1960. In Italia è pronta a esplodere la stagione del superspettacolo d’autore: in un anno, oltre a La ciociara, vengono prodotti La dolce vita di Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e L’avventura di Antonioni. È Vittorio De Sica, coadiuvato dalla penna del fedele Cesare Zavattini, a imboscarsi tra le campagne laziali per dar vita al romanzo di uno degli intellettuali che più ha contribuito all’approdo del cinema italiano alla modernità: Alberto Moravia.
Lontani gli echi della commedia bianca degli anni Trenta, ancora udibili quelli del neorealismo. Ne La ciociara, De Sica prosegue l’opera d’avvicinamento all’individuo travolto dai drammi indotti dalla guerra, iniziata con i film neorealisti Ladri di biciclette, Sciuscià e Umberto D, e affievolitasi per un breve tratto durante il ritorno alla commedia degli anni Cinquanta.
Sophia Loren è il volto di una madre costretta a un’odissea per la sopravvivenza, in fuga da una Roma scossa dai bombardamenti del 1943: un’interpretazione dall’impatto travolgente, che rovescia la sua nomea d’attrice di commedie brillanti come di fatto successe con Anna Magnani nei quindici anni precedenti Roma città aperta, di Roberto Rossellini. Ruolo che varrà a Loren l’Oscar alla miglior attrice e che la consacrerà a star internazionale, prima di proseguire il sodalizio con De Sica durante il filone della Commedia all’italiana (con i successivi Matrimonio all’italiana e Ieri, oggi, domani in prima linea).
La ciociara è un film che mette in scena la sconfitta dei puri, il fragile equilibrio della speranza, il sacrificarsi in nome di quell’ideale di libertà incarnato dal personaggio di Jean-Paul Belmondo, giovane antifascista che andrà inesorabilmente incontro alla morte.
Sophia Loren, nel film Cesira, si fa carico di una dimensione drammatica che segnerà l’approccio alla figura della donna del cinema italiano, facendo cadere ogni Cenerentola e dando il via a una tradizione di volti al femminile perpetuata, tra le altre, da Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene di Pietrangeli e da Monica Vitti nel Deserto Rosso di Antonioni.
È un percorso che compie mano nella mano con la figlia Rosetta, di dodici anni, in fuga dall’orrore, alla ricerca di un qualche lido che custodisca le (poche) restanti illusioni infantili della bambina. Loro due contro il mondo, sballottate da un rifugio all’altro fino al fatale incontro con dei soldati marocchini che violenteranno entrambe. Con la stessa sensibilità mostrata ne I bambini ci guardano e Sciuscià, De Sica posa lo sguardo su Rosetta, la quale si fa simbolo di un’Italia mutilata, oltraggiata, che non sarebbe mai sopravvissuta senza lo schermo della madre a proteggerla, non dissimilmente da quanto succederà nei quarant’anni successivi La vita è bella di Benigni.
Durante la scena della violenza, De Sica sofferma la camera sugli occhi terrorizzati della bambina, alternandoli a quelli della madre che a loro volta cercano quelli della figlia, per poi dissolvere la scena sui loro corpi sdraiati, violati, segnati per sempre. E il successivo prostrarsi di Cesira di fronte al passaggio di un gruppo di soldati francesi, colmo di rabbia e disperazione, consegna al cinema italiano una delle scene più intense e impattanti della sua storia.
Cesira: «Lo sapete che hanno fatto quei turchi che comandate voialtri? Lo sapete quello che hanno avuto il coraggio di fa’, in un luogo consacrato, sotto gli occhi della Madonna? Ditelo! Lo sapete?».
Soldati francesi: «Pace, pace!».
Cesira: «Sì, pace, bella pace! Me l’avete rovinata per sempre questa figlia, adesso è peggio che morta! No, io non so matta, non so matta! Guardate! (mostra ai soldati il volto devastato di Rosetta) Ecco, guardate, dite ancora che so matta?».
Il silenzio e l’apatia in cui si rinchiude Rosetta, la quale rifugge anche il pianto, è metafora della condizione dell’Italia nell’immediato dopoguerra; non le rimane che l’abbraccio della madre, durante il quale si lasciano entrambe andare, finalmente, alle lacrime.
La ciociara termina così: il campo si allarga, l’obiettivo indietreggia, e il quadro si restringe, fino a venir risucchiato, fatalmente, nell’oscurità.
Cesira: «Figlia mia, perdonami!».