Diretto da Gus Van Sant, al suo terzo film, My Own Private Idaho è uscito nelle sale nel 1991. In poco tempo è diventato un film riconosciuto nella cultura pop e si è guadagnato un posto importante nel filone cinematografico che negli anni anni Novanta è stato definito New Queer Cinema.

Fin dalla bellissima sequenza iniziale notiamo come la libertà espressiva sia alla base di My Own Private Idaho. Sottolineata dalla capacità registica che Van Sant porterà avanti anche nella struttura del film.
Mike, il protagonista, interpretato magistralmente da River Phoenix, è un giovane ragazzo tossicodipendente che soffre di narcolessia e vive in una sorta di comune con altri coetanei. Tra questi c’è Scott (Keanu Reeves), al quale è unito da un forte legame.
Il film non ha una struttura lineare, il ritmo è scandito dal cambio di città cui i protagonisti vanno incontro durante le loro giornate fatte di vagabondaggio.
Nella scena iniziale vediamo Mike lungo una strada dritta, di cui non si scorge la fine. Il ragazzo ci comunica di avere l’impressione di essere già stato lì. Il paesaggio naturale, interrotto dalla strada, viene inquadrato assieme al cielo. Quest’ultimo in time-lapse. Poi il punto di vista del protagonista si interrompe per un attacco di narcolessia.
Ecco allora che assistiamo allo scorrere nella mente del protagonista di immagini che richiamano l’infanzia, una figura materna, una casa. A queste immagini di serenità segue una casa che precipita dall’alto e va in frantumi. A questo punto entriamo in My Own Private Idaho.
Abbiamo assistito alle immagini che scorrevano nella mente del protagonista durante una fellatio e un seguente orgasmo. L’inquadratura del volto di Mike che riceve piacere ricorda quella di Blowjob, girato da Andy Warhol nel 1964.

L’uomo che compie l’atto sul giovane non viene inquadrato, o meglio, il suo volto non viene messo a fuoco. Non è importante. Questo è il modo in cui Mike si guadagna da vivere, ottiene i soldi per comprare la droga e continuare a spostarsi di città in città. Durante questi momenti nella sua mente si susseguono immagini di pace e di amore, che restano un’utopia davanti alla degradazione degli atti sessuali svuotati di ogni piacere emotivo.
Ammiccando pesantemente al cinema di Pier Paolo Pasolini, Van Sant ci introduce in uno scenario urbano nel quale la prostituzione dei giovani ragazzi è una normalità. Le strade di Seattle sono riprese come dipinti popolati da giovani prostituti. Nei loro occhi si può leggere una melanconica gaiezza nel continuare a vivere la strada. Gli orientamenti sessuali non vengono mai specificati nel film.
Mike e gli altri personaggi, maschili o femminili che siano, agiscono sessualmente o affettivamente verso i sessi senza nessuna retorica. La spontaneità del gesto infonde tenerezza e spaesamento emotivo in tutta la pellicola.
Meravigliosa la scena in cui il regista riprende i protagonisti su delle riviste maschili in edicola e li fa interagire con lo spettatore. L’attenzione al corpo maschile viene a questo punto esplicitata, ma a essere al centro dell’attenzione non sarà solo il corpo. Sarà l’idea stessa di virilità a essere messa in dubbio.

L’ambientazione del film a questo punto si sposta a Portland e qui entra in scena un personaggio, Pigeon, che è una sorta di rivisitazione urban anni Novanta dello Scrooge di Dickens. Egli si prende cura dei ragazzi, a volte intrattiene scambi sessuali con loro, organizza retate e furti. In particolare il personaggio di Scott (Reeves) vi è legato in maniera particolare.
Qui viene introdotto un elemento fondamentale che ammicca all’Enrico IV shakespeariano. Scott è il figlio del sindaco, ha rifiutato la sua vita borghese e ha fatto di Pigeon una sorta di nuovo padre modello per la vita on the road che ha scelto.
Nel personaggio dell’adulto Pigeon è visibile, seppure non in maniera palese, un preciso retaggio figlio della mascolinità tossica con cui è cresciuto. A proposito di ciò, assistiamo successivamente al confronto tra Scott e il suo padre naturale. Un borghese avanti con l’età che parla dei gusti sessuali di suo figlio come «una punizione divina per lui».
Vediamo qui la retorica patriarcale al massimo della sua esposizione. Un richiamo cattolico al giudizio divino per chi non si inserisce nel binarismo sociale di genere, appoggiando l’idea di famiglia tradizionale. Quando Scott, in risposta, lo abbraccia, il padre comincia a palesare con un tremore il disagio di un abbraccio mascolino.
Torniamo al protagonista. Le giornate, e lo scorrere dello stesso film, è scandito dalle crisi narcolettiche di Mike. Egli va incontro a narcolessia ogni qualvolta si presenti dinanzi a lui un fattore di stress emotivo. Il suo lacaniano desiderio di rivedersi completo tra le braccia benevole di sua madre lo convince a partire per cercarla. Ecco allora che l’azione si sposta in Idaho.
Qui vediamo Mike e Scott lungo la strada che abbiamo potuto vedere nella prima scena del film. La strada che porta a tutte le strade, il posto in cui Mike è nato e cresciuto. A questo punto assistiamo alla scena cardine della pellicola. Durante la notte i due ragazzi, attorno a un falò, si aprono a vicenda come mai nel film era successo prima. L’emotività viene fuori e lo fa in maniera potente. La scena in questione è stata scritta e suggerita dallo stesso River Phoenix.

Mike: «Con una famiglia normale e una buona educazione ora sarei una persona equilibrata».
Scott: «Cosa vuol dire un padre normale?».
In questo dialogo, qui sintetizzato, assistiamo a una generazione di giovani che fanno i conti con i propri padri. Per padri si intende quel sistema normativo ed educativo da cui si è chiamati a staccarsi e che andrebbe sempre messo in discussione.
Il viaggio prosegue. Dopo un poco felice incontro con suo fratello, Mike viene a sapere che sua madre è volata in Italia. A Roma. Nelle scene girate nella capitale, il richiamo a Pasolini è ancora più palese.

La ricerca fallisce, si complica. Il viaggio in Italia tuttavia costa una perdita per il protagonista. Scott infatti si innamorerà di una ragazza e deciderà di cambiare vita ribaltando la parabola shakespeariana precedente. Di ritorno a Portland Mike sarà ancora solo, lungo le sue strade immaginarie e fisiche; combattendo il demone del passato che si annida nel profondo della sua paura di esternarsi al mondo. Intanto la morte di Pigeon, oltre che del sindaco padre di Scott, porterà i due ragazzi a rivedersi in occasione dei due funerali.
Mike: «Sono un esperto di strade. È tutta la vita che io assaggio strade. Questa strada non finirà mai. Probabilmente, gira tutta attorno al mondo».
My Own Private Idaho è un film che ci racconta la parabola di una generazione che negli anni Novanta cercava le conferme della propria differenza con il passato. La fluidità dell’idea di gender che il film ci propone è in piana linea con gli studi contemporanei alla realizzazione della pellicola.
A essere messe in discussione sono le istituzioni principali che accompagnano lo sviluppo dei ragazzi e delle ragazze. La religione, la scuola (nella sua assenza è presente a livello critico), la famiglia, il rapporto con il mondo adulto incapace di comunicare con emotività a dei giovani che per lo stesso motivo si ritrovano a dover atrofizzare i propri sentimenti.

La ricerca della propria identità, con la regressione all’infanzia, che ricorda il meraviglioso Paris, Texas di Wim Wenders, è l’unico modo che Mike ha per ritrovarsi e ritrovare il mondo che gli si prospetta davanti agli occhi. Ogni strada appare uguale e svuotata di senso, come le sue giornate.
Ogni strada tranne quella che conduce al ricordo delle braccia sincere che lo hanno accudito offrendogli riparo. Braccia di cui, orfano, è rimasta la condanna della malattia. La narcolessia si impossessa dell’emotività del protagonista, diventando la pellicola che lo separa da se stesso.
«Strano vagare nella nebbia, vivere è solitudine, nessun essere conosce l’altro», recitava Hermann Hesse nella bellissima poesia Nella nebbia. Van Sant sembra sposare questa posizione. Tuttavia il funerale che chiude il film sembra trasformare la smorfia di dolore dei personaggi in sorrisi beffardi.
La vita è sofferenza, ma nella tragedia c’è quasi del comico. I due funerali sono messi in parallelo. La tristezza regna sui volti dei borghesi riuniti per salutare il sindaco, tra cui suo figlio Scott. Mentre risate, urla e una situazione da Freaks out riecheggia a pochi passi durante il funerale di Pigeon.
Con questo finale Van Sant sembra volerci dire che non vale la pena trovare un senso di pienezza, se ciò vuol dire conformarsi. Un inno alla vita di strada e un affronto al concetto di sicurezza.

In coerenza con tutta la pellicola, ci pare di avvertire come la sensazione di spaesamento nella vita sia la vita stessa. La capacità di viverla passa dallo scontro con se stessi e con la propria identità, con tutte le categorie che il discorso identitario abbraccia in sé. Nella difficoltà della sua tragica vita, Mike ha imparato a conoscere il dolore e forse maggiormente se stesso. Egli può allora nel finale sorridere.
