Perché in The Irishman di Scorsese non ci sono i Rolling Stones
«Negli anni dell’epoca formativa dei Rolling Stones la loro musica era davvero essenziale per me, io con la musica ci vivevo. Alla fine, la loro musica ha alimentato film come Mean Streets e non solo. Toro scatenato fino a un certo punto, ma certamente Quei bravi ragazzi e Casinò. (…) Mean Streets ha un debito verso gli Stones. Addirittura, la visualizzazione di scene e sequenze in questo film deriva in larga parte dalla loro musica, dall’aver vissuto e ascoltato la loro musica. (…) Non ne ero consapevole, io mi limitavo ad ascoltare la musica, poi immaginavo le scene nei film. E il ruolo degli attori. Non si trattava semplicemente di immaginare la scena di una carrellata sul volto di una persona o una sequenza in macchina. Era davvero come trasportare nei film gesti ed avvenimenti della mia stessa vita, quasi volessi interpretarla, per farne una storia. E avevo la sensazione che quelle canzoni mi ispiravano a realizzare tutto questo. Mi permettevano di farne un film, mi indicavano un modo per trasferire quelle storie in un film. Confesso che il mio debito è incalcolabile»
Così parlò Scorsese.
Nietzsche diceva che la vita senza la musica sarebbe un errore, il regista italo americano non sarebbe stato che d’accordo.
Martin Scorsese aveva 20 anni quando la sintesi creativa ed esistenziale di Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones trovò la sua prima autentica manifestazione. Sarebbe bello riuscire almeno ad immaginare cosa accadde, quali contingenze trasformate in passione si siano realizzate perché il giovane Martin, un emarginato della Little Italy che si era da poco iscritto all’università di cinematografia a New York, ascoltò per la prima volta la musica dei Rolling Stones. Oppure quando a 27 anni, dopo aver scritto e diretto il suo primo lungometraggio Chi sta bussando alla mia porta, iniziando così il sodalizio con Harvey Keitel, si recò in un negozio di dischi, facendo proprio l’album Let It Bleed e meravigliandosi, nel senso aristotelico del termine, di opere d’arte quali “Gimme Shelter”. Sì, quella “Gimme Shelter” che fa da sfondo alle parole di Henry Hill di Quei bravi ragazzi, Sam e Nicky di Casinò e Frank Costello di The Departed.
A detta del regista, quando si è allevati a Little Italy si può diventare un prete o un gangster, ma Martin Scorsese non poteva essere né l’uno né l’altro. L’asma e la piccola statura non gli permisero di entrare in una gang, e la religione, per quanto fondamentale nella costituzione del soggetto scorsesiano, non rispose a tutte le domande. Infatti, il cineasta ha dichiarato che è stato il rock ‘n’ roll a “salvarlo” dalla sua vocazione sacerdotale. Il giovane ragazzo era confinato in un mondo che non gli permetteva di muoversi, poiché, da straniero nel suo stesso Paese, viveva una vita da spettatore, necessitando così una realtà per poter rivelarsi ed esprimersi nella più totale libertà. Martin Scorsese ascolta il Rock e incarna lo spirito di ribellione di un’intera generazione, progettandosi come soggetto creativo libero, superando conflitti esistenziali e seguendo quella luce che fu per molto tempo la sua unica apertura verso il mondo esterno: il cinema.
A 31 anni, con il primo gangster movie Mean Streets, Martin Scorsese decide di narrare il racconto di sé stesso, di mettere in scena i propri demoni e conflitti, immerso in un costante rapporto dialettico tra ciò che è bene e ciò che è male. Ed è proprio qui che il sodalizio con i Rolling Stones ebbe inizio; creando un flusso di immagini da sentire e suoni da vedere, il regista narrò la storia di Charlie Cappa al ritmo di Tell me.
Il cinema gangster di Scorsese, attraverso una narrazione consapevole di sé stessa e capace di smascherare il reale, mostra un mondo corrotto che condanna chi vi si trova gettato, racconta di personaggi avvolti da un’irrefrenabile volontà di potere, conquistabile solo da una necessaria, cruda e spietata violenza.
E infatti, da bravo ragazzo, Scorsese ascolta i Rolling Stones e non i Beatles, narra di antieroi e non di eroi, canta “Burn down this town” e non “I want to hold your hand”.
Il cineasta, confessando l’infinita influenza che la band inglese ebbe sulla sua vita esistenziale, riconosce la folgorante sintesi tra Rock e Blues dei Rolling Stones come essenziale per il proprio cinema; una fonte di ispirazione dalle sfumature metafisiche che gli indicò la strada per trovare una logica nel caos che vagava nella sua mente, per narrare e superare i propri demoni, per trasformare quelle storie in un film.
In questo senso, il gangster movie di Scorsese non potrebbe esistere senza i Rolling Stones, senza “Let it Loose” in The Departed, “Sweet Virginia” in Casinò e neppure senza “Memo from turner” in Quei bravi ragazzi. Il gruppo britannico ha sempre accompagnato la violenza, i conflitti morali e la sete di potere propria dei gangster scorsesiani.
E allora perché non ci sono i Rolling Stones in The Irishman?
Beh, perché vivere e narrare sono due esperienze profondamente diverse. The Irishman ha permesso a Martin Scorsese di guardare indietro alla sua vita, di osservare le orme dei propri passi passati, di interpretare con una nuova consapevolezza l’accadere del mondo.
Quando Bob (De Niro) e io abbiamo deciso di raccontare questa storia, ho pensato che avremmo potuto imparare qualcosa anche alla nostra età — abbiamo tutti e due 76 anni — e accettare l’idea della mortalità, ammesso che sia possibile farlo. Imparare a vivere con questa consapevolezza. (…) E adesso? Cosa altro ci aspetta? Abbiamo imparato qualcosa? Certamente siamo stati testimoni di un periodo molto stimolante. Io quegli anni li ho vissuti fino in fondo senza fidarmi delle ideologie. Avevo voglia di credere in una società ideale, in un’utopia. Lo volevo veramente anche se ho scoperto che non esiste.
(M. Scorsese)
Pur presentando i classici temi del gangster movie – quali la mafia, l’amore, il tradimento, il (non) pentimento e la morte – nel suo ultimo film, Martin Scorsese racconta di un mondo che si accinge sulla via del crepuscolo, rivelando come, al calar del sole, si rimanga tutti profondamente soli.
Ormai, quei bravi ragazzi sono cresciuti, e sono diventati vecchi. Non ci sono più i goodfellas che si divertono a sparare a un cameriere per mantenere alta la propria immagine di fronte alla “famiglia”, e non ci sono nemmeno più intrighi amorosi come quello di Nicky e Ginger in Casinò, capaci di distruggere le più grandi amicizie.
Scorsese, attraverso l’assenza, racconta come c’erano una volta i gangster, c’era una volta in cui si ascoltava i Rolling Stones.
«Tutto il film, tutta la storia riflette su come siamo quando invecchiamo»
(Robert De Niro)
I gangster di una volta, gli Henry Hill del tempo che fu Quei bravi ragazzi, hanno sempre voluto essere gangster, fin da bambini. I Frank Sheeran di The Irishman, invece, vi ci sono ritrovati, affidando il proprio destino all’imprevedibilità del caso, e accettando di dipingere case.
Il protagonista dell’ultimo film scorsesiano, infatti, è reduce di una guerra che non sembra aver mai abbandonato, poiché indossa ancora la maschera del soldato, di colui che semplicemente obbedisce agli ordini, pur essendo in tempo di pace. Frank, rivelandosi un personaggio tinteggiato da infinite sfumature di grigio, vive un’esistenza passiva, senza essere affetto da qualsivoglia forte emozione e accettando semplicemente l’accadere del mondo. L’irlandese, l’unico personaggio dei gangster movie scorsesiani che rinuncia alla ricerca dell’affermazione di Sé, compie la disillusa scelta di non scegliere, acconsentendo in eterno al volere dell’Altro, poiché “it is what is it”, poiché comunque non ci sarebbe alcuna altra possibilità.
Per la prima volta in un film di Scorsese non ci si può ribellare, per la prima volta si accetta passivamente l’ordine costituito, per la prima volta non si ascolta il rock ‘n’ roll.
Frank rimane solo, insieme alla propria ombra e ai ricordi di tutte quelle case imbiancate, incapace di provare un autentico rimorso né di fronte a Dio né di fronte alla famiglia che ormai lo disconosce. Persino ad un passo dalla morte, l’irlandese non riesce a compiere una scelta degna di questo nome, naufragando così in un mare di apatia. Il protagonista di The Irishman non è un rockettaro, ma forse, e Scorsese lo consiglia, gli converrebbe diventarlo.
Infatti, in quello che ormai non è più un paese per gangster e non è più un paese per i Rolling Stones, Frank Sheeran decide di lasciare la porta aperta; magari qualcuno fuori sta ascoltando “Gimmi Shelter”.
Poiché, come canta l’eterno Neil Young:
«Rock and roll will never die»