimento: estraneo e familiare, lontano e vicino, spaventoso e meraviglioso.
«Infatti, gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. (…) Chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere, ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia».
(Aristotele, Metafisica)
Quest’occhio puro che osserva, che scruta e che disvela la vita, alleggia nel sottosuolo di Montesanto, documentando, poetizzando e scoprendo una realtà da sempre presente, ma solo nella sua assenza. In questo modo, attraverso una sintesi tra la contemporaneità della tecnica cinematografica e l’ancestrale sentimento della meraviglia, l’azione collettiva della troupe rivoluzionaria richiama gli abitanti nel loro quartiere e li trasforma, trasformando quella contingenza in passione. Ed è così che, direbbe Nietzsche, «il mondo vero finì per diventare favola».
«Era tutto giocato tra il reale e qualcos’altro. In questo film di reale ci può essere di tutto e niente. C’è una scena che ogni volta che la vedo mi emoziona, quando arriva la polizia e tutti i bambini cominciano a gridare, ma ci sono solo tre poliziotti. Eppure, quella scena mi ha fatto pensare che in realtà di poliziotti ce n’era molti di più. Poi come reazione arrivano le madri con i pargoli che gridano. Mi viene in mente Lisistrata, mi viene in mente Aristofane, mi viene in mente il teatro greco. È successo per davvero, ma è comunque qualcosa che rimane nel mondo della fantasia. Per questo ho giocato con questi elementi, mi sembrava giusto farlo, tutto lì».
(Paolo Fiore Angelini)
La potenza del cinema risiede proprio in quel labile confine, nel quale realtà e finzione si intrecciano in un divenire in eterno movimento, nel quale, ribaltando Nietzsche, «la favola finì per diventare mondo vero».
«Questo film da una parte è un film realista, e dall’altra è un film mitico. Racconta qualcosa che forse non c’è mai stato, non c’è mai stata la rivoluzione, però solo così si possono raccontare le storie. Infatti, le storie di questi racconti ritornano nella realtà, e in questo caso questa storia “mitica” ritorna al mondo reale nella forma di un luogo tutt’ora esistente che è servito a persone di estrazione differente per trovarsi e confrontarsi. Il DAMM è stata una palestra di pugilato, un doposcuola per i bambini, un centro d’assistenza medica. È stato tante cose, non so esattamente cos’è oggi».
(Paolo Fiore Angelini)
Ma dove finisce il film e inizia la rivoluzione? E dove finisce la rivoluzione e inizia il film?
Ma soprattutto, chi è a fare la rivoluzione? Una troupe di origine borghese o dei ragazzi di vita del sottoproletariato napoletano?
«Intanto non l’ho detta io questa cosa del mitico e del reale, è un’espressione di Pasolini. Dobbiamo cercare delle cose mitiche per capire che cosa succede nella realtà, per vivere la realtà, per essere nella realtà. Io credo questo. Ora, non so neanche più se l’immagine può avere questo ruolo. Ci sono tantissimi film, tantissime immagini».
(Paolo Fiore Angelini)
Le immagini hanno smarrito la loro valenza rivoluzionaria. Quelle immagini che dalla caverna platonica al Grand Café di Parigi dei fratelli Lumière hanno accompagnato nella meraviglia l’evoluzione dell’uomo, nella contemporaneità hanno raggiunto il loro grado di totale alienazione, omologata nella e dalla egemonia culturale occidentale, divenendo il capitale a un nuovo livello di accumulazione.
«Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un unico insieme, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto di sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, realizzata, nel mondo dell’immagine resa autonoma, in cui il mentitore mente a se stesso. Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente. (…) Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini. (…) Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza; e l’unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione generalizzata».
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1968)
Ora, nella contemporaneità, in quel puzzle composto da infiniti pezzi diversi, nella superficie profonda di un’acqua in cui non si riesce più a galleggiare, le illusioni si sono dimenticate della loro natura illusoria, e si impongono come verità, reprimendo e negando ogni tipo di dissenso.
Sembra che nemmeno il cinema – altra illusione ma consapevole di essere tale – possa incarnare la sua finalità originaria, anarchica e fenomenologica, volta a imprimere al divenire del reale il carattere dell’essere cinematografico. Eppure, questa troupe ci è riuscita.
Attraverso il cinema e con il cinema ha occupato un luogo, l’ha reso libero, restituendolo ai legittimi abitanti, vivificandolo e rendendolo finalmente reale.
Nell’agosto nel 1995, a Montesanto, in un tempo in cui la grande rivoluzione non si era realizzata, in cui la rivoluzione liberista si stava invece imponendo sempre di più e in cui le possibilità di un’alternativa venivano sempre meno, la troupe di Fiore insieme alla fauna del quartiere napoletano, in direzione ostinata e contraria, hanno fatto la loro rivoluzione. Quasi trent’anni dopo il DAMM è ancora vivo e, a modo suo, prova a immaginarsi felice.
«Che fare oggi? Eh, è una domanda difficile. Non lo so.
Non ti so rispondere, è una domanda a cui non so rispondere.
Non lo so. Veramente. Non lo so…
Ci vuole un’idea. Forse basta un’idea».
(Paolo Fiore Angelini)
Film La rivoluzione non è più quella (1995) di Paolo Fiore Angelini