Intervista a Marco Martinelli, regista di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

Francesco Malgeri

Ottobre 29, 2018

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Marco Martinelli, regista cresciuto e sviluppatosi a teatro, esordisce sul grande schermo con un film che ha travolto il Ravenna Nightmare Film FestivalVita agli arresti di Aung San Suu Kyi, ovvero il racconto degli anni di domicilio forzato che la madre dei diritti umani birmani ha dovuto patire per un ventennio.

Aung San Suu Kyi
Aung San Suu Kyi

Un cinema teatrale, un teatro cinematografico. In qualunque modo lo si inquadri, è necessario partire dalla tradizione poetica del sipario, da cui Marco Martinelli proviene e di cui è maestro, per parlare di questo film. Interamente girato all’interno del teatro di Ravenna, troviamo performance magnifiche di attori cresciuti insieme al regista. Un film che appartiene alla dimensione dell’atto e dello sguardo scenico; una dimensione sospesa, che racchiude la narrazione a tinte brechtiane compiuta da Martinelli, ma che allo stesso tempo si lascia contagiare dalla concezione orientale del teatro di Antonin Artaud.

Cartelli che annunciano l’apertura dei capitoli in maniera quasi violenta, sguardi e voci dei protagonisti che abbattono la quarta parete rivolgendosi direttamente a noi, spingendoci a prendere parte alla narrazione, a giudicare, a lasciarci coinvolgere intellettualmente e al contempo umanamente, senza essere troppo ragionevoli.

Aung San Suu Kyi

Ciò che viene raccontato, in sequenze che ricordano in modo particolare il primo cinema di Jean-Luc Godard, è l’annichilimento, lo svilimento della vita intesa in senso genuino, essenziale.

Aung San Suu Kyi non compie opere eccezionali; tutto ciò per cui ella combatte è il semplice diritto dell’uomo di non abbassare la testa, di non farsi necessariamente schiacciare da un potere che trascende l’umanità, poiché composto da odio, egoismo, falsità, totale assenza di vergogna.

Fuggire, innalzarsi dalla vacuità delle parole, dalla Libertà che diventa etichetta, dall’Uguaglianza che diventa slogan, dall’ingenuità che viene svilita e dimenticata come un passatempo infantile; da quell’unica prerogativa che poggia sul maggior numero di copie vendute, su quale miglior soprannome altisonante affibbiare a una donna costretta a sacrificare vent’anni della sua vita. Non resta che un richiamo alla purezza, incarnato dalle meravigliose bambine che danzano in forme quasi simboliche, all’ingenuità che non ha bisogno di parole poiché si manifesta al di là delle parole.

Aung San Suu Kyi
Una scena del film “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”

Costruito, orchestrato, diretto meravigliosamente da Marco Martinelli, che abbiamo avuto l’immenso onore di intervistare a proiezione conclusa. Intervista da noi fedelmente e orgogliosamente riportata:

Depositario sincero di quell’ingenuità che ci ha mostrato nella sua opera, sin dal principio ci ha tenuto che gli dessimo del “Tu”.

Caro Marco, è stato un grande onore per noi essere qui, per la proiezione della tua opera, e ora per poterne parlare con te. Come iniziare?
Beh, forse proprio dal teatro. La sua dimensione, intesa come sospensione, come innalzamento da un mondo fatto di parole, di etichette, per ritrovare, riabbracciare una dimensione d’innocenza. Quant’è necessario, in nome del ritrovamento della purezza incarnata dalle bambine e dalla stessa Aung San Suu Kyi, innalzarsi, sospendersi, sollevarsi?

Marco Martinelli

Vedi, tocchi un nodo assolutamente necessario da toccare, un nodo molto profondo che non riguarda solo l’oggi; andando a rileggere i testi greci, Platone, ci si rende conto che si è sempre lì. L’umanità è incatenata nella grotta tra realtà, menzogna, illusione…

Come se il teatro stesse un po’ a rappresentare la forma d’arte in sé, la forma d’arte che curva la linearità del mondo. Il teatro inteso dunque come L’arte?

Marco Martinelli

Sì, sì, ad esempio ne Le bucoliche di Virgilio, per andare a un testo di duemila e passa anni fa, il mondo è devastato dalla guerra, e ci sono questi contadini che cantano, suonano il flauto, e compongono poesia, fanno poesia, creano bellezza. E a un certo punto uno dice all’altro: «Cosa possono le colombe della nostra poesia davanti alle aquile della guerra?». La domanda è sempre quella, è già implicita, però è il fatto stesso che continuiamo, con le nostre colombe, a cantare e a creare bellezza… a dispetto di tutto. Come mostrano le ranocchiette nel finale del film; siamo noi le ranocchiette, siamo noi che non ci arrendiamo, che cerchiamo la nostra strada per riuscire a far parte del mondo, la stessa strada intrapresa in passato dai nostri maestri.

Ecco, in questo senso, ho rivisto nel film moltissimo di Godard, del cinema brechtiano di Godard. 

Marco Martinelli

Pensa, Godard non è tra gli autori che io frequento, che ho frequentato di più, ma allo stesso tempo sento a volte il bisogno di ascoltarlo, di andare a sentire qualche sua dichiarazione. Questo perché Godard è anche molto disincantato, è Brecht all’ennesima potenza, mentre io ho con Brecht una più un rapporto di amore e odio, da una parte sono con lui, dall’altra invece no, ho bisogno d’incanto, ho bisogno di perdermi nell’immagine.

Beh, alla fine l’ultima cosa che Aung San Suu Kyi dice al geco è che l’oscurità c’è sempre stata, e la luce è più recente; questo può voler dire che la luce è umana, nonostante venga mostrata la parte oscura dell’uomo, la luce è più umana dell’oscurità stessa?

Marco Martinelli

Certamente, altrimenti non tenderemmo al paradiso, ci accontenteremmo dell’inferno; e quando ci accontentiamo del buio e dell’inferno vuol dire che non c’è più umanità, che siamo stati trasformati contro noi stessi.

Io ho visto anche un sacco di Artaud, nel momento in cui è stata innalzata la purezza delle bambine, nel momento in cui sono stati dipinti i volti, quando hanno cominciato a cantare intorno ad Aung San Suu Kyi, in modo quasi geroglifico, simbolico, come se non servisse più la parola, come se non esistesse altro modo se non l’innalzarsi, per l’appunto, con le danze, con i colori… Con il non saper ancora razionalizzare, in un  certo senso…

Marco Martinelli

Sì, ma infatti è giusto il tuo riferimento ad Artaud, perché Artaud è proprio il contraltare di Brecht, e il mio teatro è da sempre una sorta di oscillazione tra i due poli, come se uno avesse bisogno dell’altro per trovare verità. Ad esempio io non sarei mai in grado di concepire un teatro col solo corpo, poiché adoro la parola. La parola per me è necessaria come l’aria. Però appunto, la risposta sta in questa dialettica del contrario, dell’apparente contrario.

Comunque il conflitto è alla base dell’arte. Io vedo numerosi elementi di conflitto anche all’interno del film, non solo tra Artaud e Brecht. Ad esempio la figura del primo generale militare, quello che balla il tip tap, estremamente contrapposta a quella del generale pelato, che invece è fermo, immobile. C’è un motivo dietro questa scelta, di questo scontro formale tra i generali?

Marco Martinelli

Ma sai, loro sono tre miei attori che lavorano con me da quando avevano quattordici anni, e adesso ne hanno quasi quaranta. Li conosco, sono cresciuti con me, è naturale pensare prima di tutto alla creatura che hai davanti. In questo caso, il tip tap è venuto su Max, l’attore, quasi naturalmente, perché ha una tale leggerezza, con quei suoi orecchini… c’è questa particolarità in lui. Roberto (l’attore che interpreta il primo dei generali), invece, è un cannibale, si divorerebbe i compagni in scena, quindi c’è una scrittura a partire dagli attori che già lavorano con me da anni.

Io una domanda che volevo farle riguarda il valore dell’ingenuità, nelle sue due forme: quella ordinaria, incarnata dalla bambina, quasi inconsapevole della sua ingenuità, e quella straordinaria di Aung San Suu Kyi, la quale riporta in auge il bisogno dell’ingenuo; ma tutti coloro che non possono più stare nell’inconsapevolezza, e che non hanno la capacità di capire quanto si abbia bisogno dell’ingenuo, come educarli, come educarci al bisogno dell’ingenuo?

Marco Martinelli

Penso sia implicito in ciò che ci dice Aung San Suu Kyi, «lascia stare la straordinarietà di quei vent’anni». Questo perché tutto ciò che lei ha fatto, fondamentalmente, è stato non abbassare la testa. Questo vale per ognuno di noi, in qualunque momento della nostra vita e del nostro lavoro, perché soprattutto nell’ambito del lavoro è possibile diventare degli schiavi, magari ben pagati, ma comunque degli schiavi che rinunciano alla propria dignità. Questa è la grande lezione di Aung San Suu Kyi, di Gandhi, di Buddha e di Gesù stesso. Sono figure che ci dicono che è ancora possibile. Che tu faccia lo spazzino, che tu sia un uomo politico.

Riguardo invece una tendenza del cinema italiano in questo momento, che tende un po’ a ignorare il lato onirico, il lato surreale presente in questo film, ad andare spesso sul reale, sul realistico. È possibile educare a un nuovo sguardo all’oltre, all’etereo, alla sospensione?

Marco Martinelli

Beh, dipende tutto dalla nostra biografia, da quello che ci muove, dalle possibilità di nutrirci che abbiamo tutti. Poi dipende da dov’è che ti batte il cuore, dalla circolazione del tuo sangue. Dopotutto oramai i mezzi per conoscere, per informarsi li hanno tutti; poi esistono una moltitudine di mezzi imponderabili. Un regista come Garrone, che peraltro conosco da quando era adolescente, ha la grande capacità di guardare all’alto, all’oltre pur mantenendo uno stile registico reale, realistico. Un interscambio tra il mio teatro e il suo cinema c’è sempre stato, ad esempio i bambini che appaiono a Scampia, nel film Gomorra, provengono dalla mia fucina teatrale. Un’altra figura che apprezzo e che conosco personalmente è Alice Rohrwacher: nel suo sguardo, nel suo guardare l’altro che magicamente si innalza, diventa un guardare all’alto. E nel mio film gli elementi che creano questo tipo di sospensione sono certamente presenti.

Un’ultima domanda che volevo farle riguarda il lavoro con le bambine. Essendo il soggetto partito dall’idea di un’unica bambina, com’è stato possibile inglobare tale moltitudine di volti e comunicare a tutte loro questo tipo di poesia?

Marco Martinelli

Vedi, loro sono già poesia. Il problema del regista è canalizzare questa poesia in un lavoro, in un artificio, riuscire a costruire un’immagine, un’inquadratura, un’azione che non disperda la poesia di cui loro sono già portatrici. Loro sono il fiume, l’acqua viva, è necessario costruire bene gli argini per far sì che quest’acqua viva resti pulsante e comunicante.

Ci è riuscito alla perfezione.

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